Sandro Viola, su Repubblica di ieri, ha scritto un articolo mirabile, quasi perfetto (sarebbe stato perfetto se pubblicato prima, quando la prova del budino elettorale non c’era ancora ma la cottura del processo democratico era già cominciata, e si era rimasti in pochi a sperare che non sarebbe finito carbonizzato). In quell’articolo, che abbiamo invidiato a Repubblica, Sandro Viola pone la seguente domanda: come si può tripudiare per le elezioni, e dichiararsene persino commossi, ma allo stesso tempo ribadire che la guerra era sbagliata? Senza la guerra non ci sarebbero state le elezioni, e questo è un fatto. La contestazione è rivolta al New York Times, alla stampa europea e a quella italiana, Repubblica compresa. E implicitamente a tutti coloro che, come scrive Battista sul Corriere, ora applaudono le elezioni «fermo restando che» la guerra era sbagliata.
Viola (e Battista) hanno ovviamente ragione. Niente guerra, niente elezioni. Niente guerra, solo Saddam. E’ esattamente il ragionamento che spinse questo piccolo giornale, che pur viene da una costola della sinistra, a dire sì alla guerra: giusta anche se illegittima, come scrivemmo allora. Giusta perché avrebbe prodotto il rovesciamento di un’orrenda tirannia e la liberazione di un popolo che se la meritava quanto ogni popolo. Gli allarmati cantori odierni dei diritti della minoranza sunnita, la cui autoesclusione certificherebbe il carattere farsesco delle elezioni, non cantavano allora per i diritti della maggioranza sciita e della minoranza curda, che Saddam aveva a seconda dei casi calpestato, conculcato, torturato o gasato. Per noi, e per molti interventisti democratici della sinistra liberale europea e americana, la storia delle armi di distruzione di massa era solo un argomento usato da Bush e Blair per forzare uno statuto dell’Onu vecchio e superato, che non contempla il diritto di ingerenza umanitaria, cioè la possibilità di difendere i popoli dai loro governanti. Per noi l’arma di distruzione di massa era Saddam, e anche una guerra, sì, anche una guerra, poteva rivelarsi giusta se lo estirpava per sempre dal suolo del Medio Oriente. (Per questo la guerra resta giusta anche senza le armi di distruzione di massa). L’estirpazione di Saddam - aggiungevamo poi - avrebbe potuto avere effetti benefici in tutta l’area, dove non era un’idea poi così insensata quella di aprire uno shopping center di democrazia, giusto per far venire l’acquolina in bocca al resto del mondo arabo.
In tutto il terribile dopo-guerra, abbiamo perserverato nel dire: giudicheremo l’efficacia dello strumento usato - la guerra - da questi due test: tra dieci anni, gli iracheni saranno più liberi e staranno meglio? Il Medioriente sarà più libero e più pacifico? Il tempo per emettere il verdetto finale non è ancora arrivato. Ma ammetterete che, come inizio, le elezioni irachene sono un sogno.
Dunque avremmo avuto ottime ragioni per scrivere noi (non così bene, ovviamente) l’articolo che Sandro Viola ha scritto su Repubblica. Se non l’abbiamo fatto non è solo perché non ci piace maramaldeggiare, ma anche perché maramaldeggiare oggi non serve alla causa che ci ostiniamo a ritenere prioritaria: aiutare l’Iraq. Il sillogismo di Viola (e di Battista) non è infatti a prova di bomba. Nell’opinione pubblica italiana ed europea, oltre che nelle rispettive sinistre, c’è molta gente che è stata contro la guerra per motivi moralmente o politicamente legittimi, e che altrettanto sinceramente oggi può gioire dei vagiti democratici del nuovo Iraq. Si tratta di coloro (non sono pochi) che non erano mossi da ottuso, viscerale, tardocomunista anti-americanismo; ma che ritenevano la guerra un prezzo troppo alto da pagare anche per dare la libertà a un popolo. Certo, non sapevano dirci come altro fare, a liberarsi di Saddam. Certo, non hanno avuto il realismo per scegliere il male minore (per gli iracheni Saddam era il male maggiore) e non hanno avuto il fegato di saltare sul carro di un presidente americano in cerca di vendetta dopo l’11 settembre e circondato da consiglieri con ambizioni neo-imperiali pur di liberare gli iracheni (e gli afghani, non dimentichiamoli). Gente che non ce l’ha fatta a riconoscere che Bush ha commesso molti errori, ma che aveva fatto la cosa giusta. Gente che la guerra mai, e anche gente che degli iracheni gliene importava sì, ma non quanto gli importasse della mitica stabilità internazionale, cioè lo status quo. Gente che l’assenza di guerra la chiama pace, e pensa che sia un bene superiore alla libertà. Gente cui però non si può negare oggi di esternare - se la provano - la stessa felicità che proviamo noi «guerrieri» per la libertà conquistata dagli iracheni; gente ansiosa - come noi - di vederne dell’altra di libertà, di vederla presto tutta, perché è un bene indivisibile.
A tutta questa gente non si deve chiedere oggi un mea culpa, non serve se si vuole conquistarla a uno sforzo comune per portare fino in fondo il processo avviato a Baghdad. E alla sinistra italiana (quella buona) non serve chiedere autodafè. Errori ne hanno commessi, e gravi, ma quello peggiore non fu opporsi alla guerra; fu, a guerra finita, opporsi a che l’Italia e l’Europa andassero laggiù a dare una mano. Questo è l’errore di cui possono e devono emendarsi. A tutti costoro oggi dobbiamo dire solo una cosa: la coalizione che sta accompagnando gli iracheni fuori dal tunnel e li sta proteggendo dal terrore e dalla barbarie di Zarqawi è composta ormai in sostanza da tre paesi, Usa, Gran Bretagna e Italia. Tutti gli altri membri o si sono già ritirati o hanno già annunciato la data del ritiro. Siamo rimasti solo noi. Dobbiamo rimanere, andare fino in fondo. Rischiare ancora, pagare ancora. Oggi il campo non si divide più tra chi fu per la guerra e chi fu contro, ma tra chi vuole vedere un Iraq democratico e chi non lo vuole. Non è un appello a scordarsi il passato, ma a passare all’ordine del giorno di oggi. Riuscirà almeno una volta il dibattito politico in questo nostro paese a passare dalla metafisica alla fisica?