Pagina 6 di 6 PrimaPrima ... 56
Risultati da 51 a 53 di 53

Discussione: Bush è progressista

  1. #51
    email non funzionante
    Data Registrazione
    06 Mar 2002
    Messaggi
    13,127
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito La tregua di Sharm

    Gerusalemme. Condoleezza Rice ha lasciato il medio oriente con ottimismo. “Tutto quello che sta accadendo in questo periodo – aveva detto il neosegretario di Stato americano al suo arrivo in Israele – offre l’opportunità di ritornare a lavorare sulla road map e a stabilire la creazione di due Stati democratici uno a fianco all’altro”.
    Subito dopo, il ministro palestinese per i Negoziati, Saeb Erekat, ha detto che le due parti sono d’accordo per annunciare oggi, al vertice di Sharm el Sheikh, un cessate il fuoco.
    Novità anche dalla Siria: il presidente Bashar el Assad, dopo un incontro con l’inviato americano Marc Otte, fa sapere che Damasco è disposta a riprendere le trattative di pace con Israele senza condizioni preliminari. Intenzione da verificare.
    Rice si è congratulata con il lavoro del presidente Abu Mazen.
    Gli Stati Uniti guardano con ottimismo alla nuova leadership dell’Autorità nazionale palestinese. L’Amministrazione Bush ha già promesso all’Anp una somma di 40 milioni di dollari nei prossimi tre mesi, come programma d’aiuto per la popolazione della Cisgiordania e di Gaza.
    Washington ha anche proposto l’invio di un “coordinatore per la Sicurezza”, che monitori l’eventuale tregua tra Israele e i palestinesi.
    Il generale William E. Ward è il prescelto dall’Amministrazione; è attesa, a breve, una sua visita nella regione. “Se ci sarà un periodo di calma – ha detto Rice alla Cnn – sarà necessario avere un monitoraggio della situazione”.
    Il segretario di Stato ha chiesto a Israele di non fare passi unilaterali sullo status finale per la definizione dei confini che possano compromettere il futuro delle relazioni con i palestinesi. Ha chiesto al premier israeliano Ariel Sharon di non ritardare il piano di ritiro da Gaza.
    Infine George W. Bush ha invitato separatamente alla Casa Bianca Sharon e Abu Mazen. Gli incontri, ha detto, serviranno a “sviluppare la fiducia reciproca”.
    In un’intervista su Channel 2, Rice ha voluto sottolineare che gli Stati Uniti non vogliono intromettersi troppo: preferiscono lasciare che Israele e Anp siano liberi di negoziare da soli. Secondo Sever Plotzker, analista del quotidiano Yedioth Ahronoth, sarebbe questa la ragione dell’assenza di Rice al summit Sharm al Sheikh.
    “Gli americani non vogliono i riflettori puntati su di loro – dice Plotzker – però sono presenti più che mai”.
    Nonostante l’intervento statunitense sia definito dai portavoce del premier Ariel Sharon come “molto importante”, la stampa israeliana mostra anche qualche preoccupazione.
    “Israele ha paura che gli Stati Uniti possano imporre al governo Sharon di fare concessioni alla controparte, senza avere la certezza di stare dialogando con un vero partner politico – dice al Foglio Gershon Baskin, direttore dell’Israel Palestinian Center – un altro problema è che un coordinatore per la Sicurezza potrebbe impedire a Israele di prendere misure di difesa militari dopo un attentato”.
    Aluf Benn, analista israeliano, sostiene invece sulle pagine del quotidiano Haaretz, che l’obiettivo di Condi Rice è quello di dimostrare ai suoi colleghi europei che la nuova Amministrazione Bush intende aumentare il suo coinvolgimento per cercare una soluzione al conflitto israelo-palestinese.
    Questo sarebbe infatti il prezzo che l’Europa chiede agli Stati Uniti per migliorare le relazioni transatlantiche, che si sono deteriorate con la guerra in Iraq.
    Anche Michel Barnier, ministro degli Esteri francese, che questa sera si incontrerà con la stessa Rice a Parigi, ha lasciato ieri il medio oriente. La sua visita, alla vigilia del summit di Sharm el Sheikh, esprime l’appoggio della Francia alla nuova dinamica del processo di pace che si sta sviluppando tra Israele e l’Autorità nazionale palestinese, oltre a evidenziare la volontà dell’Europa di non rimanere in secondo piano sullo scacchiere mediorientale.
    Sefi Endler, in un’intervista al ministro Barnier su Yedioth Aharonot, dice che è impossibile non notare il cambio d’atteggiamento da parte di Parigi nei confronti d’Israele in questi ultimi mesi.
    Barnier infatti ha definito l’incontro con Sharon molto interessante e ha descritto il piano di disimpegno dalla Striscia di Gaza come coraggioso, quando soltanto poco tempo fa il presidente Jacques Chirac aveva chiamato il primo ministro israeliano “persona non grata” in terra di Francia. “Parigi ha gli stessi nostri interessi a fermare il progetto nucleare in Iran – afferma Mark Regev, portavoce del ministro degli Esteri israeliano, Silvan Shalom – per quanto riguarda gli Hezbollah (la cui televisione, al Manar, è protagonista di una controversa vicenda giudiziaria in Francia, ndr) non ha le idee ben chiare e non si sa se il gruppo sarà inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’Unione europea”. Su Yedioth Aharonoth, Barnier ha però sostenuto che “se Abu Mazen ci chiederà di frenare il gruppo sciita, ne terremo conto”.

