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  1. #1
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    Predefinito IV Commissione: religione ed etica

    Purtroppo temo di non essere in grado di aprire i lavori, con la relazione introduttiva, prima di Lunedì. Spero però di pubblicare nel frattempo spezzoni meno sistematici sull'argomento.

    Dichiaro comunque aperti i lavori.

  2. #2
    Leoni in guerra e agnelli pieni di dolcezza nelle nostre case
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    Predefinito Re: III Commissione: religione ed etica

    In Origine postato da UgoDePayens
    Purtroppo temo di non essere in grado di aprire i lavori, con la relazione introduttiva, prima di Lunedì. Spero però di pubblicare nel frattempo spezzoni meno sistematici sull'argomento.

    Dichiaro comunque aperti i lavori.
    .

    Prenditi il tempo necessario... E' un lavoro duro e necessita di tempo.
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  3. #3
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    Ehm... piccolo errore: non della terza ma della QUARTA commissione si tratta.
    Il moderatore può correggere l'errore nel titolo?
    'Azie

  4. #4
    Leoni in guerra e agnelli pieni di dolcezza nelle nostre case
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    Predefinito

    In Origine postato da UgoDePayens
    Ehm... piccolo errore: non della terza ma della QUARTA commissione si tratta.
    Il moderatore può correggere l'errore nel titolo?
    'Azie
    Fatto Ugo. Con difficoltà ma ce l'ho fatta (moderatore da poco).
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  5. #5
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    Predefinito

    Affrontare la religione e l'etica da un punto di vista conservatore potrebbe sembrare facile, ma così non è affatto.

    Chi infatti pensa che per essere conservatore basti biasimare la corrente depravazione morale e rimpiangerei "i bei vecchi tempi andati" sarebbe molto fuori strada. Nessun conservatore infatti pensa che tornare indietro sia meglio che "andare avanti".
    Direi anzi che la concezione della storia per un conservatore è assai più vicina a quella lineare (con un inizio e una fine, cristiana) che non a quella ciclica (dei corsi e ricorsi storici, più pagana).
    E' per questo che, sebbene essere conservatori significhi rifiutare in toto l'attesa ottimistica delle magnifiche sorti e progressive, è per noi impossibile cadere nel tragico errore di idealizzare il passato. Al contrario, analizzare il passato ci serve per capirlo nella sua interezza, e per valutare quali fossero i suoi lati positivi e quali quelli negativi, al fine di CONSERVARE I primi e cambiare i secondi in funzione dell'esperienza fatta.

    Concretamente questo si traduce per noi nel riconoscimento del valore immenso che la tradizione culturale occidentale ha. Valore dovuto principalmente a tre diversi apporti: quello greco della filosofia e della democrazia, quello latino del diritto e del mos maiorum, quello ebraico-cristiano della libertà personale e della dignità di ogni singola vita umana.

    In seguito andrò a esaminare uno alla volta queste tre "gambe" che sostengono la nostra civiltà.

  6. #6
    Leoni in guerra e agnelli pieni di dolcezza nelle nostre case
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    In Origine postato da UgoDePayens
    Affrontare la religione e l'etica da un punto di vista conservatore potrebbe sembrare facile, ma così non è affatto.

    Chi infatti pensa che per essere conservatore basti biasimare la corrente depravazione morale e rimpiangerei "i bei vecchi tempi andati" sarebbe molto fuori strada. Nessun conservatore infatti pensa che tornare indietro sia meglio che "andare avanti".
    Direi anzi che la concezione della storia per un conservatore è assai più vicina a quella lineare (con un inizio e una fine, cristiana) che non a quella ciclica (dei corsi e ricorsi storici, più pagana).
    E' per questo che, sebbene essere conservatori significhi rifiutare in toto l'attesa ottimistica delle magnifiche sorti e progressive, è per noi impossibile cadere nel tragico errore di idealizzare il passato. Al contrario, analizzare il passato ci serve per capirlo nella sua interezza, e per valutare quali fossero i suoi lati positivi e quali quelli negativi, al fine di CONSERVARE I primi e cambiare i secondi in funzione dell'esperienza fatta.

    Concretamente questo si traduce per noi nel riconoscimento del valore immenso che la tradizione culturale occidentale ha. Valore dovuto principalmente a tre diversi apporti: quello greco della filosofia e della democrazia, quello latino del diritto e del mos maiorum, quello ebraico-cristiano della libertà personale e della dignità di ogni singola vita umana.

    In seguito andrò a esaminare uno alla volta queste tre "gambe" che sostengono la nostra civiltà.
    Mi sembra un ottimo inizio.
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  7. #7
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    Exclamation

    Amici,
    posto di seguito una serie di interessanti contributi tratti da "Voci per un Dizionario del Pensiero Forte", sezione del sito Internet di Alleanza Cattolica.

    Rappresentano un'ottima base di partenza per delineare la piattaforma anti-relativistica e "pro-life" che muoverà l'operato del nostro movimento.

