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    La Cultura della Critica
    Prof. Kevin MacDonald

    recensione Stanley Hornbeck
    traduzione G.D.

    Nel libro La Cultura della Critica, il Prof. Kevin MacDonald propone una tesi nello stesso tempo molto ben documentata e controversa: che certi movimenti intellettuali del ventesimo secolo (movimenti che erano in gran parte creati e capeggiati da ebrei) hanno cambiato le società europee in modo fondamentale e hanno distrutto la fiducia in sé stesso dell’uomo occidentale. MacDonald sostiene che questi movimenti sono stati progettati, coscientemente o no, per promuovere gli interessi ebraici sebbene sono stati presentati ai non-ebrei come movimenti universalistici e perfino utopistici. Egli conclude che la crescente dominanza di queste idee ha avuto delle conseguenze politiche e sociali profonde che hanno tanto giovato agli ebrei quanto hanno causato dei danni enormi alle società dei gentili. Quest’analisi, che egli fa con notevole convinzione, è una denuncia insolita contro un popolo generalmente considerato più vittima che "vittimizzatore."

    La Cultura della Critica è l’ultimo libro del massiccio studio a tre volumi del Prof. MacDonald sugli ebrei e sul loro ruolo nella storia. I due volumi precedenti sono Un popolo che vivrà a parte e La separazione e i suoi scontenti, pubblicati da Praeger nel 1994 e 1998. La serie è stata scritta da un punto di vista sociobiologico, il quale vede il giudaismo come una strategia singolare per la sopravvivenza; una strategia che aiuta gli ebrei a competere con altri gruppi etnici. Il Prof. MacDonald, che è psicologo all’Università della California a Long Beach, spiega questo punto di vista nel suo primo volume, il quale descrive gli ebrei come un popolo che ha un fortissimo senso di unicità che l’ha tenuto socialmente e geneticamente separato dagli altri popoli. Il secondo volume traccia la storia dei rapporti fra ebrei e gentili e individua le cause dell’antisemitismo, per la maggior parte nella quasi invariabile dominanza commerciale ed intellettuale sulle società dei gentili da parte degli ebrei e nel rifiuto di questo popolo di assimilarsi. La Cultura della Critica porta l’analisi di MacDonald al ventesimo secolo, con un’esame del ruolo ebraico nella critica radicale alla cultura tradizionale.

    I movimenti intellettuali che MacDonald descrive in questo volume sono il marxismo, la psicoanalisi freudiana, la scuola di psicologia di Francoforte, e l’antropologia boasiana. Dal punto di vista razziale, l’indagine forse più rivelante è quella del ruolo degli ebrei nel promuovere il multiculturalismo e l’immigrazione del terzo mondo. Dal principio alla fine della suo analisi, MacDonald insiste sul proprio punto di vista: cioè che gli ebrei hanno promosso questi movimenti come ebrei e negli interessi degli ebrei, sebbene hanno spesso cercato di dare l’impressione di non avere loro stessi degli interessi particolari.

    Quindi l’accusa più severa di MacDonald contro gli ebrei non è l’etnocentrismo, bensí la malafede, ovvero mentre loro sostengono che lavorano per il bene dell’umanità, in realtà hanno spesso lavorato per il proprio bene e a detrimento degli altri. Mentre cercavano di promuovere la fratellanza di tutti gli uomini tramite lo scioglimento dell’identità etnica dei gentili, gli ebrei hanno mantenuto precisamente il tipo di solidarietà di gruppo e intensa che denunciano come immorale negli altri.

    Celebrare la diversità
    MacDonald sostiene che uno dei modi più consistenti nel quale gli ebrei hanno favorito i loro interessi e quello di aver promosso il pluralismo e la diversità, ma solo per gli altri. Dal diciannovesimo secolo, gli ebrei hanno guidato movimenti che hanno cercato di screditare i fondamenti tradizionali della società dei gentili: il patriottismo, la lealtà razziale, la base cristiana della moralità, l’omogeneità sociale, e il contenimento sessuale. Nello stesso tempo, nelle loro proprie comunità, hanno spesso appoggiato proprio quelle istituzioni che criticano, quando si tratta della società dei gentili.

