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  1. #21
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    Riportiamo il messaggio che il Santo Padre Giovanni Paolo II ha inviato a don Giussani le cui condizioni di salute permangono gravi .

    «In questo momento di grande sofferenza desidero rivolgerLe un affettuoso pensiero assicurandoLe la mia spirituale vicinanza e mentre elevo fervide preghiere affinché il Signore La conforti e sostenga nella prova invoco la materna protezione della Vergine Maria Salus Infirmorum e di cuore Le imparto una speciale benedizione apostolica che estendo a quanti amorevolmente La assistono come pure all’intero movimento di Comunione e Liberazione.
    Joannes Paulus PP. II»



  2. #22
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    Mi unisco al cordoglio.

  3. #23
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    LA GENTE
    Migliaia di persone in fila davanti alla camera ardente allestita presso l’Istituto Sacro Cuore dove ha vissuto gli ultimi anni

    È morto il «Gius», padre di Cl



    Da Milano Annalisa Guglielmino

    La notizia della morte di don Luigi Giussani ha raggiunto il popolo di Comunione e liberazione come la notizia della morte di un padre. «Era come un padre» sono state le parole più sussurrate, ieri, durante la lunga attesa della gente in fila per entrare nella camera ardente allestita all'Istituto Sacro Cuore di Milano, dove il fondatore di Cl ha vissuto negli ultimi anni, e si è spento alle 3 dell'altra notte. Qui don Giussani, che ormai in pubblico si vedeva poco, incontrava regolarmente i responsabili del movimento, come racconta il rettore don Giorgio Pontiggia. «E parlare con lui, anche solo per cinque minuti, cambiava la coscienza della realtà». Anche negli ultimi giorni, quando nel fisico il sacerdote era provato dalle complicazioni della polmonite. «Qualche giorno fa gli ho chiesto se ci fosse qualcosa che lo preoccupava - racconta don Giorgio -. E lui mi ha risposto che non era mai stato in pace come adesso. Adesso che vedeva l'unità del movimento, e lo vedeva unito attorno a don Julián Carrón». Insieme a don Stefano Alberto (don Pino per tutti), Giancarlo Cesana, Giorgio Vittadini ed altri amici storici, Carrón è stato vicino a Giussani anche negli ultimi giorni. E venerdì il fondatore di Cl aveva ricevuto la visita dell'arcivescovo ambrosiano, il cardinale Dionigi Tettamanzi, che ieri mattina è stato tra i primi a rendergli omaggio. Subito dopo è iniziata la processione dei ciellini e di tanta gente comune. A migliaia, nonostante il pomeriggio gelido, hanno aspettato in strada per ore, in una fila lunghissima per dire addio a "don Gius". Giovani, tantissimi, intere famiglie, professionisti, ex allievi, anziani, che hanno cantato e pregato per tutto il tempo. Una processione che si è interrotta solo nella notte, quando la camera ardente è stata chiusa. E oggi a mezzogiorno riaprirà, per 24 ore. Tra la folla, anche il governatore lombardo Roberto Formigoni, uno dei "figli spirituali" del sacerdote di Desio. Passare per pochi istanti davanti alla salma e pr egare è stato per molti un modo di ringraziare quell'uomo che «ci ha insegnato a vivere». Paolo, Stefano, Liliana, vent'anni, non hanno mai conosciuto don Giussani ma dicono che i suoi libri sono «il nostro punto di riferimento, che esprime come vivere il cristianesimo». Un cristianesimo, «come amore per l'uomo - ha spiegato Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà -. Un modo di vivere all'altezza dei propri desideri, credendo nell'uomo così com'è». E l'insegnamento, anzi il carisma di "don Gius" adesso «è più presente di prima». Per quelli venuti a dirgli addio, non è solo un padre, ma un «santo». «Lo è - ha detto Vittadini - perché santo è colui che il Signore sceglie per chiamare al bene la gente».