    Il Foglio

    saluti

  2. #52
    email non funzionante
    Data Registrazione
    06 Mar 2002
    Messaggi
    13,127
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito La pace di Parigi

    Parigi. Era soltanto un sussurro, un “pour parler” quasi stupito, un avvicinamento cauto.
    Poi i toni sono diventati più concilianti, le linee telefoniche transatlantiche si sono aperte, quella “mano tesa” dall’Eliseo alla Casa Bianca è stata accolta: il presidente americano, George W. Bush, ha accettato l’invito a un pranzo di lavoro con Jacques Chirac; il segretario di Stato, Condoleezza Rice, in missione in Europa e medio oriente, ha scelto la visita a Parigi per tenere il discorso più atteso, quello sulle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico.
    Un gruppo di parlamentari dell’Ump, guidato da Axel Poniatowski, da sempre atlantista, ha suggerito una linea strategica: “Gli americani hanno preso dei rischi e hanno vinto: bisogna congratularsi”.
    Ieri Gerard Dupuy su Libération scriveva che “anche le scontrosità più palesi finiscono per smussarsi quando c’è la consapevolezza che la cosa migliore da fare è sostenersi l’un l’altro, quindi parlarsi”.
    E di questi ultimi due anni così turbolenti non resterà che “un brutto ricordo”.
    “Ci vuole una ripartenza delle nostre relazioni”, ha detto in un’intervista a Libération Michel Barnier, ministro degli Esteri francese, che ha scelto la scena mediorientale come test dell’unità ritrovata della comunità internazionale: ha organizzato un incontro con Ariel Sharon, premier israeliano, e con Abu Mazen, leader dell’Anp, forse avrebbe voluto andare al summit di Sharm el Sheikh, ma deve rientrare a Parigi perché oggi c’è la visita di Rice, l’occasione buona per rispondere alla domanda che lui stesso ha posto: “Che cosa si può fare insieme per risolvere i problemi?”.
    Almeno un tema di dialogo è già stato trovato: l’appoggio che la Francia ha dato alla risoluzione dell’Onu che impone alla Siria di rispettare la sovranità territoriale del Libano.
    Ora potrebbe essere il momento dell’Iran.
    Israele apprezza il nuovo Eliseo sull’Iran.
    Ieri il ministro degli Esteri israeliano, Silvan Shalom, ha definito “molto incoraggiante” la determinazione con cui Parigi ha deciso di intervenire contro i tentativi di Teheran di dotarsi di un arsenale nucleare. Chirac negli ultimi mesi ha usato parole dure nei confronti del regime iraniano, facendo capire che uno sgarro alle promesse equivale a una reazione internazionale. L’atteggiamento francese nei confronti dell’Iran resta però inquinato dall’ambiguità con cui Parigi tratta il dossier Hezbollah: solo una chiara presa di posizione contro la legalità di questa organizzazione potrebbe rendere più credibile la volontà francese. Forse la tormentata chiusura della tv del Partito di Dio, al Manar, va in questa direzione. Certamente ci sono ancora tanti angoli da smussare: la diplomazia ha bisogno di fare il suo corso e il rinnovato realismo di Parigi deve trasformarsi da tattica contingente a strategia di più lungo termine. Sul tavolo di quello che Rice ha definito “il luogo in cui più ci sono discussioni sugli Stati Uniti, sull’Europa, sui nostri obiettivi comuni”, cioè Parigi, restano aperti molti dossier, a cominciare dall’embargo delle armi alla Cina, che Bush vuole mantenere – anche per le relazioni pericolose tra Pechino e Teheran – e che invece la Francia – che ha appena concluso floridi contratti – cerca di sospendere. C’è poi la questione irachena. Le elezioni “segnano una tappa incoraggiante per il ritorno alla stabilità – ha detto Barnier – Ma di fronte alla sofferenza del popolo iracheno non credo che il presidente americano pensi: questa è una vittoria, quella una sconfitta”. Nessuno vince la pace da solo, pensa Barnier, e il rispetto reciproco delle proprie convinzioni è il punto di partenza indispensabile.
    Altrimenti tornano i brutti ricordi.