  8. #8
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    Predefinito L'aborto nell'ordinamento giuridico della Repubblica Italiana

    L'aborto nell'ordinamento giuridico della Repubblica Italiana
    di Alfredo Mantovano


    1. L'aborto in Italia prima della legge n. 194/1978

    Prima del 1975 l'aborto in Italia non era consentito, e anzi veniva sanzionato dalle norme contenute nel titolo X del libro II del codice penale; tuttavia, la giurisprudenza applicava con una certa frequenza come causa di giustificazione lo "stato di necessità", previsto dall'articolo 54 dello stesso codice, ritenendo non punibile l'intervento abortivo reso necessario per salvare la vita della gestante e, in taluni casi, anche per ragioni di salute, purché gravi: era una soluzione che valutava l'interruzione della gravidanza in termini di illiceità, salvo rinunciare all'applicazione della pena nel caso concreto, in presenza di circostanze di fatto rigorosamente verificabili.


    Il primo sensibile mutamento di rotta avviene nel 1975, con la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 che, pur riconoscendo "fondamento costituzionale" alla "tutela del concepito" nell'articolo 2 della Costituzione, posto a garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, compie un salto logico quando afferma che "[...] non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione, che persona deve ancora diventare", quasi che si possa distinguere fra persona in senso assoluto e persona in senso relativo. Questa decisione ha, di fatto e di principio, aperto la strada all'aborto, che sarebbe stato introdotto dopo tre anni, perché ha consentito la soppressione del feto quando la gravidanza - per riprendere i termini usati dai giudici di Palazzo della Consulta - "implichi danno o pericolo grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della donna"; la causa di giustificazione costituita dallo stato di necessità veniva in questo modo notevolmente dilatata, perché, rispetto all'articolo 54 del codice penale, era eliminato il limite dell'attualità del pericolo ed era stabilita in via generale la prevalenza della salute della madre sulla vita del nascituro, pur restando, a differenza di quanto avverrà con la legge n. 194/1978, il filtro dell'accertamento medico del danno o del pericolo per la salute medesima.


    2. La disciplina introdotta dalla legge n. 194

    La legge italiana sull'aborto, la n. 194 del 22 maggio 1978, recante Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza, indica la pratica abortiva con l'eufemismo "interruzione volontaria della gravidanza", ulteriormente occultato nell'uso corrente sotto la sigla i.v.g.; quindi, suddivide in modo del tutto arbitrario la vita infrauterina in tre periodi, fissando per ciascuno di essi una differente disciplina e avendo come esclusivo criterio di riferimento i rischi per la salute della donna.


    Il primo periodo, regolamentato dagli articoli 4 e 5, coincide, pur se in modo non del tutto esatto perché le dichiarazioni della gestante sul momento iniziale della gravidanza hanno un peso decisivo, con i primi novanta giorni della gestazione, nel corso dei quali è di fatto ammesso l'aborto senza limiti. Ogni ragione è valida, dalle condizioni economiche, sociali e familiari, alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, alla previsione di anomalie o malformazioni del nascituro: ciascuna di queste ragioni, in quanto si traduca in "un serio pericolo" per la salute fisica o psichica della donna, legittima il ricorso all'aborto, gratuito o assistito. Si tratta di un insieme di indicazioni estremamente generiche, la cui ampiezza preclude qualsiasi concreto accertamento, peraltro non previsto e non prevedibile; bisognerebbe chiarire, per esempio, come sia medicalmente verificabile il pericolo per la salute psichica della gestante derivante dalle preoccupazioni economiche relativamente al futuro mantenimento del concepito: l'ipotetico riscontro dovrebbe in tal caso riguardare la denuncia dei redditi, il benessere psicologico della donna, o ambedue?


    Quanto alle modalità per ottenere l'intervento, la gestante si può rivolgere al consultorio, o a una struttura sociosanitaria, oppure al proprio medico di fiducia: costoro, secondo la previsione di legge, dovrebbero indurla a riflettere e dissuaderla dall'aborto, prospettando le possibili alternative. Se ravvisano l'urgenza dell'intervento, rilasciano un certificato con il quale la donna può immediatamente recarsi ad abortire; altrimenti redigono ugualmente un certificato che attesta la gravidanza e la richiesta presentata dalla donna: costei, decorso il termine di sette giorni, è legittimata a ottenere l'intervento di aborto. In concreto, non ha alcun rilievo la ragione avanzata dalla gestante a sostegno della propria decisione: poiché non è prevista alcuna verifica della sua fondatezza, l'esito, anche qualora il soggetto interpellato non ravvisi né l'urgenza né la sussistenza dell'indicazione, è comunque il rilascio di un pezzo di carta che, fotografando un dato obiettivo, la gravidanza, e una dichiarazione di volontà, l'intenzione di interromperla, autorizza l'interruzione.


    Il secondo periodo, disciplinato dagli articoli 6 e 7, è quello compreso fra il quarto mese di gravidanza e la possibilità di vita autonoma del feto, e quindi - in considerazione della dipendenza di quest'ultima dalle attrezzature mediche e dalla perizia degli ostetrici - non è determinabile a priori: in tale arco temporale l'aborto può praticarsi per motivi terapeutici in senso lato, e perciò anche con riferimento alla salute psichica della donna, ed eugenetici, con riferimento a timori di malattie del nascituro; queste indicazioni vanno medicalmente accertate, pur se la genericità delle formulazioni non consente una verifica rigorosa.