    Avvenire - 23 febbraio 2005

  4. #24
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    Politici, imprenditori e giornalisti La classe dirigente di «don Gius»

    Da Liguori a Brandirali, da Formigoni a Vittadini. «Per noi è già santo»



    MILANO - «Ciellini in carriera? Al massimo, diventiamo dei vice: cioè gente che non conta proprio...». Renato Farina , vice(direttore di Libero ) lui stesso, se la cava con una battuta. Ma dalle lezioni di don Giussani si è formata negli anni una vera e propria classe dirigente. Che ha conquistato posti nell’editoria, ma anche in politica, nel mondo della cultura e dell’impresa. Uomini che oggi hanno contatti e agganci nelle banche, nelle fondazioni, nelle istituzioni pubbliche, nelle aziende. Prendi il caso della Compagnia delle Opere: nata nel 1986, conta oggi 39 sedi in Italia e 13 nel mondo, 30.000 imprese e più di 1000 organizzazioni non profit. Uno dei suoi fondatori è stato Giorgio Vittadini , teorico della sussidiarietà cresciuto in Cattolica alle lezioni di Giussani: «Per me è stato un padre e senza di lui non avrei fatto nulla. Per noi è già un santo». Con Vittadini studiava in quegli anni Antonio Intiglietta , passato da Lotta Continua al cristianesimo, dall’impegno in politica (vicesindaco a Milano nella giunta Borghini) alla creazione di Ge.Fi, una società che organizza eventi fieristici in grado di reggere la concorrenza dei più importanti poli europei.
    Sempre in Cattolica, arriva alla fine degli anni ’60 anche Roberto Formigoni , che Giussani vorrà a capo del Movimento Popolare, braccio secolare di Cl dal 1973 ai primi anni ’90. «Portavamo in politica la passione che ci aveva regalato Giussani», riassume il parlamentare Maurizio Lupi , avamposto ciellino a Roma. Ma Formigoni precisa: «Né allora né dopo don Giussani avrebbe mai condizionato o indirizzato le nostre scelte. Si fidava e ci lasciava fare: certo, se gli si chiedeva un consiglio o un parere, non si tirava indietro. Ci è stato vicino, senza imporsi, fino all’ultimo». Formigoni è il primo parlamentare eletto (nel 1987) con la potente macchina dei voti ciellina. La stessa, per dire, che negli anni ’90 aveva promosso l’allora sconosciuto Mario Mauro all’Europarlamento con quasi 100 mila voti. E Formigoni è quello che si trascina la maggioranza del popolo ciellino in Forza Italia, al momento dello strappo con l’altro leader politico ciellino, Rocco Buttiglione , rimasto nel Cdu.
    Poi, c’è la vicenda del Sabato : dalla redazione del settimanale, nato nel 1978 e rimasto in edicola fino al ’94, sono passati decine di giornalisti oggi volti noti della carta stampata e della tivù. Fondato da Fiorenzo Tagliabue , oggi presidente della Sec (la quinta società in Italia del settore delle comunicazioni e la prima ad avere costituito un network internazionale), e grazie anche ai contributi iniziali di Silvio Berlusconi , il Sabato assorbe negli anni alcuni dei giovani dell’esperienza giessina in Cattolica: come Roberto Fontolan, (oggi direttore del Velino ) e Giancarlo Gioielli (oggi in Rai). Primo direttore è Gianguido Folloni , che poi passerà alla guida di Avvenire con Tagliabue come amministratore delegato negli anni in cui i manager ciellini tentano lo sbarco sull’editoria cattolica (Tagliabue è anche ai vertici del Ctv, centro televisivo vaticano) e le gerarchie ecclesiali si dividono. Al Sabato continua il via vai di giovani giornalisti: da Renato Farina a Emilio Bonicelli (oggi al Sole 24 Ore ), da Roby Ronza (portavoce di un’altra grande impresa: il Meeting di Rimini) a Filippo Landi (in Rai); da Sandro Sallusti , direttore di Libero , a Riccardo Bonacina , direttore di Vita . Firma Lino Iannuzzi e si pubblica qualche vignetta di Vincino . Passano di lì Angelo Rinaldi , oggi vicedirettore di Repubblica , e Gigi Amicone , direttore di Tempi . Fino all’arrivo, nell’89, di Paolo Liguori , che salva la testata prossima al fallimento: «Ho incontrato Giussani in quattro occasioni e mi sono molto affezionato a lui. Cosa ricordo? Che parlava in modo incisivo e ti faceva credere alle cose in cui credeva lui: la sua unica passione era Gesù Cristo. Questo diceva, di qualunque cosa ti parlasse».
    Poi ci sono i non ciellini. Quelli del Berchet, che non frequentavano raggi e riunioni, ma erano rimasti conquistati dalle lezioni di religione di questo prete «con cui comunque ti dovevi confrontare»: da Tiziana Maiolo a Massimo Fini , dallo psichiatra Claudio Risè ad Angelo Rizzoli e Antonio Del Pennino , dal filosofo Giulio Giorello al sovrintendente Carlo Fontana . E ci sono i convertiti: si definisce così Giuseppe Zola , già prosindaco di Milano e presidente della Fiera, al Berchet da agnostico fino all’incontro con don Giussani. Clamoroso il caso di Aldo Brandirali , leader di Servire il Popolo , che smette di sventolare libretti rossi, chiede un incontro a don Giussani nell’82, lo segue per 10 anni mettendosi al servizio di poveri, emarginati e carcerati, e si converte nel ’92: «L’esperienza con don Giussani ti trasforma, ti costringe a ragionare e ad ammettere che sopra di te c’è un Progetto più grande».
    Negli ultimi anni, molte personalità di spicco si avvicinano al mondo ciellino, affascinati dalla parola di don Giussani. Compreso Giuseppe Garofalo , ex presidente di Montedison, per alcuni anni consulente volontario della CdO. Compreso il giurista Fabio Roversi Monaco , che come rettore dell’Università di Bologna, attraverso un giro di giovani studenti, aveva invitato il sacerdote brianzolo a tenere una lezione sul tema dell’educare. Era il ’95 e fra i due iniziò una corrispondenza fitta. Un altro degli intellettuali affascinati dal prete che sapeva parlare ai giovani.

