Piero Tarticchio racconta il dramma degli esuli in vista del 10 febbraio, Giornata del Ricordo



PIERO TARTICCHIO*
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Un grosso personaggio della comunicazione televisiva italiana, durante il suo talk-show, ha detto: «Nessuno più di un esule può descrivere il dolore subito sulla propria pelle in quei giorni terribili del quarantacinque».
Ricordo una poesia studiata alle elementari che diceva: “Sono scesi i lupi dai monti, / sono scesi con gli occhi di brace.” Fu lo stesso sentimento che provai io, ragazzino di nove anni e con me l’intera cittadinanza di Pola, quando il primo Maggio 1945 dovemmo assistere attoniti all’arrivo del “branco selvaggio jugoslavo”. Lo stesso giorno il quotidiano “L’Unità” invitava i triestini ad accogliere i fratelli partigiani di Tito come liberatori, i quali, come tutti i liberatori che si rispettino, iniziarono ad applicare la legge dei vincitori massacrando i vinti. I titini lo fecero con tanto zelo che gli alleati anglo-americani, imbarazzati da tanta barbarie, dopo quarantacinque giorni si decisero ad occupare Trieste e Pola per non rischiare di passare alla storia come chi venne, vide e tollerò che un simile scempio si perpetrasse. Mentre l’Italia impazziva di gioia per la liberazione dal regime fascista, in Istria, a Fiume e nella Dalmazia si scatenò l’apocalisse; nella penisola imperava la gioia, in Istria gravava il terrore. Due valenze contrapposte che fanno riflettere, poiché il ricordo della gioia a distanza di anni non è più gioia, mentre il ricordo del dolore rimane dolore per sempre.
Sull’Esodo di 350.000 infelici e sugli eccidi delle Foibe gli esuli hanno scritto fiumi di parole; tutte voci cadute nell’indifferenza collettiva, ignorate dalla classe politica e dalla cultura ufficiale e ritenute inutili - se non dannose - per non turbare la serenità degli italiani intenti alla ricostruzione della Nazione devastata dalla guerra. E su quella scia di dolore calò l’oblio, il “silenzio di Stato”, un silenzio durato quasi sessant’anni. Albert Camus nel suo libro “La peste” ha scritto: «…la grande sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esuli è vivere con una memoria che non serve a nulla».
Mi è stato chiesto perché scrivo? Lo faccio per non dimenticare, per sconfiggere l'amnesia, il silenzio, i buchi grigi del tempo, lo faccio per raccontare le mie esperienze, vissute inquietamente, a coloro non sanno nulla della nostra tragedia. In questo senso la scrittura diventa mia alleata. Nelida Milani, coautrice con Annamaria Mori del volume “Bora”, mi ha detto: «Non si muore, né come individuo né come popolo, finché sarà possibile scrivere, su una parete di fango o su un rotolo di papiro o su un foglio di carta o sullo schermo di un computer le nostre memorie e le nostre speranze».
Nel mio romanzo storico “Nascinguerra”, edito da Baldini Castoldi Dalai, scrivo: «Dei 32.000 abitanti di Pola, 28.000 optarono per l'Italia. Come il lupo, la cui zampa è rimasta imprigionata nella tagliola che, pur di raggiungere la libertà non esita a staccarsi a morsi l'arto imprigionato, così fecero gli istriani: strappando le radici che li legavano alla loro terra e disperdendosi nei cinque continenti, fino ai confini del mondo. Non fu un atto di coraggio a decidere la loro sorte, ma la spinta che viene dalla disperazione. Per tutte le ingiustizie patite dalla gente Giulia, dalla notte dei tempi continua a levarsi un grido che graffia l'anima ed evoca Babilonia. Sui ponti delle navi gremite di esuli, che si allontanavano mestamente dalle natie sponde, non c'era spazio per la speranza; Shangri-La era ormai alle spalle e il loro paradiso perduto per sempre. Mentre la città scompariva all'orizzonte, fino a diventare una linea che separava la terra dal mare, un intero popolo, fiero per tradizione, cercava la forza per sopravvivere alle soperchierie della storia. La croce che si portava appresso era un fardello di tristi presagi, per un avvenire incerto nell'esilio voluto in grembo all'Italia, creduta madre per lingua e tradizioni, ma che accolse i suoi figli con il cuore duro di una matrigna».