    Infine, il terzo periodo è quello compreso fra il momento della vitalità del nascituro e la nascita: l'aborto è praticabile solo se è in pericolo la vita della donna.


    La legge n. 194 prevede inoltre l'assenso dei genitori o del tutore per l'interruzione della gravidanza della minore e dell'interdetta e, in mancanza, l'autorizzazione del giudice tutelare, nonché la facoltà per i medici di sollevare obiezione di coscienza.


    3. Diciotto anni di legge n. 194: bilancio di un fallimento e di una strage

    "La legge si propone: di azzerare gli aborti terapeutici; di ridurre gli aborti spontanei; di assistere quelli clandestini. Si propone inoltre di favorire la procreazione cosciente, di aiutare la maternità, di tutelare la vita umana dal suo inizio": con queste parole uno dei relatori della legge sull'aborto, l'on. Giovanni Berlinguer, ne riassumeva gli intenti e gli obiettivi; diciotto anni costituiscono un tempo più che bastevole per verificare se questi ultimi siano stati conseguiti.


    Gli "aborti terapeutici" sono quelli "legali" tout court, perché, come si è detto, l'articolo 4 riunisce le varie circostanze la cui semplice evocazione autorizza a ricorrere all'intervento interruttivo sotto un'unica e vaga indicazione di salute. Dal 1978 al 1995, invece di azzerarsi, gli "aborti terapeutici", in tal senso intesi, hanno superato i tre milioni e mezzo, con una media di poco inferiore ai duecentomila all'anno, e un rapporto annuo che è di un aborto per ogni tre o quattro nati vivi: quindi si tratta di una pratica abortiva diffusa capillarmente, che non può spiegarsi con situazioni eccezionali o con difficoltà insuperabili. D'altra parte, il profilo medio della donna che fa ricorso all'aborto, ricostruibile sulla base dei dati diffusi annualmente dal ministero della Sanità, rinvia a una gestante che nella gran parte dei casi è coniugata, non separata né divorziata, in età compresa fra i venticinque e i trentaquattro anni, con sufficiente livello di istruzione, e con non più di due figli, pertanto in condizioni ottimali, almeno sotto questi profili, per accogliere il nascituro.


    La legge n. 194 ha fallito pure sul versante della lotta alla clandestinità perché, sempre in base alle stime ministeriali, l'aborto clandestino si attesterebbe attualmente fra le cinquanta e le sessantamila unità all'anno. Ancora: la maggiore coscienza e responsabilità della procreazione è tutta da dimostrare, perché l'area della recidività fra chi ricorre all'intervento di i.v.g. supera del 30% coloro che hanno già abortito almeno una volta. Quanto all'aiuto alla maternità e alla tutela della vita umana, resta solo la constatazione di una grande ipocrisia perché, senza che esista nell'ordinamento giuridico una legislazione di reale accoglienza della vita, la legge n. 194 ha conferito il "diritto" di sopprimere ciò che fa diventare madre, e quindi di violare irreparabilmente la vita umana.


    4. Prospettiva di riforma

    La revisione della legislazione italiana sull'aborto, per avere connotati di serietà, deve muoversi lungo quattro direttrici interdipendenti, che ribaltino la logica di banalizzazione della vita oggi dominante.


    a. Va affermato senza incertezze che l'essere umano, in base a constatazione naturale e non come esito di una determinata impostazione religiosa confessionale, è tale dal concepimento, e quindi da quel momento ne va garantita l'intangibilità: l'articolo 1 della legge n. 194 tutela formalmente la vita umana "fin dal suo inizio", ma trascura significativamente di riconoscere quando si ha quell'"inizio".


    b. Deve introdursi un'articolata serie di misure che aiutino la maternità in genere, e quella difficile in particolare. Per lo Stato non può essere indifferente che una famiglia sia senza figli, o ne abbia soltanto uno, o due, o quattro, oppure dieci: anche in virtù del richiamo costituzionale all'uguaglianza sostanziale e della protezione accordata alla famiglia numerosa, il nucleo familiare non può ancora essere ritenuto una somma di individui, ma diventare soggetto autonomo, in ogni settore, da quello tributario a quello sanitario, fino a quello scolastico.


    c. Il volontariato, che ha dato ottima prova di sé, nonostante gli ostacoli frapposti, per limitare l'aborto e per stimolare all'accoglienza, va potenziato e dotato, nella prospettiva dell'aiuto alla vita, degli strumenti operativi e dei mezzi economici necessari, così come è stato fatto per i volontari che operano sul fronte della tossicodipendenza.


    d. Si deve ripensare a misure, anche penalistiche, che dissuadano dalla pratica abortiva: non ha senso proclamare l'intangibilità della vita e ometterne la tutela sotto questo profilo, come sarebbe assurdo immaginare che l'esortazione a essere buoni sia sufficiente a proteggere l'esistenza di chi è già nato, indipendentemente dalla configurazione del delitto di omicidio. Le sanzioni saranno ovviamente graduate a seconda dei soggetti della vicenda abortiva: la posizione del medico che pratica l'intervento interruttivo non può essere equiparata a quella della gestante, e le difficoltà che incontra quest'ultima non sono le stesse dei parenti che la inducono o la costringono all'aborto. Tuttavia resta ferma la necessità di una valutazione di disfavore dell'ordinamento giuridico verso la soppressione della vita umana, pur se ancora prenatale.