    Elisabetta Soglio


    Corriere della Sera - 23 febbraio 2005

  5. #25
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    Migliaia in fila per il padre dei ciellini

    Don Giussani aveva 82 anni. Ore di attesa fino a notte per rendergli omaggio. Domani le esequie in Duomo



    MILANO - Da tempo la sua voce era un sospiro. Tenue, fragile. E così, con un sospiro dall’eco però inarrestabile, si è sparsa in tutto il mondo la notizia: «Don Gius è morto». Monsignor Luigi Giussani, don Gius come lo chiamavano con affetto i ragazzi di Comunione e liberazione, il movimento ecclesiale che aveva fondato nel 1954, si è spento ieri, a 82 anni, nella sua abitazione di Milano. Alle 3.10, per insufficienza circolatoria e renale, dovuta a una grave polmonite che lo aveva colpito da alcuni giorni e ne aveva segnato le già precarie condizioni di salute.

    IL DOLORE - Sino alla fine ha combattuto contro la morte. Con la stessa forza con cui ha lottato in vita «per comunicare il Vangelo». E’ stato don Julián Carrón, il teologo spagnolo che don Giussani aveva scelto come suo successore alla guida di Cl, a farsi portavoce «dell’immenso dolore per questo distacco». Con una nota ha comunicato la morte: «Certi nella speranza della Risurrezione, nell’abbraccio di Cristo lo riconosciamo padre più che mai». Diecimila persone, in fila ieri sino a notte inoltrata, hanno voluto rendere omaggio a don Giussani. La salma, avvolta in un lenzuolo e circondata da rose bianche, è stata ricomposta nella cappella dell’Istituto del Sacro Cuore. Un abbraccio commosso: tra la folla il governatore lombardo Roberto Formigoni, il prefetto di Milano Bruno Ferrante, il coordinatore di Forza Italia Sandro Bondi, il presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali con il fondatore della Cdo Giorgio Vittadini.
    Altre autorità e personalità sono attese oggi, quando la camera ardente sarà riaperta, a mezzogiorno. E aperta lo resterà sino alla stessa ora di domani. La salma sarà poi traslata nel Duomo di Milano, dove alle 15 saranno celebrati i funerali. La messa sarà presieduta, «a nome del Santo Padre», dal cardinale Joseph Ratzinger, presente l’arcivescovo di Milano, il cardinale Dionigi Tettamanzi. Alla cerimonia, che il Tg1 seguirà in diretta dalle 14.50 alle 16, presenzieranno pure i presidenti di Senato e Camera, Marcello Pera e Pier Ferdinando Casini.


    L’EREDITA - Il diffuso dolore per la scomparsa di don Giussani è la testimonianza di come «la sua è una vita riuscita», spiega il patriarca di Venezia, Angelo Scola, uno dei «ragazzi» formatosi alla sua scuola: «Una vita spesa a educare gli uomini all’amicizia con Gesù». «Un uomo semplice», lo ricorda Ratzinger, che ha trasmesso «forte entusiasmo al mondo intero». Non solo ai giovani («che hanno scoperto il volto di Cristo dalle sue parole», monsignor Javier Echevarria, prelato dell’Opus Dei), ma all’intera società («ha formato un laicato maturo e responsabile», cardinale Camillo Ruini, presidente Cei).