Coloro che partirono non erano solo imprenditori e borghesi, ma anche operai, artigiani, pescatori, contadini, ecc. Agli occhi dei nuovi padroni Pola si presentò come una città fantasma, paralizzata in ogni attività produttiva per mancanza di forza lavoro. L’ideale del nazionalcomunismo proletario jugoslavo non bastava per sfamare il popolo e risolvere la spinosa questione sociale. Tito, allora, chiese aiuto al Partito Comunista Italiano perché si facesse promotore di un’iniziativa volta a ingaggiare un congruo numero di operai dal cantiere di Monfalcone, convincendoli a trasferirsi a Pola per riattivare quello di Scoglio Olivi, fermo per mancanza di manodopera.
Il controesodo si rivelò un colpo propagandistico di grande effetto. Per aiutare i compagni jugoslavi, 2.000 monfalconesi, tutti di provata fede marxista- leninista, risposero all’offerta imboccando la strada che pensavano li avrebbe portati alla gloria, ma andarono invece incontro alla catastrofe.
Nel giugno del 1948, Tito, espulso dal Cominform, rifondò la sua politica interna istituendo il Partito Revisionista Jugoslavo e mandando al rogo l’ortodossia comunista leninista. A pagarne il fio furono, tra gli altri, anche quei disgraziati operai monfalconesi che finirono internati nel gulag di Goli Otok, conosciuto come l’Isola Calva. Le vittime di quella epurazione di Stato furono migliaia. Quella fu un’altra triste pagina di storia tenuta nascosta dalla cultura ufficiale e dai politicanti della sinistra italiana. Un calcolo machiavellico in cui i comunisti di casa nostra sfruttarono opportunisticamente l’offerta dei democristiani di tacere su quelle infamie. Silenzio che oggi si è ritorto contro loro stessi, dopo le dichiarazioni di alcuni alti esponenti Ds che hanno ammesso gli errori del Pci nell’immediato dopoguerra. Imponendo di ignorare, dimenticare e far dimenticare il dramma dell'Esodo e la tragedia delle Foibe, hanno fatto in modo che non si parlasse degli altri crimini commessi dal comunismo o in nome del comunismo.
Oggi a cavalcare la tigre del “Nostro Ricordo” sono sia le destre che le sinistre, con Violante e Veltroni in prima fila.
Claudio Magris, uno scrittore che non può esser certamente definito di destra, in un suo articolo apparso il primo febbraio sul Corriere, dice: «Fino a pochi anni fa parlare delle foibe non “serviva” alla lotta politica e dunque non se ne parlava. Oggi quei morti servono e dunque se ne parla, ma per usarli quali strumenti di una lotta politica che non ha nulla a che vedere con la storia di quelle tragedie, di quei crimini, di quegli anni. Comunque sia, ben venga ogni occasione di ricordare le vittime; è bene che si parli di quella pagina terribile, che si conosca e si sappia la storia delle foibe».
Un noto giornalista mi ha ricordato: «Quando si istituisce una ricorrenza per legge (la “Giornata del Ricordo” dell’Esodo e delle Foibe, ndr), vuol dire che non c’è più la forza dei testimoni oculari a ricordarlo. Insomma, il fatto si sta storicizzando. Avverrà così per lo Shoah, per la Lotta di Liberazione, per le Foibe. Nel vostro caso però, c’è l’attualizzazione della storia che vi aiuta». Gli ho risposto che le Foibe e l’Esodo non hanno mai avuto le stesse attenzioni della Resistenza e dell’Olocausto, sia nella memoria degli italiani sia nei libri di testo scolastici, i quali, anche se solo pochi riportano quegli accadimenti, lo fanno con scarsa attenzione e disarmante superficialità.
Vorrei concludere con la dichiarazione del senatore Giulio Andreotti che nella trasmissione “Porta a Porta” andata in onda nella serata di giovedì 3 febbraio ha detto: «E’ stato un bene che non si sia parlato dell’Esodo e delle Foibe per non creare turbative presso il Pci e non compromettere i rapporti di buon vicinato con Tito». Si sa che la prudenza è considerata una virtù, ma una simile dichiarazione poteva tenersela per sé. La sua pervicacia non ha giustificazione, a noi esuli ha aggiunto solo dolore al dolore facendoci capire che la ragion di Stato è un rullo compressore che travolge i sentimenti di chi ha dovuto lasciare tutto per una scelta di libertà.
* Scrittore, giornalista e grafico, presidente del Centro di Cultura Giuliano Dalmata
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Piero Tarticchio
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[Data pubblicazione: 05/02/2005]