    Il Foglio

    saluti

  3. #53
    email non funzionante
    Data Registrazione
    06 Mar 2002
    Messaggi
    13,127
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Le 4 elezioni vinte da Bush

    Il giorno dopo le elezioni irachene il quotidiano londinese Independent ha commentato:
    “Sul lungo periodo è possibile che il voto in Iraq sia considerato come l’inizio di un grande cambiamento in tutta la regione”.
    Inutile dirlo, subito dopo aggiungeva:
    “Sarebbe completamente sbagliato, ora o in futuro, se il presidente, George W. Bush, o il primo ministro inglese, Tony Blair, pretendessero che le elezioni hanno dato ragione all’invasione dell’Iraq”.
    Ma è la prima affermazione quella che conta e colpisce di più, perché è stata fatta da un giornale schierato contro la guerra e contro Bush e perché è innegabilmente vera.
    Lasciamo perdere i due recenti discorsi del presidente americano e le polemiche dottrinali che hanno suscitato e concentriamoci su ciò che è concretamente accaduto nel corso dell’ultimo anno. Primo: le elezioni in Afghanistan in ottobre.
    Nonostante le più catastrofiche previsioni, otto milioni di afghani hanno votato per la prima volta nella loro vita, dilaniata dalle guerre. Le donne, che soltanto tre anni prima erano le più oppresse del mondo, hanno potuto votare come cittadine a pieno titolo. Come ha detto un afghano al New York Times: “In tutta la storia dell’Aghanistan, questa è la prima volta che possiamo scegliere i nostri leader attraverso un processo democratico e libero. Mi sento molto orgoglioso e felice”. (…)
    Poi a dicembre c’è stata la crisi in Ucraina, sfociata nel trionfo della democrazia. Il risultato delle prime elezioni – costruito da un governo corrotto con la connivenza di Vladimir Putin, presidente russo – è stato rovesciato da un’imponente esibizione del “potere del popolo” nelle strade di Kiev e di altre città ucraine. Una nuova tornata di elezioni ha riportato alle urne circa 27 milioni di ucraini (quasi tre quarti dei registrati al voto) in quella che passerà alla storia come la “rivoluzione orange”. “Questa è la vittoria del popolo – ha dichiarato un uomo al giornalista del Washington Post – Finalmente l’Ucraina otterrà ciò che voleva quando si è resa indipendente dall’Unione Sovietica. La democrazia regnerà in questo paese. Non succederà nel giro di una notte, ma il processo è cominciato”.
    Un mese fa, il popolo palestinese si è recato alle urne per eleggere un nuovo primo ministro, il primo in nove anni. Anche in questo caso l’affluenza è stata altissima e il nuovo primo ministro palestinese, Abu Mazen, ha ottenuto una maggioranza schiacciante. Un autorevole leader di al Fatah ha detto al Washington Post: “Questo per noi è un voto di portata storica. La cosa importante non è chi ha vinto, ma la consapevolezza che il popolo palestinese si è impegnato in difesa del principio della democrazia”. Questo impegno ha aumentato le possibilità di una pace fra israeliani e palestinesi. Israele ha avviato le operazioni di ritiro dalla Cisgiordania e dalla striscia di Gaza e ha liberato centinaia di prigionieri palestinesi. Abu Mazen sembra intenzionato a prendere seri provvedimenti per porre fine agli attacchi contro Israele (…). Bush aveva sempre detto che non ci sarebbe stato alcun progresso finché Yasser Arafat rimaneva al potere: un passo verso la pace sarebbe stato possibile soltanto come conseguenza di elezioni democratiche in Palestina. Il presidente è stato criticato in Europa, e anche da qualcuno negli Stati Uniti, per queste sue posizioni. Ora si è scoperto che aveva ragione.
    Infine, ci sono state le elezioni in Iraq. Non c’è bisogno di dilungarsi su storie che gli americani conoscono già perfettamente e che raccontano di milioni di iracheni pronti a rischiare la vita per dare il proprio voto, sfidando i terroristi che avevano minacciato di ucciderli (e che in qualche caso ci sono riusciti). E’ invece necessario esaminare se, come suggerisce l’Independent, le elezioni irachene segnino davvero “l’inizio di un grande mutamento in tutta la regione”.