    IL CORDOGLIO - Dolore e cordoglio sono stati espressi dalle più alte cariche dello Stato e da esponenti politici. Per il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, «la lezione di vita di don Giussani, straordinario uomo di fede e cultura, deve continuare a ispirare l’impegno comune di istituzioni e cittadini». Il premier Silvio Berlusconi parla di «modello, dalla fede profonda e coinvolgente, a cui mi sono sempre sentito molto vicino», mentre il vicepremier Marco Follini, ribadisce come «rimangano i suoi insegnamenti». In una lettera a don Carron il leader dell’Unione, Romano Prodi, scrive: «E’ stato un prete per i giovani e un testimone dell’identità cristiana». La figura di don Giussani è stata poi ricordata ieri a Montecitorio dal presidente Casini, che ha concluso: «Ci mancherà».

    Davide Gorni


    Corriere della Sera - 23 febbraio 2005

  6. #26
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    Il prete dei ragazzi che spiegava la fede con un giradischi

    La madre era operaia, il padre socialista. L’inizio come insegnante al Berchet: comunisti e fascisti si riunivano sempre, dei cattolici non c’era traccia



    « Cara beltà che amore / lunge m’inspiri... ». Il «Gius» aveva quindici anni, faceva la prima liceo al seminario di Venegono, nel varesotto, e per la verità Leopardi lo sapeva a memoria da tempo. Ma quella volta rilesse Alla sua donna come una preghiera che avrebbe ripetuto quando faceva la comunione, «essendo espressione del genio, questi versi non possono essere che profezia», in questo caso «la profezia di quello che il Signore aveva già compiuto: in fondo l’aspirazione di Leopardi era di vedere con gli occhi e di toccare con le mani la Bellezza fatta carne, il Verbo». Forse ancora non sapeva che Dostoevskij aveva scritto: «La bellezza salverà il mondo», ma in fondo è la stessa certezza che lo ha accompagnato per tutta la vita a contrastare il timore di un «disastro» imminente per la Chiesa e l’idea d’un cristianesimo astratto ridotto all’insignificanza. Il 15 ottobre, nel giorno del suo ottantaduesimo compleanno e alla vigilia delle celebrazioni per i cinquant’anni di Comunione e liberazione, monsignor Luigi Giussani aveva spiegato al Corriere come proprio dallo «stupore» dovesse iniziare tutto: «La mia partenza ha preso le mosse come "passione per", come "amore"...». Era malato da anni, verso la fine le parole si confondevano ai sospiri, la voce sempre più roca. Però, in quell’ultima intervista, diceva: «La fede è una vita e non un discorso sulla vita, perché Cristo ha cominciato a "balzare" nell’utero di una donna!». Lui era nato nel ’22, a Desio, e l’essenziale glielo avevano spiegato i genitori. C’era la fede di mamma Angelina che fino al matrimonio aveva fatto l’operaia tessile, «mi raccontava le parabole del Vangelo e io capivo che si trattava di cose avvenute», la fede rocciosa dei brianzoli. E c’era il carattere di papà Beniamino, socialista con tendenze anarchiche e intagliatore di legno, appassionato di arte e musica (se il piccolo Luigi la faceva grossa, gli cantava dalla Traviata : « Tu non sai quanto soffrì/ il tuo vecchio genitor! ») che non si stancava di ripetergli: «Datti ragione di tutto».
    Così per don Giussani esisteva la fede come «avvenimento» e la necessità di «sperimentarla», di farsene una ragione: «Per capire se un vino è buono, l’unica è provarlo». Tutto era cominciato da un viaggio in treno verso Rimini, dall’incontro con un gruppo di ragazzi «che non sapevano nulla del cristianesimo». Gli venne in mente una domanda di T. S. Eliot che avrebbe ripetuto infinite volte: «È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?». Pochi mesi più tardi, nell’ottobre del ’54, quel prete trentenne aveva ottenuto di lasciare l’insegnamento in seminario e saliva i gradini del liceo Berchet, tra i rampolli della buona borghesia laica di Milano. Dopo la prima lezione in I E, circondato dagli studenti, il «Gius» stava già discutendo in corridoio con il professore di filosofia che sosteneva l’assoluta distinzione tra ragione e fede: «Io le dico che l’America c’è, a prescindere dal fatto che l’abbia vista, secondo lei è razionale affermare questo oppure no?». Tornava a casa arrabbiato «perché i comunisti si radunavano sempre, i fascisti si radunavano sempre e dei cattolici non c’era traccia». Non era il tipo da cedere: «Quando insegnavo in prima liceo, per dimostrare l’esistenza di Dio andavo da casa mia al Berchet con in braccio un giradischi, allora c’erano quelli grossi col trombone, mi trascinavo questo grammofono e facevo sentire Chopin, Beethoven...».