    In quale modo tutta questa critica è negli interessi degli ebrei? Perché la solidarietà di gruppo “parrocchiale” che caratterizza gli ebrei attira molto meno attenzione in una società che non possieda un nocciolo razziale e culturale coeso. La determinazione ebraica di non assimilasi completamente, la quale spiega la loro sopravvivenza come popolo per migliaia di anni (perfino senza una patria) ha per forza fatto cadere su di loro un’attenzione sgradevole e perfino micidiale nelle nazioni che hanno delle identità nazionalistiche ben definite. Dal punto di vista di MacDonald, è quindi negli interessi degli ebrei di sminuire e indebolire l’identità di qualsiasi popolo nel quale gli ebrei vivono. L’identità ebraica può fiorire incolume soltanto quando l’identità dei gentili è debole.

    MacDonald cita un passaggio straordinario di Charles Silberman: "Gli ebrei americani si sono impegnati per la tolleranza culturale perché il loro parere (il quale è radicato nella storia) è che gli ebrei sono al sicuro soltanto in una società che accetti sia una gamma ampia di attitudini e comportamenti, sia una pluralità di gruppi religiosi ed etnici. È per via di questa convinzione, per esempio, e non per l’approvazione dell’omosessualità, che una maggioranza stravolgente di ebrei americani fanno il tifo per i ‘diritti degli omosessuali’ e che gli fa assumere una posizione liberale sulla maggior parte delle questioni cosiddette sociali".

    MacDonald dice, in effetti, che quando gli ebrei fanno il discorso che ‘la diversità é la nostra forza’, è per appoggiare il loro vero scopo di diluire l’omogeneità d’una società sicché gli ebrei vi si sentiranno incolumi. Esprimono il loro disegno in termini che pensano che i gentili accetteranno.
    Nello stesso modo, come suggerisce la seconda parte della citazione di Silberman, gli ebrei possono appoggiare i movimenti devianti, non perché pensano che giovino alla nazione ma perché giovano agli ebrei.

    Il Prof. Silberman fornisce anche una citazione illuminante di un economista ebraico che pensava che i repubblicani facevano una politica economica più sensata di quella che non facevano i democratici. Egli, però, votava per quest’ ultimi. La sua ragione? "Preferirei vivere in un paese governato dalle facce che ho visto al comitato dei democratici che non dalle facce che ho visto al comitato dei repubblicani." Pare che quest’uomo non si fidi dei gentili bianchi ed egli ha votato un partito razzialmente misto anche se la politica ecomonica di tale partito fosse sbagliata. Sembra che ciò che giova agli ebrei abbia la precedenza su ciò che giova alla nazione.

    Earl Raab, ex presidente della fortemente giudaizzante Brandeis University, esprime il suo sostegno a favore della pluralità in un modo leggermente diverso. Esprimendo la sua soddisfazione per la predizione che entro la metà del 21esimo secolo i bianchi saranno diventati una minoranza, egli scrive: "Abbiamo spostato l’equilibrio (razziale) oltre il punto in cui un partito nazista-ariano potrà prevalere in questo paese". Si direbbe che egli sia pronto a soppiantare la gente e la cultura della stirpe fondatrice Usa per impedire l’ascesa teorica di un regime anti-ebraico. Pare che il Prof. Raab veda i bianchi in genere come potenziali nazisti, ed egli è ben disposto a sacrificare la cultura e la continuità nazionale dei bianchi per disinnescare una minaccia immaginaria per gli ebrei. La citazione prende come scontata l’esistenza permanente degli ebrei come comunità distinta proprio mentre i numeri e l’influenza dei gentili bianchi diminuiscono.

    Nel medesimo passaggio, il Prof. Rabb porta avanti il suo discorso, notando che "è quasi mezzo secolo che noi altri ebrei alimentiamo il clima americano d’opposizione all’intolleranza. Questo clima non è ancora stato perfezionato, ma la natura eterogenea della nostra popolazione tende a farlo irrevocabile...", proprio come tende a rendere irrevocabile il rimpiazzo definitivo della cultura europea.

    MacDonald fa risalire lo sviluppo di questa strategia di diversità ad alcune fonti. È generalmente riconosciuto che l’immigrato tedesco-ebraico Franz Boas (1858-1942) ha quasi da solo stabilito il profilo attuale dell’antropologia, sgombrandola di tutte le spiegazioni biologiche delle differenze che esistono fra le varie culture e fra i vari comportamenti umani. MacDonald riferisce che sia Boas sia i suoi seguaci (con le eccezioni notevoli di Margaret Mead e Ruth Benedict) erano tutti ebrei con una forte identità ebraica: "L’identificazione ebraica e la promozione dei presunti interessi ebraici, e in particolare il sostenere come modello per le società occidentali un’ideologia di pluralismo culturale, è stata la ‘materia invisibile’ dell’antropologia americana".