    Da "Voci per un Dizionario del Pensiero Forte" - Alleanza Cattolica

  9. #9
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    Predefinito L'antiproibizionismo

    L'antiproibizionismo
    di Mauro Ronco


    1. Il retroterra: la cultura «alternativa» degli anni 1970

    Nel linguaggio massmediatico, accolto anche a livello politico e giuridico, si designa come antiproibizionista quella corrente di pensiero che stigmatizza come illiberale e inopportuna la proibizione dell'uso e della circolazione delle droghe, in particolare di quelle cosiddette leggere - la canapa indiana e i suoi derivati -, nonché di quelle aventi effetti psicodislettici, dispercettivi. Una siffatta tendenza ha il suo retroterra nella cultura alternativa, diffusa con vertiginosa - e sospetta - rapidità nella prima metà degli anni 1970 in tutto il mondo occidentale. Il comune buon senso riprovava all'epoca l'uso delle droghe. La cultura alternativa intendeva rovesciare tale giudizio e sosteneva che le droghe, in specie la canapa indiana e i suoi derivati, nonché gli psicodislettici, meritavano un apprezzamento positivo, in quanto idonei a produrre la dilatazione e l'arricchimento dell'esperienza individuale, sì da consentire all'individuo di sgusciare fuori dalla «camicia di forza» della ragione. Timothy Leary (1920-1996), autoproclamatosi gran sacerdote dell'LSD, dichiarava nel 1969 che tale sostanza non soltanto «cambia il modo di pensare», ma è addirittura in grado di «cambiare la natura umana». Nello stesso 1969 i teorici della Marijuana Review proclamavano che «il problema della marijuana è una guerra civile culturale in cui il modo di pensare tradizionale, conformista e conservatore - morale, etico e religioso - urta contro la nuova coscienza, planetaria, dinamica, globale, espansa». Leary aggiungeva che la droga sarebbe stata l'unica via per far assimilare all'uomo occidentale, schiavo di secoli di pensiero logico, il modo di pensare afro-asiatico: «le droghe psichedeliche - scriveva - anneriscono l'uomo bianco». Il sociologo Guido Blumir intitolava un'opera del 1973 La marijuana fa bene; e il filosofo del diritto Giovanni Cosi distingueva fra droghe utilizzabili come mezzi per la dilatazione della coscienza e droghe dannose, sì che la valutazione giuridica si sarebbe dovuta spostare dalla semplice accettazione o negazione in toto della droga al modo in cui usarla come mezzo di espansione della conoscenza: «Droga come mezzo di conoscenza - scriveva in La liberazione artificiale. L'uomo e il diritto di fronte alla droga, del 1979 -: questo è il presupposto, o l'ipotesi, di partenza del nostro tentativo di valutazione filosofica». Fra il 1970 e il 1975, in molti settori della cultura giovanile, la canapa indiana diventa costume di gruppo ed è considerata sinonimo di libertà. La campagna per la sua liberalizzazione viene condotta sul filo della distinzione fra droghe innocue, creative - marijuana e haschisch -, e droghe pesanti o dannose, trascurando che l'uso della canapa e dei suoi derivati rappresenta comunque un pericolo inaccettabile per la salute e svolge la funzione di droga ponte per l'accostamento alle sostanze pesanti.


    Gli effetti sociali di una tale cultura sono devastanti. Già negli anni 1974 e 1975 l'eroina, droga dura per antonomasia, comincia a diventare oggetto di consumo di massa. La cultura alternativa, invece di prendere atto del fallimento del modello antropologico cui si ispira - dell'uomo totalmente anomico e libero dai vincoli della legge morale e della solidarietà sociale -, rovescia la responsabilità degli accadimenti sul sistema politico, per aver mantenuto il regime giuridico proibizionistico tanto delle droghe leggere che pesanti, e per aver costretto così il proletariato giovanile all'uso distruttivo di queste ultime. Blumir, nel saggio Eroina, del 1976, sostiene che il sistema proibizionistico delle droghe ha avuto il duplice effetto di criminalizzare il dissenso di massa e di favorire la diffusione dell'eroina a scapito delle droghe creative.