    Perché «nell’inizio c’è già tutto» e in quell’inizio si capisce come sia stato possibile che i «quattro scugnizzi» che lo seguirono nella prima sede di via Statuto 2 siano confluiti nella «nuova» Gioventù Studentesca (che era già stata fondata da Giancarlo Brasca, nel ’45) e dal ’69 in Comunione e liberazione, fino a moltiplicare il movimento in 70 Paesi sparsi nel mondo. L’intuizione decisiva era semplice: bisognava uscire dalle parrocchie e ricominciare il lavoro educativo dalle scuole, così quel prete dalla faccia asimmetrica e l’eterno basco in testa incrociava i ragazzi e chiedeva: «Ma il cristianesimo è presente, qui?». Quelli si mettevano a ridere o, basiti, rispondevano «no». E lui: «Allora, o la fede in Cristo non è vera, oppure richiede una modalità nuova». Non era questione di organizzazione ma di metodo, «ci seguiva uno a uno, ci invitava a parlare con lui, ci veniva a prendere a casa coinvolgendo anche i nostri genitori, dava sempre a ciascuno qualcosa da fare», ha ricordato una ragazza di allora, Anna Ferrari. Giussani insiste: vivere seguendo Cristo è vivere meglio, è come vivere cento volte tanto. Da Il senso religioso del ’57 i suoi libri si contano a decine e sono tradotti in buona parte del mondo. Il suo pensiero non è affatto semplice ma trascina. Se Cristo è «il criterio esplicativo del reale» tutto ne risulta coinvolto, dice, ci si deve aprire a tutta la realtà: la propria esperienza, l’incontro con gli altri, le lezioni e le conferenze scandite, l’arte, la letteratura, il teatro, la musica, le gite, la preghiera. E i gruppi crescono, i ragazzi del «Gius» si moltiplicano combattivi nelle scuole e nelle università. Don Giussani avrebbe insegnato al Berchet per dieci anni, dal 1964 al 1990 terrà la cattedra di Introduzione alla Teologia all’università Cattolica. Sono gli anni del grande gelo con il rettore Giuseppe Lazzati e l’Azione Cattolica. Entrano in gioco due diverse idee di cristianesimo e don Giussani non è certo tenero, a proposito del «cattolici cosiddetti democratici» parla di «dualismo» tra fede e realtà sociale e dice: «Una fede che non investe la totalità del soggetto non può non diventare astratta». Eppure riconoscerà a Lazzati un debito intellettuale che risale al fatidico ’54, a Gressoney lo sentì dire: «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo». Negli anni Settanta il Movimento Popolare diventa una sorta di «braccio politico» di Cl, il clima è caldo, capita che qualcuno si prenda delle legnate. Nel ’76 sarà proprio «il Gius» a mettere in guardia i ragazzi dall’ideologia: «Non siamo entrati nella scuola cercando un progetto alternativo ma con la coscienza di portare Cristo, il nostro scopo era la presenza». Da arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini era perplesso, «non capisco le sue idee e i suoi metodi, ma vada avanti così», glielo avrebbe ripetuto come Papa Paolo VI: «È questa la strada». Karol Wojtyla ha conosciuto Cl fin dai tempi di Cracovia e nel 2002, per il ventesimo anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità, ha scritto a don Giussani: «Il movimento vuole indicare non una strada, ma la strada (...) e la strada è Cristo».
    Però il «don Gius» è stato anche un personaggio scomodo, talvolta guardato con diffidenza dalle curie. È diventato monsignore solo nell’83, a 61 anni, ad ogni concistoro si diceva invano che fosse tra i candidati alla porpora cardinalizia. Intanto gli anni Settanta sono acqua passata, l’ultimo Meeting di Rimini ha chiuso il lungo percorso di avvicinamento con Azione Cattolica e gli altri movimenti, i ciellini sono i primi a notare come il clima intorno alla Fraternità sia diverso. Alla vigilia di Rimini, don Giussani aveva chiamato «accanto a sé» alla guida di Cl un sacerdote spagnolo di 54 anni, don Julián Carrón, figlio di contadini e docente di Nuovo Testamento, prima di incontrare Cl anche lui aveva fondato un movimento.
    Di certo è difficile cogliere l’essenziale di un uomo così complesso. Però quand’era bambino gli capitò di accompagnare la madre a messa, prima dell’alba, erano le cinque e mezzo e lui s’era incantato a osservare l’ultima stella del mattino: «Mia madre, mentre io guardavo, mi disse: "Come è bello il mondo e come è grande Dio!" È stato uno di quei momenti che contengono la chiave di volta per tutta la vita. "Come è bello il mondo" vuol dire: non è inutile vivere, non è inutile fare, lavorare, soffrire; non è negativo morire, perché c’è un destino. "Come è grande Dio!": il grande è ciò a cui tutto fluisce, il Destino».