    Entro 1915, Boas e i suoi studenti si erano impadroniti dell’American Anthropological Association e entro 1926 capeggiavano tutte le facoltà di antropologia delle università americane più importanti. Da questa posizione di dominanza promuovevano l’idea che razza e biologia sono dei concetti
    insignificanti, e che invece è l’ambiente che conta tutto.Hanno completamente rifatto l’antropologia in modo di dare un sostegno intellettuale per l’immigrazione di massa, l’integrazione, e l’incrocio di razze diverse. Hanno anche posto le basi all’idea che dal momento che tutte le razze hanno lo stesso potenziale, i fallimenti dei non-bianchi sono per forza dovuti esclusivamente all’oppressione razziale da parte dei bianchi.
    La conclusione definitiva dell’antropologia boasiana era che dato che tutte le differenze umane hanno una spiegazione ambientale, qualsiasi disparità nella riuscita può essere eliminata cambiando l’ambiente. È stata questa la giustificazione per gli enormi e rovinosi programmi statali di miglioramento sociale.

    L’intero movimento dei "diritti civili" può essere visto come una conseguenza naturale del trionfo del pensiero boasiano. Dato che tutte le razze erano uguali, la separazione era immorale. La linea di divisone fra bianchi e neri faceva anche in modo di acuire l’autocoscienza dei bianchi, così che potessero essere più consapevoli della solidarietà ebraica. Era quindi perciò, secondo MacDonald, che gli ebrei quasi da soli hanno lanciato il movimento per la desegregazione. Senza la leadership degli ebrei, forse non ci sarebbe mai stata fondata la NAACP (Associazione nazionale per l’avanzamento delle persone di colore), e fino al 1975 ognuno dei presidenti suoi era un’ebreo. MacDonald riferisce che nel 1917, quando il separatista nero Marcus Garvey visitò i quartieri generali della NAACP, vide così tante facce bianche che se ne andò tutto infuriato, lamentandosi che era un’organizzazione bianca.

    MacDonald conclude che gli sforzi degli ebrei erano determinanti alla trasformazione dei "diritti civili" d’America. Cita un avvocato per l’American Jewish Congress, il quale sostiene che "tante di queste leggi (sui diritti civili) sono state scritte effettivamente negli uffici delle agenzie ebraiche da impiegati ebraici, presentate da legislatori ebraici e furono adottate sotto la pressione dall’elettorato ebraico."

    Mentre la scuola boasiana promuoveva l’integrazione e l’equivalenza razziale, criticava anche, nelle parole di MacDonald, “la cultura americana come troppo omogenea, ipocrita, ed emotivamente ed esteticamente repressiva” (specialmente per quanto riguardava la sessualità). Centrale a questo programma era la creazione di etnografie di culture idilliache (del terzo mondo) che erano esenti dalle malviste caratteristiche che erano attribuite alla cultura occidentale.

    Il ruolo dell’antropologo divenne quello di criticare tutti gli aspetti della società occidentale mentre glorificava tutto ciò che era primitivo. MacDonald nota che i ritratti boasiani dei popoli non-occidentali ignoravano intenzionalmente le barbarie e la crudeltà o attribuivano queste qualità semplicemente alla contaminazione dall’occidente. Egli vede questo come un tentativo intenzionale ad erodere la fiducia in sé delle società occidentali e di farle permeabili all’influenza del terzo mondo e i suoi popoli. Oggi, questo punto di vista è custodito gelosamente nel dogma che dice che l’America deve rimanere aperta all’immigrazione dato che gli immigrati portano dello spirito e dell’energia che in qualche modo mancano agli americani.

    Le Personalità autoritarie
    Per aprire le società dell’Europa all’immigrazione che le avrebbe trasformate, era necessario screditare la solidarietà razziale e l’impegno alla tradizione. Il Prof. MacDonald sostiene che era questa la meta del gruppo di intellettuali conosciuti come la Scuola di Francoforte. Quello che si conosce a rigor dei termini come l’Istituto per la Ricerca Sociale è stato fondato a Francoforte, Germania, durante il periodo del Weimar,da un ebreo miliardario, ma fu chiuso dai nazisti poco tempo dopo che questi giunsero al potere. La maggior parte del personale emigrò negli Stati Uniti e l’istituto si ricostituì all’Università di California a Berkeley. L’organizzazione fu capeggiata da Max Horkheimer, e i suoi membri più influenti erano T.W. Adorno, Erich Fromm, e Herbert Marcuse, tutti possedevano delle forti identità ebraiche. Horkheimer non cercava di nascondere la natura di
    parte delle attività dell’istituto: "La ricerca potrebbe qui trasformarsi direttamente in propaganda," scrisse.