    Le “fantasie infantili” dell’Amministrazione
    Non molto tempo fa, anzi fino al giorno stesso delle elezioni, una tesi di questo tipo era considerata illusoria. La vasta maggioranza dell’establishment americano (democratici e repubblicani, sinistra, destra e centro) hanno deriso l’idea che la “democrazia” debba essere l’obiettivo dell’America in Iraq, per non parlare di tutto il medio oriente e il mondo musulmano. Persino la comunità degli “esperti” della democrazia ha biasimato le “fantasie infantili” dell’Amministrazione Bush. Larry Diamond, probabilmente il decano di questa comunità, ha dichiarato che le elezioni “avrebbero fatto scivolare il paese nella guerra civile”. Anzi, quando milioni di iracheni si stavano recando alle urne, Newsweek, New Republic e molte altre riviste scrivevano che il loro voto non aveva alcun significato. Sarebbero state elette le persone “sbagliate”, perché gli iracheni non erano abbastanza onesti e “liberal” per scegliere le persone giuste.
    “Le elezioni non sono la democrazia!”, ci veniva ricordato. Vero.
    E’ altrettanto vero che un’elezione non garantisce il “liberalismo”.
    Ma la verità è che non ci può essere democrazia o liberalismo senza elezioni.
    C’è poi un punto molto semplice: con quale diritto chi vive in una fiorente democrazia può dire al popolo iracheno che non dovrebbe votare per i propri leader, che non è “pronto” per la democrazia?
    Il presidente Bush è talvolta accusato di arroganza, ma la vera arroganza è quella di dire al popolo iracheno che non è capace di eleggere le persone giuste. Siamo forse così impauriti che gli sciiti (che rappresentano circa il 60 per cento della popolazione irachena) o i curdi (circa il 20 per cento) ottengano la parte che gli spetta in libere elezioni? Siamo davvero pronti a negare a questo popolo il diritto di scegliere i propri rappresentanti?
    Fortunatamente il presidente Bush non ha mai accettato l’idea che gli iracheni, gli arabi o i musulmani non siano “pronti” per la democrazia. E la conseguenza è stata che oggi milioni di iracheni e di afghani hanno avuto la possibilità di votare.
    Che effetto avrà questo straordinario esempio di democrazia sul resto del mondo arabo e musulmano?
    Noi continuiamo a essere fiduciosi sul fatto che il progresso verso la democrazia in Iraq aumenterà le possibilità che altri governi del medio oriente si aprano al processo democratico e che le loro popolazioni esigano il riconoscimento dei loro diritti.
    Queste possibilità aumentano ogni volta che il presidente punta il dito su paesi come l’Egitto, l’Arabia Saudita, l’Iran o la Siria, come ha fatto nel discorso sullo Stato dell’Unione.
    Le parole contano, soprattutto sullo sfondo delle imprese compiute in Afghanistan e in Iraq.
    Quest’estate, per esempio, ci saranno elezioni in Libano, dove una vittoria dell’opposizione potrebbe significare la fine del dominio imperiale esercitato dalla Siria su questo paese.
    Quanto all’Egitto, alla Giordania e all’Arabia Saudita, non c’è bisogno che vi fidiate delle nostre parole.
    Il re di Giordania Abdallah l’ha detto nel modo più chiaro possibile: “La gente si sta svegliando.
    I leader arabi comprendono che bisogna avviare e proseguire sino in fondo il processo di riforme, e non credo che ci sia alcuna possibilità di tornare indietro”.