    Gian Guido Vecchi

    Corriere della Sera - 23 febbraio 2005

  7. #27
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    I solenni funerali di don Giusanni si stanno tenendo ora.
    Sono in diretta su rai 1.

  8. #28
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    «Insegnava il mestiere di uomo»

    Dalla carta stampata ai canali televisivi è stato maestro di vita di tanti giornalisti

    Un compagno di strada. Ma anche un amico, un maestro, un fratello maggiore. Nelle testimonianze di chi ha conosciuto da vicino don Luigi Giussani il concetto che ricorre più spesso è l’attenzione alla persona. Luigi Amicone, direttore del settimanale Tempi, ha incontrato il fondatore di Cl al primo anno di università. «Era il 1976. Frequentavo già il movimento – ricorda – ma non l’avevo mai conosciuto personalmente. Un giorno mentre stavo per partecipare ad un incontro di comunità mi ha superato dandomi un colpetto con il gomito e mi ha chiesto chi fossi. Io ho detto nome e numero di matricola. La sua risposta mi risuona ancora nella mente: "caro Luigi meno male che la vita è triste perché altrimenti sarebbe disperata". Era il suo modo per spiegare come ogni cosa andasse relativizzata, vista nella giusta luce». La testimonianza di Amicone guarda all’indietro, ai giorni in cui Giussani partecipava alla vita universitaria, condivideva i momenti quotidiani, le difficoltà ma anche le feste e le cene. «Mi ha sempre colpito la sua attenzione alla persona, comunque e in ogni circostanza. La sua capacità di imbastire relazioni autentiche, di dialogare, di accogliere l’altro in modo completo, sistematico. Il tutto alla luce naturalmente di quel Gesù Cristo che è stata la ragione della sua vita».

    Un concetto che ritorna nelle parole di Alessandro Banfi vicedirettore esecutivo del Tg5. «Il solo mestiere che Giussani si preoccupava di insegnare era quello di uomo, che portava con sé naturalmente l’attenzione alla realtà presente». In lui la fede non poteva essere distinta dalla vita di tutti giorni, ne era parte indissolubile. «Mi ha sempre colpito l’amore che sapeva trasmettere alle persone, la capacità di accogliere l’altro sempre e comunque. Non importava l’estrazione sociale, culturale e politica. I suoi occhi dicevano: "sei una persona e a me basta per volerti bene"». Non si trattava però solo di una simpatia superficiale. «Ricordava spesso la pagina di Vangelo in cui Gesù si rivolgeva alla vedova di Naim cui era morto il figlio dicendole: "Donna non piangere". Quelle parole lui le metteva in pratica sul serio, testimoniando ogni giorno che al fondo del dolore, delle colpe, la vita comunque merita di essere vissuta».

    Ad affascinare Michele Brambilla, direttore della Provincia di Como, è stata la grande umiltà del Gius. «L’ho conosciuto nel 1996 – racconta – per un’intervista. Allora ero cronista al Corriere della Sera e Alberto Savorana mi accompagnò in macchina da lui. Prima ancora di parcheggiare, vidi don Luigi sull’uscio, praticamente per strada, che mi aspettava. "È un grande onore incontrarla" – disse. Usò quelle parole per me, allora un emerito signor nessuno».
    Antonio Socci direttore della Scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia ricorda la vicinanza di Giussani in un momento molto difficile. «Dedicai una della prime puntate del programma tv Excalibur a Medjugorie con coda di grandi polemiche. Il 20 novembre 2002, era sera, mi telefonò. "Sono con te – disse – ti sono vicino. Hai tutta la mia stima e la mia simpatia. Sii certo di tutto quello che dici perché è tutto vero". E il giorno dopo mi fece arrivare un altro messaggio. "Il problema non è se Dio esiste o no ma se Dio si è fatto uomo o no. E la Madonna è la strada". Lo considero il suo testamento spirituale per me». Parole che si aggiungono ad altre dette con particolare forza. «Penso al messaggio evangelico che lui ripeteva con veemenza: "Se anche ti prendessi il mondo intero e poi perdi te stesso che vale?"».