    MacDonald dedica diverse pagine ad un analisi del libro La Personalità autoritaria, il quale fu scritto da Adorno (ed altri) e che fu pubblicato nel 1950. Faceva parte di una serie chiamata Studi sul pregiudizio, una produzione della Scuola di Francoforte, la quale serie comprendeva titoli tipo l’Antisemitismo e il disordine emotivo. La Personalità autoritaria fu particolarmente influente dal momento che, secondo MacDonald, l’American Jewish Committee finanziava fortemente la sua promozione e perché gli accademici ebraici si entusiasmavano del suo messaggio.

    Lo scopo del libro è fare in modo che qualsiasi affiliazione di gruppo sembri come se fosse un’indicazione di un disordine mentale. Tutto, dal patriottismo alla religione alla solidarietà familiare e razziale, è un’indicazione di una "personalità autoritaria" pericolosa e difettosa. Dato che distinguere fra gruppi diversi non è legittimo, tutte le lealtà di gruppo (perfino i legami stretti familiari!) sono "pregiudizi." Come ha scritto Christopher Lasch, il libro porta alla conclusione che il pregiudizio "potrebbe essere sradicato soltanto sottomettendo il popolo americano all’equivalente di un psicoterapia collettiva, cioè trattando loro come se fossero i ricoverati d’un manicomio."

    Ma secondo MacDonald, queste qualità (la solidarietà di gruppo, il rispetto per la tradizione, e la consapevolezza delle differenze) che Horkheimer e Adorno descrivono come malattie mentali nei gentili, sono invece concetti centrali dell’identità ebraica. Questi scrittori adottavano una tattica che poi diventò quella preferita dai comunisti sovietici contro i dissidenti: chiunque avesse punti di visto diversi dai loro era pazzo. Come spiega MacDonald, la Scuola di Francoforte non criticava mai, neanche descriveva l’identità di gruppo ebraica, solo quella dei gentili: "I comportamenti cruciali dell’ebraismo, indice di una strategia di gruppo evoluzionistica riuscita, sono concettualizzati come patologie nei gentili."

    Per questi intellettuali ebraici, anche l’antisemitismo era un’indicazione di malattia mentale: conclusero che l’abnegazione cristiana e specialmente la repressione sessuale causavano l’odio verso gli ebrei. La Scuola di Francoforte si entusiasmava della psicoanalisi, secondo la quale "l’ambivalenza edipica verso il padre e le relazioni anali-sadiche nell’infanzia sono l’eredità irrevocabile dell’antisemita."

    Oltre a ridicolizzare il patriottismo e l’identità razziale, la Scuola di Francoforte glorificava la promiscuità sessuale e la povertà boema. MacDonald vede la scuola come un’influenza di rilievo: "Certamente, tante delle attitudini centrali della in gran parte riuscita rivoluzione contro-culturale degli anni sessanta si esprimono nella Personalità autoritaria, compreso l’idealizzazione della ribellione contro i genitori; le relazioni sessuali di scarso impiego; e lo sdegno per la mobilità sociale verso l’alto, lo status sociale, l’orgoglio familiare, la religione cristiana, e il patriottismo."

    Di rilievo qui, però, è il successo del movimento nello stigmatizzare le lealtà antiche alla patria e alla razza come malattia mentale. Sebbene arrivasse dopo, l’ebreo-francese "decostruzionista" Jacques Derrida si trovava nella stessa posizione quando scrisse:

    "L’idea della decostruzione è di decostruire i meccanismi delle nazioni forti con una forte politica d’immigrazione, di decostruire la retorica del nazionalismo, la politica del luogo, la metafisica della patria e della lingua materna... L’idea è di disarmare le bombe...dell’identità che le nazioni costruiscono per difendersi contro lo straniero, contro gli ebrei e gli arabi e gli immigrati..."

    Come espone MacDonald: "Visto dal suo livello più astratto, il disegno fondamentale è quindi quello di influire i popoli d’origine europea degli Stati Uniti a vedere la loro preoccupazione verso la propria eclissi demografica e culturale come irrazionale e come un’indicazione di psicopatologia." Inutile dire che questo progetto ha avuto successo: chiunque si oppone
    al rimpiazzamento dei bianchi è di regola trattato da squilibrato "incitatore all’odio razziale," e ogniqualvolta i bianchi difendono i loro interessi di gruppo, vengono accusati di carenza psicologica. L’ironia dell’accusa non è sfuggita a MacDonald: "L’ideologia che l’etnocentrismo fosse una forma di psicopatologia fu promulgato da un gruppo che attraverso la sua lunga storia era stato, si potrebbe dire, il gruppo più etnocentrico fra tutte le culture del mondo."