    La reazione faziosa dei democratici
    Negli Stati Uniti la faziosa reazione scatenata da questi recenti successi è stata davvero stupefacente. Mai così tante persone si sono sentite così depresse di fronte a notizie così buone.
    Gli esperti del medio oriente che avevano previsto catastrofi non hanno avuto il coraggio di ammettere che non ce ne sono state. Al contrario, hanno rinviato la previsione, oppure hanno falsamente affermato che gli sciiti iracheni, guidati dall’ayatollah Sistani, sono gli strumenti dell’Iran.
    Gli esperti della democrazia sono stati altrettanto eloquenti.
    Il loro odio per Bush ha forse reso impossibile provare la minima gioia di fronte allo spettacolo di elezioni democratiche?
    Dobbiamo anche riconoscere di essere rimasti delusi dalla reazione dei democratici.
    Non siamo così ingenui da aspettarci un atteggiamento bipartisan. Ricordiamo perfettamente quanti repubblicani si sono rifiutati di dare a Bill Clinton il giusto merito per gli interventi in Bosnia e Kosovo. E non c’è nulla di cui stupirsi nella monotona nenia di Ted Kennedy: nel suo mondo, come in quello di John F. Kerry, il sogno non morirà mai e la guerra del Vietnam continuerà per sempre. Ma dove sono gli altri democratici, anche se pochi, capaci di alzarsi e applaudire alle conquiste della democrazia in tutto il mondo? (…)
    I prossimi passi da fare in Iraq saranno naturalmente ancora difficili.
    I coraggiosi elettori iracheni si meritano l’impegno degli Stati Uniti a rimanere determinati nella battaglia contro il terrorismo.
    E anche se la sicurezza del paese aumenta, come noi crediamo, il processo politico resterà caotico. Nessuno si deve aspettare miracoli. Ma rimane il fatto che oggi ci sono molte più probabilità per un futuro di autentica trasformazione per il medio oriente e il mondo musulmano.
    Di tutto questo bisogna rendere merito a Bush.

    Robert Kagan e William Kristol
    © Weekly Standard (traduzione di Aldo Piccato) su Il Foglio

    saluti

 

 
Pagina 6 di 6 PrimaPrima ... 56

Discussioni Simili

  1. Censura progressista
    Di Felipe K. nel forum Fondoscala
    Risposte: 2
    Ultimo Messaggio: 29-11-13, 18:28
  2. L'anomalia progressista.
    Di amerigodumini nel forum Destra Radicale
    Risposte: 2
    Ultimo Messaggio: 07-06-11, 12:40
  3. Movimento Progressista(MP)
    Di Enri nel forum Partiti Polliani
    Risposte: 3
    Ultimo Messaggio: 14-01-11, 13:06
  4. Una regione 'progressista'...
    Di Fecia di Cossato nel forum Centrodestra Italiano
    Risposte: 84
    Ultimo Messaggio: 03-11-06, 23:04
  5. La puglia progressista........
    Di Gianmario nel forum Centrodestra Italiano
    Risposte: 7
    Ultimo Messaggio: 03-02-05, 18:43

Permessi di Scrittura

  • Tu non puoi inviare nuove discussioni
  • Tu non puoi inviare risposte
  • Tu non puoi inviare allegati
  • Tu non puoi modificare i tuoi messaggi
  •  
[Rilevato AdBlock]

Per accedere ai contenuti di questo Forum con AdBlock attivato
devi registrarti gratuitamente ed eseguire il login al Forum.

Per registrarti, disattiva temporaneamente l'AdBlock e dopo aver
fatto il login potrai riattivarlo senza problemi.

Se non ti interessa registrarti, puoi sempre accedere ai contenuti disattivando AdBlock per questo sito