    2. Il discorso antiproibizionistico

    Al di là delle fumisterie sociologico-politiche, il nucleo concettuale del discorso antiproibizionistico, ben esposto dallo psichiatra di origine ungherese, naturalizzato americano, Thomas S. Szasz, sta nel rovesciamento della motivazione consueta in ordine al rapporto fra il diritto e le droghe: queste non sarebbero proibite perché cagionano un danno, bensì cagionerebbero un danno perché sono proibite. Si vorrebbe liberalizzare la droga per combattere la criminalità: le sostanze definite come leggere dovrebbero essere poste in libera vendita dal monopolio dello Stato e l'eroina, come il metadone e la morfina, dovrebbero essere prescrivibili dai medici e acquisibili con ricetta in farmacia. Si ammetterebbe con ciò, sul piano sociale e giuridico, la «libertà» dell'individuo di provocare a sé stesso, mediante il consumo degli stupefacenti, la distruzione delle strutture portanti della personalità. Il comportamento drogastico dovrebbe essere socialmente giustificato perché espressione di una libertà assoluta, intesa come possibilità di fare quello che si vuole, indipendentemente da ogni vincolo e legame esterno a sé.


    Sennonché una siffatta idea di libertà, come possibilità dell'uomo di fare quello che gli aggrada, indipendentemente dalla finalità dell'atto compiuto, è intimamente contraddittoria e porta a conseguenze socialmente devastanti. Gli effetti del preteso atto di «libertà», con cui l'individuo soddisfa il suo piacere tossicomanico, gli tolgono via via la stessa possibilità di compiere altri atti espressivi del suo arbitrio, fino a renderlo totalmente vittima della droga. Se gli effetti dell'uso delle droghe consistono principalmente nello strappare all'uomo la struttura portante degli atti di libera decisione, allora non è estraneo ai compiti dello Stato impedire che si diffonda una tale condizione. Abbandonare gli individui alla propria autodistruzione significherebbe misconoscere il fondamentale principio di solidarietà, che esprime la stessa essenza metafisica della società. La naturale socialità della persona umana manifesta che il destino dell'uomo si compie nella realizzazione dei valori nella società, in unione con le altre persone. La correlazione fra la persona e la società ha carattere non soltanto ontologico, perché esprime il vincolo essenziale che sussiste fra i membri e la società, ma anche etico e normativo, perché esprime ciò che deve essere nella concretezza storica della vita sociale. In questo senso i singoli uomini hanno doveri nei confronti della società, così come quest'ultima ha doveri verso di loro. Ma strappare da sé stessi la struttura portante degli atti che attuano le varie forme di collaborazione con gli altri uomini e consegnarsi all'autodistruzione, significa sottrarsi, in modo radicale e tendenzialmente irrimediabile, ai fondamentali doveri di solidarietà che sono imposti dalla socialità della persona, dall'essenza della vita in comune e dal profilo costituzionale concernente la realizzazione delle potenzialità della persona nella dimensione della solidarietà.


    3. Il profilo giuridico costituzionale

    L'antiproibizionismo, alla luce di quanto esposto, si presenta socialmente devastante e va, pertanto, respinto. L'ordinamento giuridico della Repubblica Italiana si fa latore, negli articoli 2 e 3 della Costituzione, di un messaggio fondamentale di solidarietà, chiaramente espresso in una direzione biunivoca. Non soltanto, infatti, l'organismo sociale, rappresentato dallo Stato, deve farsi carico, in un'ottica di solidarietà, di rimuovere gli ostacoli, ricollegabili alle ragioni più diverse, che, limitando in concreto l'esercizio della libertà dei cittadini e le disuguaglianze di fatto delle loro condizioni economiche e sociali, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (articolo 3, comma 2 Cost.), ma anche il cittadino deve realizzare le aspirazioni della sua personalità nel quadro dell'adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale (articolo 2 Cost.).


    Ora, se lo Stato trascurasse di orientare i cittadini, grazie all'opera di promozione esercitata attraverso la funzione legislativa, verso il rispetto di tali doveri e non si preoccupasse del loro adempimento, violerebbe il suo compito inteso a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Se i singoli si mettessero nella condizione, acquisendo modalità di vita tossicomanica, di non adempiere, in via permanente, ai propri doveri di solidarietà sociale, e se lo Stato tollerasse, con tale indifferenza, che ciò accadesse, i doveri previsti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione sarebbero parole vane. Le esigenze della solidarietà postulano non soltanto la fornitura di prestazioni della collettività a favore dei singoli, bensì anche la disponibilità di essi, isolatamente considerati o riuniti nelle varie formazioni sociali, a contribuire alle necessità della società. La socialità della persona, invero, più che di debolezza o di limitazione, è rivelativa dell'interiore ricchezza e abbondanza dell'uomo. Strappare da sé stessi la struttura portante degli atti di libera decisione; consegnarsi, mediante l'uso delle droghe, a strutture di mero divenire; progettarsi in una dimensione di vita totalmente estranea rispetto alle esigenze che derivano dal patto sociale significativo, equivale a rifiutarsi in radice a quell'apertura agli altri e a quell'ordinazione di sé stessi alla società, che è condizione fondamentale di vita dell'ordinamento giuridico.