    L’Immigrazione
    Il prof. MacDonald sostiene che sia completamente naturale che gli ebrei promuovino l’immigrazione di massa. Risulta nella "diversità" che loro si trovino rassicurati ed è quindi primario per loro mantenere l’America aperta agli ebrei perseguitati del mondo. Egli dice che gli ebrei sono l’unico gruppo che ha sempre lottato per l’immigrazione di massa; alcune organizzazioni etniche europee hanno fatto degli sforzi sporadici a facilitare l’entrata della propria gente, ma soltanto gli ebrei hanno coerentemente promosso le frontiere aperte a tutti gli arrivati. Inoltre, qualunque disaccordo fosse esistito su altre questioni, gli ebrei di qualsiasi parte politica hanno approvato sempre una quota d’immigrazione alta.

    Anche quest’impegno risale a molti anni fa, e MacDonald traccia in modo molto dettagliato lo sforzo ebraico prolungato a favore dell’immigrazione. Israel Zangwill, l’autore del pezzo teatrale The Melting Pot (Il Crogiolo delle Etnie, 1908), era del parere che "c’è una via sola alla pace mondiale, la quale è l’abolizione totale dei passaporti, dei visti, delle frontiere, e delle dogane..." Egli era nonostante un sionista ardito che disapprovava il matrimonio fra ebrei e membri di altre razze.

    Sebbene la Statua della Libertà, che a rigor dei termini si chiama la Libertà che Illumina il Mondo, fosse un dono agli Stati Uniti dalla Francia come omaggio alle tradizioni politiche americane, il sonetto scritto dall’ebrea Emma Lazarus faceva in modo di farla diventare un simbolo dell’immigrazione. Collocato alla base della statua alcune decenni dopo la sua costruzione, la poesia dà il benvenuto all’America alle "masse affollate bramose di vivere libere, i miserabili rifiuti della vostra brulicante costa."

    MacDonald ha scoperto che è molto tempo che gli ebrei fanno degli argomenti implausibili sulla diversità come un vigore americano quintessenziale. Riferisce che nel 1948, l’American Jewish Committee incitava il Congresso a credere che "l’americanismo è lo spirito che sostiene il benvenuto che l’America ha tradizionalmente teso alla gente di tutte le razze, di tutte le religioni, di tutte le nazionalità." Inutile dire che una tale tradizione non fosse mai esistita. Nel 1952, l’American Jewish Congress sosteneva nelle udienze sull’immigrazione che "la nostra esperienza nazionale ha confermato in modo indiscutibile che la nostra propria forza consiste nella diversità dei nostri popoli." Anche questo è stato detto in un periodo storico in cui la legislazione americana sull’immigrazione era ancora ideata per mantenere la maggioranza bianca.

    Si dice spesso che quando la vecchia politica dell’immigrazione fu scartata nel 1965, quasi nessuno né sapeva né prevedeva che la nuova legislazione avrebbe cambiato la consistenza razziale del paese. MacDonald mette in dubbio quest’affermazione, sostenendo che era proprio questo cambiamento ad essere stato dall’inizio lo scopo dei gruppi ebraici.

    MacDonald trova che gli ebrei sono stati i principali sostenitori dell’immigrazione in Inghilterra, Francia e Canada, e che i gruppi ebraici erano gli oppositori più vociferanti dell’indipendenza per il Quebec. Gli ebrei australiani guidavano l’impresa di smantellare la politica della "Australia bianca." Una ragione per questo sforzo era citata in un editoriale sull’ Australian Jewish Democrat: "Il rinforzo di un’Australia multiculturale ovvero varia è la nostra politica assicurativa più efficace contro l’antisemitismo. Il giorno in cui l’Australia avrà un governatore generale cinese, mi sentirò molto più sicuro della mia libertà di vivere come un’australiano ebraico."

    Come Earl Raab, che scriveva invece degli Stati Uniti, quest’ebreo australiano è pronto a sacrificare la cultura, il popolo, e l’identità tradizionali d’Australia agli interessi specificamente ebraici. Non sarebbe molto sorprendente se un obbiettivo espresso così apertamente non avesse l’effetto contrario a quello voluto, e se non aumentasse il sentimento anti-ebraico.