    Per chi lo conosceva bene è difficile riassumere l’uomo. Renato Farina, vicedirettore di Libero, non ha però dubbi nell’indicare il ricordo più vivo di Giussani. «Penso alla foto scelta per la sua immaginetta. Quello sguardo con gli occhi commossi ma capace di trasformarsi in un riso di gioia. Uno sguardo che rimanda all’immagine del "giovane ricco" raccontata nel Vangelo. Era un uomo in cui risultava evidente la presenza costante di "Qualcun’altro", che lo trasformava». L’incontro con Giussani è stato importantissimo per Farina. «Da lui ho capito che la fede riguarda la ragione. È un fatto razionale, non un salto nel buio né una scommessa. E poi la consapevolezza che in ogni cosa c’è sempre un aspetto positivo, anche nei momenti più tristi e difficili. Perché il male non avrà l’ultima parola. Cristo risorto ha già vinto».

    di Riccardo Maccioni

    Avvenire - 24 febbraio 2005

  9. #29
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    L'EX ALLIEVO CLAUDIO RISE':
    «Quel ciclone tra i banchi del Berchet»



    «L’uomo, al suo primo ingresso con noi, si fece avanti a passo veloce, come uno che non ha un minuto da perdere. Molto diverso dagli altri professori, anche bravi, che entravano in classe dopo aver percorso avanti e indietro il corridoio infinite volte, in conversazioni fra loro cui si strappavano a fatica, prolungando all’infinito l’intervallo, mentre noi dovevamo aspettarli in classe (..) L’uomo con la tonaca era il nostro nuovo insegnante di religione, appena arrivato al liceo Berchet, la roccaforte della borghesia laica. Ci guardava sorridendo, si capiva che teneva a noi, ma non aveva complessi. I miei compagni, i ragazzi della fucina dell’intellighentzia milanese, lo guardavano, inizialmente, con sufficienza. Si capiva che l’eleganza formale, e i manierismi della borghesia colta non lo interessavano affatto, che li vedeva come forme di difesa da qualcos’altro, di più sostanziale.(..) L’uomo di Desio, il cui nome era Luigi Giussani, aveva, ( anche nel contatto fisico, ricco di pacche, strette, spintoni), una specie di spontanea selvatichezza, eccezionalmente vitale e arcaica, in un ambiente in cui le nevrosi della ipercivilizzazione si tagliavano già con il coltello (..) Mi ricordo il suo arrivo come una specie di ciclone, dopo il quale nella scuola nulla fu più come prima, né per gli altri, né per me».

    Questo è Luigi Giussani nella memoria di un ex studente del liceo Berchet: così lo racconta lo psicoanalista Claudio Risé nel suo saggio «Felicità è donarsi» (Edizioni Sperling & Kupfer).
    «Selvatichezza», pacche, strette, un «ciclone» su quel liceo di ragazzi borghesi il cui cuore presentava già «leggeri strati di pietrificazione». Pare, professore, che il suo primo ricordo sia quello di un’irruzione fisica trascinante, in quell’aula di liceo anni ’50.
    «È vero, e questa fisicità è anche la caratteristica della stessa spiritualità di Giussani , che costantemente ripeteva come il cristianesimo non fosse una filosofia ma un fatto, cioè la assunzione di un corpo umano da parte di Dio. Questa fede così profondamente incarnata traspariva nella sua corporeità : lui diceva quello che era, rappresentava appassionatamente, anche con il modo di essere, di muoversi, il Cristo incarnato in cui credeva».

    «Il suo interesse per noi – lei scrive – «non aveva nulla di materno, non era preoccupato di rassicurarci, di avere il nostro consenso. Era piuttosto, con ogni evidenza, un giovane padre esigente, che ci sollecitava fino allo spasimo a tirar fuori ciò che avevano dentro, a esser coraggiosi, a spenderci, come faceva lui.(..) "Tirate fuori quello che avete dentro", imprecava». Ma cosa vi chiedeva infine Giussani?
    «Ci chiedeva di essere noi stessi, di essere uomini, di non arretrare nemmeno di un passo di fronte alla verità. Di non essere avari. Vale a dire di non risparmiarci nel confronto con la verità, e nel suo riconoscimento».