    Quanto, poi, all'altro argomento, che vuole giustificare la liberalizzazione degli stupefacenti, secondo cui tale misura comporterebbe l'eliminazione del mercato nero e dei profitti dei trafficanti, è facile coglierne la natura sofistica. Se è naturale che la proibizione degli stupefacenti comporti costi sociali - fra cui il costo di tenere in vita l'apparato di polizia e giudiziario necessario per arrestare e punire i trafficanti -, ancora più ingenti sarebbero i costi sociali - che gli antiproibizionisti sogliono occultare nelle loro discussioni - discendenti dalla libera circolazione degli stupefacenti. A fronte del costo sociale costituito dalla repressione delle droghe, sta il costo umano e sociale recato dal loro uso, che si accrescerebbe inevitabilmente ove esse fossero in libera vendita. Danno umano consistente nella messa in pericolo, per opera dello Stato medesimo, della salute dei cittadini; danno sociale, consistente nell'aumento delle risorse da devolversi per la cura e la riabilitazione dei tossicodipendenti; danno sociale, consistente nell'estraniazione al patto sociale significativo di fasce sempre più vaste di energie personali, soprattutto giovanili.


    Per tutti questi motivi, raccogliendo con coraggio la sfida lanciata dagli antiproibizionisti, va detto che la cifra dell'atteggiamento che vuole la proibizione degli stupefacenti è costituita dal valore della solidarietà, in virtù del quale ciascuno deve mantenere, nella misura delle sue capacità, l'essenziale apertura di sé stesso alle esigenze sociali. La libertà nella solidarietà è libertà creativa e costruttiva per il singolo e per la società, a differenza della «libertà» di autodistruzione, che annichila il singolo e intossica la società.

    Da "Voci per un Dizionario del Pensiero Forte" - Alleanza Cattolica

  10. #10
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    Predefinito L'eutanasia

    L’eutanasia
    di Lorenzo Cantoni


    1. Nozione

    Dopo aver già da tempo abbandonato il legame con l’etimo greco di morte buona, il termine eutanasia viene usato nell’attuale dibattito in sensi spesso molto diversi. Frequentemente si distingue fra eutanasia attiva — o positiva, o diretta —, là dove il medico, o chi per lui, interviene direttamente per procurare la morte di un paziente, ed eutanasia passiva — o negativa, o indiretta —, dove si ha invece astensione da interventi che manterrebbero la persona in vita. Si distingue inoltre fra eutanasia volontaria, quella esplicitamente richiesta dal paziente, ed eutanasia non volontaria, quando la volontà del paziente non può essere espressa, perché si tratta di persona incapace.


    Eutanasia si oppone talora a distanasia o ad accanimento terapeutico, che indicano invece il ricorso a interventi medici di prolungamento della vita non rispettosi della dignità del paziente. Prossimo concettualmente e fattualmente all’eutanasia, benché distinto da essa, è poi il suicidio medicalmente assistito, in cui la morte è conseguenza diretta di un atto suicida del paziente, ma consigliato e/o aiutato da un medico. Si tratta, come si vede, di una mappa di significati tutt’altro che omogenea e definita, e assai sensibile alla prospettiva teorica adottata.


    Una definizione completa e precisa — abitualmente citata anche da autori che non ne condividono le valutazioni etiche concomitanti — si trova nella Dichiarazione sull’eutanasia "Iura et bona", pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 5 maggio 1980, al n. 6: "Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati".


    2. Sofferenza, trattamento del dolore ed eutanasia

    Una delle caratteristiche definitorie dell’eutanasia è dunque il suo obiettivo di ridurre la sofferenza. Talora si ritiene che la richiesta di un intervento eutanasico o di un’assistenza al suicidio da parte dei pazienti sia direttamente proporzionale alla gravità della loro malattia, e alla loro sofferenza. Si tratta, invero, di una semplificazione indebita. Se prendiamo in esame i casi di suicidio, per esempio, "gli studi indicano — secondo il documento When Death Is Sought: Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context, pubblicato nel 1994 dallo Stato di New York — che su molti pazienti con grave sofferenza, sfiguramento o disabilità, la grande maggioranza non desidera il suicidio. In uno studio su pazienti malati terminali, fra quelli che espressero una volontà di morire, tutti soddisfacevano i criteri di diagnosi della depressione endogena".


    L’esperienza degli Hospice, cliniche il cui obiettivo primario è l’umanizzazione dell’assistenza ai pazienti in fin di vita, e il trattamento del dolore — attraverso le cosiddette cure "palliative" — mette in dubbio ulteriormente questa correlazione fra sofferenza e desiderio di morire apparentemente così ovvia: "Pazienti con una sofferenza non controllata — si legge nel documento citato — possono vedere la morte come l’unica fuga dalla sofferenza che stanno sperimentando. In ogni caso, la sofferenza non è solitamente un fattore di rischio indipendente. La variabile significativa nel rapporto fra sofferenza e suicidio è l’interazione fra sofferenza e sentimenti di disperazione e depressione".


    3. Aspetti legali e giuridici dell’eutanasia

    Benché il Parlamento inglese avesse discusso già nel 1936 una proposta di legalizzazione dell’eutanasia, e con l’eccezione della legislazione nazionalsocialista, fino a un periodo molto recente essa non ha avuto posto nella legislazione come fattispecie a sé: la pratica eutanasica viene ricondotta, a volta a volta, ad altre fattispecie esistenti; in Italia, per esempio, essa configura i reati di omicidio del consenziente, previsto dal codice penale all’articolo 579, e di istigazione o aiuto al suicidio, di cui all’articolo 580.