    Gli Ebrei e la sinistra
    È ben saputo che gli ebrei sono tradizionalmente collegati alla sinistra, e MacDonald esamina questo rapporto per filo e per segno. Storicamente è comprensibile che gli ebrei avrebbero sostenuto movimenti che promuovevano il capovolgimento dell’ordine esistente. Dopo l’emancipazione gli ebrei incontrarono resistenza da parte delle elite dei gentili che non volevano perdere terreno con dei “competitori” (e gli estranei facilmente diventano rivoluzionari). Comunque, dal punto di vista di MacDonald, l’impegno ebraico alle cause della sinistra è stato spesso motivato sia dalla speranza che il comunismo, in modo particolare, potrebbe essere uno strumento per combattere l’antisemitismo; sia dall’aspettativa che le soluzioni sociali universalistiche potrebbero essere ancora un’altro modo per sciogliere le lealtà dei gentili che potevano escludere gli ebrei. L’attrazione delle ideologie universalistiche è legata ad un’intesa implicita alla quale il particolarismo ebraico fosse esente: "In fine l’accettazione di un’ideologia universalistica da parte dei gentili, risulterebbe una situazione in cui i gentili non avrebbero visto più gli ebrei come appartenenti ad una categoria sociale diversa, mentre gli ebrei avrebbero potuto mantenere una forte identità personale ebraica nonostante l’ideologia."

    MacDonald sostiene che gli ebrei avevano delle ragioni specificamente ebraiche per sostenere la rivoluzione bolscevica. La Russia zarista era notoria per la sua politica antisemita, e durante i suoi primi anni, l’Unione Sovietica sembrava d’essere la terra promessa per gli ebrei: pose fine all’antisemitismo di stato, cercò di sradicare il cristianesimo, aprì le opportunità ad individui ebraici, e predicò una società "senza classe" nella quale l’ebraicità non avrebbe tirato su di sé, presumibilmente, nessuna attenzione negativa. Inoltre, dato che il marxismo insegnava che tutto il conflitto umano era economico invece di etnico, tanti ebrei pensavano che ciò augurasse la fine dell’antisemitismo.

    MacDonald sottolinea che sebbene i comunisti ebraici predicavano sia l’ateismo sia la solidarietà degli operai del mondo, si sforzavano a conservare un’identità ebraica distinta e laica. Egli riferisce che lo stesso Lenin (uno dei suoi nonni era ebreo) approvava la continuazione di un’identità esplicitamente ebraica sotto il comunismo, e nel 1946 il Partito Comunista degli Stati Uniti d’America votò una risoluzione a sostegno di tale identità nei paesi comunisti. Quindi, anche se il comunismo doveva essere senza frontiere o religioni, gli ebrei erano fiduciosi che avrebbe fatto posto per la loro propria identità di gruppo. MacDonald scrive che nonostante il punto di vista ufficiale che tutti gli uomini fossero fratelli, "pochissimi ebrei perdevano la loro identità ebraica durante l’intera epoca sovietica."

    I comunisti ebraici talvolta si tradivano e dimostravano un particolarismo straordinario. MacDonald cita Charles Rappoport, il leader comunista francese: "Il popolo ebraico [è] il latore di tutte le grandi idee nella storia... La scomparsa del popolo ebraico significherebbe la morte dell’umanità, la trasformazione finale dell’uomo in una bestia selvaggia." Questo pensiero sembra attribuire agli ebrei una posizione d’elite poco compatibile con "l’unità e la comunità umana."

    MacDonald sostiene che tanti ebrei cominciarono a staccarsi dal comunismo soltanto dopo Stalin, quando egli si è mostrato antisemita. E così come gli ebrei erano stati i rivoluzionari principali nella Russia pre-revoluzionaria antisemita, sono diventati i dissidenti principali nell’Unione Sovietica antisemita.

    Un disegno simile si trova nei governi comunisti imposti nell’Europa del est, i quali erano dominati largamente da ebrei. La maggior parte dei leader del partito comunista polacco, per esempio, parlavano meglio lo yiddish che non il polacco, e anche loro conservavono una forte identità ebraica. Dopo la caduta del comunismo, tanti di questi smisero d’essere polacchi e emigrarono in Israele.