    «Questo suo insistere sulla ricchezza da tirar fuori, spendere, assieme alla sua vitale selvatichezza, mi piacque molto – lei ricorda. Finalmente un prete che presentava il cristianesimo come una religione della ricchezza e del dispendio, mentre tutti intorno lo mostravano come una specie di gigantesca, millenaria, Caritas, ossessionata dalla povertà, e dominata dall’imperativo del soddisfacimento del bisogno». Cristianesimo, religione della ricchezza o della povertà, ci spieghi.
    «Sono due punti di partenza diversi. Uno presuppone un’idea dell’uomo come spiritualmente ricco, dotato delle sovrabbondanze che Dio gli ha dato, da donare e trasmettere, mentre la visione pauperistica che mi sembrava di cogliere nella Chiesa di quegli anni era dominata dalla sottolineatura di mancanze e dai bisogni materiali, e da una rincorsa sempre molto materiale all’appagamento di questi stessi bisogni. Una rincorsa che non mi sembrava molto diversa da quella del versante laico, strenuamente impegnato nell’aumento dei redditi e dei consumi. In tutto ciò mi sembrava si dimenticasse che non di solo pane vive l’uomo. La domanda esigente di Giussani andava invece nel senso di tirare fuori la nostra ricchezza interiore , di vivere all’altezza dei doni di cui eravamo portatori, per poterli trasmettere agli altri. Questo, mi entusiasmava. Mi chiariva ciò che fino allora avevo intravisto oscuramente: l’immagine dell’uomo come portatore di ricchezza divina, come dono egli stesso, che deve riconoscere, esprimere e a propria volta donare».

    C’è qualcosa che di Giussani fu particolarmente importante per lei?
    «Io non ero di Gs, non entrai nel Movimento. Ero anzi il direttore "laico" del giornale del liceo, il "Berchet"; ma benché non fossi uno dei “suoi” ragazzi, da Giussani mi sono sentito sempre ascoltato con estrema attenzione, e profondamente amato. Quest’amore mi rimase dentro, sempre».

    Nel racconto del libro, lei sembra fare la parte del giovane ricco del Vangelo: «Non avevo ancora smesso di coltivare le mie, non ancora riconosciute, avarizie”.(..) “La luce era arrivata, ma io ero ancora un giovane della middle upper class che voleva soprattutto divertirsi». Pare uno che vede, capisce, e se ne va.
    «È vero, io mi sono tirato indietro: con la stessa tristezza e lo stesso rimpianto del "giovane ricco", cui infatti dedico una riflessione, in quello stesso libro. Ho amato molto Giussani, ma non l’ho seguito. Ero un ragazzo, non abbastanza generoso verso gli altri, e troppo poco esigente verso se stesso, per accettare quella sfida senza mezzi termini che lui mi aveva posto, e che io avevo perfettamente afferrato. Non sono stato capace. Ma il mio rapporto con Luigi Giussani, rimase quello di una profonda amicizia, e di una figliolanza che continuò a nutrirmi, e illuminare la strada, nel corso della vita».

    Marina Corradi

    Avvenire - 24 febbraio 2005

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    FUNERALI DI MONS. GIUSSANI: CARD. RATZINGER, "CERCAVA LA BELLEZZA INFINITA E HA TROVATO CRISTO"


    "Don Giussani cercava la bellezza infinita e così ha trovato Cristo". Durante i funerali di monsignor Luigi Giussani, il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha tenuto l’omelia, nella quale ha tra l’altro affermato: "Egli ha sempre rivolto lo sguardo verso Cristo" e ha inteso "il cristianesimo non come un pacchetto di regole morali ma come un incontro, una storia di amore, un avvenimento. L’innamoramento in Cristo, questa storia di amore che è tutta la sua vita, era lontana da ogni entusiasmo leggero e da ogni romanticismo vago. Secondo lui incontrare Cristo significava seguire Cristo". Un cammino, quello di Giussani, che "attraversa anche ‘valli oscure’ e giunge sulla via della croce". Il cardinale ha spiegato che il sacerdote ambrosiano "non voleva tenere per sé la vita; egli l’ha donata e così l’ha trovata per sé e per tanti altri". "Era un fedele servitore del vangelo": la sua vita "ha portato molti frutti". Ratzinger ha ricostruito alcune tappe dell’esistenza di Giussani, sottolineandone i tratti spirituali, la forte tensione caritativa, "l’amore per la Chiesa, della quale è stato servitore fedele, fedele al Santo Padre e ai suoi vescovi". Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede si è quindi soffermato sul nome del movimento fondato da Giussani: "Esso ci fa subito pensare alla moderna parola ‘libertà’, come dono della fede, dicendoci però che la libertà, per essere piena e vera, ha bisogno della comunione". Non è mancato infine un invito a pregare "anche per la salute del Santo Padre", cui Giussani era strettamente legato, ricoverato oggi in ospedale, "perché il Signore gli dia salute e serenità".

 

 
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