    In questo contesto giuridico si situano, con effetti non ancora pienamente prevedibili, sia la depenalizzazione dell’eutanasia nel Regno dei Paesi Bassi nel 1994, sia la sua legalizzazione nel Territorio del Nord della Federazione Australiana nel 1995.


    Nel Regno dei Paesi Bassi la depenalizzazione dell’eutanasia è stata introdotta con una modifica all’articolo 10 del Regolamento di polizia mortuaria; esso ha stabilito, a partire dal giugno del 1994, la non punibilità dei medici che abbiano aiutato a morire i propri pazienti ma siano in grado di dimostrare di aver rispettato una serie di condizioni. L’atto eutanasico deve essere infatti documentato da una relazione scritta da cui risulti che il paziente sia stato affetto da malattia inguaribile, che vi siano state sofferenze insopportabili e che il malato l’abbia richiesto reiteratamente; tali condizioni devono poi essere confermate da parte di un collega del medico dichiarante; questo documento deve inoltre riportare la storia clinica del paziente e i mezzi utilizzati per l’eutanasia. La relazione viene notificata dal medico a un pubblico ufficiale, coroner, con funzioni giudiziarie.


    Dal momento che nel codice penale olandese sono rimasti in vigore sia l’articolo 293, che punisce l’omicidio di consenziente, sia l’articolo 294, che punisce l’istigazione e l’assistenza al suicidio, per depenalizzare l’eutanasia il legislatore olandese ha fatto ricorso all’articolo 40 del medesimo codice, che prevede la scriminante della forza maggiore. La richiesta del paziente viene allora considerata come una "forza maggiore", che rende non perseguibile il medico che pratica l’eutanasia. Tale posizione introduce nell’ordinamento giuridico, a ben vedere, una discriminazione decisa fra vita sana — che il medico ha l’obbligo di tutelare — e vita malata, la cui tutela non è più obbligatoria.


    Nel Territorio del Nord della Federazione Australiana a partire dal giugno del 1995 è entrata in vigore la "Legge dei diritti del malato terminale", che legalizza l’eutanasia. Questa legge legittima la possibilità per il paziente cosciente e maggiorenne di richiedere l’eutanasia nell’ipotesi in cui sia affetto da una malattia inguaribile e le sofferenze siano talmente forti che nessuna terapia sia in grado di alleviarle. A differenza della normativa olandese, quella australiana viene ad affermare l’esistenza di un "diritto alla morte", dal momento che l’eutanasia vi è considerata come un trattamento medico posto a tutela della persona, accettando così che anche altre persone, nel caso in cui il paziente sia incapace, possano firmare, in rappresentanza del malato e alla presenza dei testimoni, una richiesta di eutanasia. Tale normativa non prevede inoltre alcuna pena specifica per i medici che effettuino l’eutanasia in mancanza dei requisiti previsti.


    4. Elementi per una valutazione etica

    Rispetto al suicidio nell’eutanasia vi è un elemento nuovo: l’intervento di un’altra persona, quasi sempre di un medico o di un operatore sanitario, intervento inteso ad alleviare il dolore con il porre un termine alla vita del paziente.


    Si tratta, anzitutto, di una risposta tutt’altro che ovvia: un omicidio sarebbe l’aiuto adeguato a un sofferente; ovvero si verrebbe addirittura a configurare un dovere da parte di qualcuno — il medico o chi per lui — di uccidere una persona che gliene faccia richiesta; o, ancora, si attribuirebbe a qualcuno — medico, giudice, famigliare? — il diritto di stabilire se una vita innocente è meritevole o no d’essere vissuta.


    "Bisogna rispettare la libertà del paziente", si ripete spesso da parte dei sostenitori dell’eutanasia; s’incorre così nella cosiddetta "aporia dello schiavo": si può rinunciare liberamente alla libertà, alla condizione fondamentale del suo normale esercizio, la vita? La richiesta del sofferente è piuttosto quella che gli si allevi il dolore, e tale è la responsabilità del medico; suo compito è accostarsi al paziente per alleviarne le sofferenze fisiche e spirituali, non essere arbitro della sua vita e della sua morte. Ben chiaro era questo limite ne Il giuramento di Ippocrate di Cos (ca. 460-377 a. C.), in cui si legge: "Non darò a nessuno alcun farmaco mortale neppure se richiestone, né mai proporrò un tale consiglio"; questo impegno a favore della vita e contro la morte è ribadito anche nel Codice di Deontologia Medica — approvato dal consiglio nazionale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri il 24 giugno 1995 — all’articolo 35: "Il medico, anche se richiesto dal paziente, non deve effettuare trattamenti diretti a menomarne la integrità psichica e fisica e ad abbreviarne la vita o a provocarne la morte".