    MacDonald scrive che nel governo comunista passeggero del 1919 d’Ungheria, 95 per cento dei leader erano ebrei, e che all’epoca della rivolta del 1956, il comunismo era talmente collegato a doppio filo agli ebrei che i tumulti sapevano quasi di pogrom. Egli sostiene che anche negli Stati Uniti, gli estremisti fra i comunisti e i membri della SDS [Studenti per una Società Democratica] erano in gran parte ebrei. Anche qui un weltanschauung rivoluzionario, ateo, e universalista era pienamente compatibile con una forte identificazione ebraica. MacDonald cita uno studio sulla sinistra americana:

    "Tanti comunisti, per esempio, dichiarano che non avrebbero mai potuto sposare una persona che non fosse di sinistra. Quando è stato domandato a degli ebrei se avrebbero potuto sposarsi con dei gentili, molti esitarono, sorpresi dalla domanda, e si trovavano in difficoltà a rispondere. Pensandoci bene, molti si resero conto che avevano sempre preso come scontato un matrimonio con una persona ebraica." Il loro impegno come ebrei era perfino più fondamentale del loro impegno alla sinistra.

    MacDonald riferisce che anche molti ebrei americani abbandonarono il comunismo per il suo crescente antisemitismo. Per tanti ebrei, la rottura dei legami diplomatici da parte dell’Unione Sovietica con Israele durante la guerra del 1967 era la goccia che fece traboccare il vaso. Un ex attivista della SDS espresse un parere senza dubbio comune quando spiegò: "Se devo scegliere fra la causa ebraica e una SDS anti-Israeliana ‘progressista,’ sceglierò la causa ebraica. Se le barricate verranno innalzate, combatterò da ebreo." Secondo MacDonald, anche il neoconservatorismo si può descrivere come uno spostamento di superficie nella politica esterna che lascia intatto però l’impegno più fondamentale per l’identità ebraica. Quindi le persone che erano una volta di sinistra abbandonarono l’ideologia che s’era messa contro Israele e rifecero il conservatorismo americano in modo che diventasse un movimento diverso, del quale l’unico tema indiscutibile era il sostegno per lo stato ebraico. Inoltre, i neoconservatori promuovano alti livelli d’immigrazione e si impegnano ad escludere l’identificazione razziale dei bianchi dalla destra ‘per bene’.

    Obbiezioni
    Ci sono molte possibili obbiezioni alla tesi del Prof. MacDoanld. La prima è che questa è in gran parte costruita sul presupposto che gli ebrei sono disonesti. È sempre rischioso presumere di capire i motivi altrui meglio di come li capiscono loro stessi. Tradizionalmente gli ebrei si sono visti come una presenza benefica, perfino come una "luce alle nazioni" ovvero un "popolo eletto." Questo modo di vedersi è echeggiato oggi nell’immagine che gli ebrei hanno di loro stessi come campioni degli emarginati e degli oppressi. La maggior parte delle volte, quella che passa per "la giustizia sociale" ha l’effetto di erodere le tradizioni e le lealtà della società dei gentili; ma gli ebrei erodono queste cose apposta o sono veramente sinceri nel loro tentativo di riparare le ingiustizie presunte? MacDonald concede che molti ebrei sono sinceri nel loro sostegno per le cause di sinistra, ma poi
    intensifica la sua denuncia sostenendo che "i migliori ingannatori sono quelli che s’ingannano". In altre parole molti ebrei che lavorano veramente per i propri interessi si sono prima autoconvinti, altrimenti un ebreo che principalmente vuole che l’America diventi meno bianca si sarebbe potuto autoconvincere che un’America composta di una moltitudine di culture diverse sia cosa benefica. Essendosi autoconvinto, può convincere gli altri in modo più efficace.

    Molti ebrei, sostiene MacDonald, non sono nemmeno consapevoli fino a quale punto la loro ebraicità sia centrale alla loro identità o ai loro punti di vista politici. Egli cita il rabbino Abraham Joshua Heschel che esprimeva la propria sorpresa al modo passionale in cui prendeva la parte israeliana durante la guerra del 1967: "Non mi ero reso conto di quanto fossi ebreo." È un’osservazione avvincente da parte da un uomo che era considerato forse il più grande leader spirituale della sua epoca. E anche se non influisce sulla loro presa di posizione politica, gli ebrei sicuramente sembrano d’avere un senso molto vivo d’essere ebrei. MacDonald cita il teologo Eugene Borowitz, che dice che "la gran parte degli ebrei sostengono di essere forniti d’un sensore interpersonale che gli permette di accorgersi della presenza di un altro ebreo, nonostante un camuffamento notevole." Pensare sempre in termini di "amici o nemici" non è cosa trascurabile.