    La condizione per ammettere la liceità — e la legalità — dell’eutanasia è l’affermazione di un diritto onnipotente e irresponsabile dell’uomo a disporre della propria vita, e a chiederne la soppressione, una volta che questa sia "senza valore". Ma una volta affermato che la vita "senza valore" può essere soppressa, a chi spetterà poi il diritto e l’onere di stabilire quando la vita è tale? Perché, infatti, dovrebbero "beneficiare" del diritto all’eutanasia solo i malati, o solo gli anziani, o solo i malati gravi?


    Prima di procedere nell’analisi etica conviene far cenno a due possibili e importanti conseguenze di una legalizzazione, o comunque di una diffusione della prassi eutanasica. La prima è l’affievolirsi dell’attenzione al trattamento della sofferenza: laddove l’opzione eutanasica fosse accolta come possibile, ne conseguirebbe molto probabilmente un affievolimento dello sforzo teso a ridurre la sofferenza, soprattutto per quanto riguarda i gruppi socialmente ed economicamente più deboli, per i quali il ricorso all’eutanasia diventerebbe la soluzione più "ovvia" ed economica. Introdotta la possibilità dell’opzione eutanasica — siamo al secondo prevedibile effetto — si assisterebbe inoltre a una sorta d’inversione dell’onere della prova della dignità e del valore di ogni vita umana. In altre parole: il paziente terminale dovrebbe continuamente giustificare la propria scelta di non richiedere l’eutanasia di fronte ai famigliari e al personale medico.


    La stretta e inscindibile connessione fra suicidio ed eutanasia già ha indicato alcuni presupposti di una cultura eutanasica, in particolare l’incapacità di dare senso alla sofferenza e alla morte, e una concezione della persona umana come soggetto di un diritto onnipotente sulla vita e sulla morte. Proprio a questa profondità s’incontra un’insanabile opposizione rispetto alla posizione religiosa, che considera la vita come dono di Dio, bene di cui l’uomo è beneficiario e responsabile, ma non proprietario.


    In tal senso si può allora ben comprendere l’insegnamento della Chiesa cattolica, che da tempo è intervenuta con puntualità e decisione in tema di eutanasia. Si possono ripercorrere i temi principali di tale insegnamento leggendo un brano dell’enciclica Evangelium vitae sul valore e l’inviolabilità della vita umana di Papa Giovanni Paolo II, del 25 marzo 1995, al n. 66: "Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante "perversione" di essa: la vera "compassione", infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. [...]


    "La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. [...]


    "Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone".

    Aggiornamento (luglio 2001)

    Nel 1996, l’anno seguente alla sua approvazione, la legge del Territorio del Nord della Federazione Australiana che legalizzava l’eutanasia è stata abrogata.


    L’11 aprile 2001 è stata approvata dal Senato olandese la Legge su eutanasia e suicidio assistito. La legge, già approvata dalla Camera dei Deputati nel novembre 2000, ufficializza l’impunità di fatto di cui hanno finora goduto i medici che ponevano fine alla vita dei pazienti gravi o morenti con la somministrazione di dosi letali di farmaci o interrompendo cure ordinarie necessarie alla vita. Unica condizione è il rispetto di una serie regole, sostanzialmente le 28 condizioni già indicate dalla legge nel 1994, con l’aggiunta di precisazioni sui minori (il limite minimo d’età per scegliere l’eutanasia è 16 anni, mentre dai 12 ai 16 e per i disabili mentali occorre il consenso di un genitore o tutore) e del riconoscimento del “testamento di vita”, nel caso il paziente non sia in grado di esprimere la sua volontà. La pratica dell’eutanasia ha smesso così di essere sottoposta al controllo della magistratura ed è stata affidata esclusivamente ai medici, come una qualsiasi forma di terapia.

    Aggiornamento (gennaio 2003)

    Il 28 maggio 2002 in Belgio è stata approvata una legge sull’eutanasia volontaria. La legge, che è entrata in vigore il 23 settembre 2002, sancisce la non punibilità per i medici che praticano l’eutanasia su pazienti maggiorenni – o su minorenni, purché capaci d’intendere e di volere – che la richiedano in modo libero, consapevole e ripetuto, in presenza di una patologia “grave e incurabile”, che rechi sofferenze considerate insopportabili e costanti.


    Il testo di legge precisa che tali sofferenze possono essere sia fisiche che psichiche, dilatando così indefinitamente i limiti di applicabilità della normativa; esige inoltre che la richiesta dell’atto eutanasico sia messa per iscritto. In caso di incoscienza, hanno valore legale le direttive anticipate del paziente, che devono essere scritte, e che hanno validità quinquennale.


    Il medico, per quanto tenuto a informare il paziente sulle terapie del dolore disponibili (cure palliative), viene di fatto a essere un mero esecutore della volontà del paziente: il suo intervento si risolve nell’attuazione – con mezzi non specificati dalla legge – dell’atto eutanasico e nella compilazione di un rapporto da sottoporre a una commissione esaminatrice, che è chiamata a valutarlo sulla base della sola correttezza procedurale.

    Da "Voci per un Dizionario del Pensiero Forte" - Alleanza Cattolica

 

 
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