    MacDonald è quindi scettico delle sconfessioni ebraiche: "Le dichiarazioni superficiali di una mancanza d’identità ebraica possono essere molto fuorvianti." Egli nota che le pubblicazioni ebraiche descrivono il potere e l’influenza degli ebrei americani con un linguaggio che, se fosse usato dagli scrittori gentili, sarebbe subito denunciato dagli ebrei come "antisemita." Egli è quindi d’accordo con Joseph Sobran, che ha detto che gli ebrei "vogliono essere ebrei tra loro ma si risentono d’essere visti come ebrei dai gentili. Vogliono promuovere i propri interessi mentre fanno finta di non avere tali interessi..."

    MacDonald sostiene che il successo dei movimenti intellettuali guidati da ebrei è stato possibile soltanto perché il carattere ebraico di questi movimenti fosse nascosto. Se il multiculturalismo o l’immigrazione di massa o la Personalità autoritaria fossero stati promossi dagli ebrei ortodossi che indossavano mantelli neri, l’elemento ebraico sarebbe stato palese. MacDonald scrive che infatti, "il disegno politico ebraico non era un aspetto della teoria, e le teorie stesse non avevano nessun contenuto ebraico evidente. Quindi, gli intellettuali gentili che affrontavano queste teorie improbabilmente le vedevano come aspetti di una concorrenza culturale fra ebrei e gentili, né come un aspetto d’un disegno politico specificamente ebraico." MacDonald sostiene anche che gli ebrei hanno spesso cercato di nascondere il carattere ebraico di un movimento intellettuale arruolando negli incarichi visibili dei portavoci gentili come specchietti per le allodole. Egli scrive che questa tattica era talmente comune nel partito comunista americano che i gentili spesso se ne resero conto e davano le dimissioni.

    Ma come si fa a conoscere fino in fondo i motivi delle persone? MacDonald propone un’esame difficile: "La miglior prova che certi individui hanno cessato veramente di avere un’identità ebraica è se scelgono un’opzione politica che loro vedono come chiaramente non negli interessi degli ebrei come gruppo. Nell’assenza d’un conflitto chiaramente percepito con gli interessi ebraici, rimane possibile che le scelte politiche diverse fra ebrei etnici sono soltanto differenze di tattica per come meglio realizzare gli interessi ebraici."

    Questo criterio può sembrare eccessivamente severo (finché non si applichi ai gentili bianchi). L’immigrazione di massa dal terzo mondo, le preferenze razziali per la gente di colore (nel lavoro e nello studio), le leggi anti-discriminazione, e l’integrazione forzata sono chiaramente non negli interessi dei bianchi, eppure molti bianchi li hanno sostenuti e sostengano, dimostrando in tal modo come hanno completamente abbandonato la propria identità razziale.

    In fine, MacDonald solleva la possibilità inquietante che alcuni ebrei, a causa di secoli di conflitto coi gentili, odiano attivamente la società dei gentili e che desiderano coscientemente distruggerla: "Una motivazione fondamentale degli intellettuali ebraici impegnati nella critica sociale è stata semplicemente l’odio della struttura di potere dominata dai gentili, la quale è vista come antisemita." Egli descrive il poeta tedesco-ebreo del 19esimo secolo Heinrich Heine come uno che "usava la sua destrezza, reputazione e popolarità per erodere la fiducia intellettuale nell’ordine stabilito".

    In difesa di questo modo molto provocatorio di vedere le cose, MacDonald cita Benjamin Disraeli sugli effetti sugli ebrei di secoli di rapporti fra ebrei e gentili: "È possibile che siano diventati talmente odiosi e ostili all’umanità cosicché meritano per il loro comportamento attuale, non importa come occasionato, l’ingiuria e il maltrattamento da parte delle comunità nelle quali vivono e con le quali gli è appena permesso di mescolarsi".

    A parte qualsiasi questione sui motivi, però, c’è la questione numerica. Gli ebrei sono una minoranza negli Stati Uniti e dentro quella minoranza esiste un disaccordo perfino sulle questioni che chiaramente riguardano gli ebrei. Com’è possibile allora che gli ebrei siano responsabili dei cambiamenti drammatici nello scenario intellettuale? Dal punto di vista di MacDonald, la spiegazione si trova nell’intelligenza, l’energia, l’impegno, e la coesione degli ebrei. Egli attribuisce gran parte all’IQ media degli ebrei (115, una piena deviazione al di sopra dello standard della media dei gentili bianchi) e alla "loro operosità ed impegno, al loro desiderio di farsi una posizione, di sfondare, di promuoversi, d’essere rinominati...". Egli crede anche che gli ebrei hanno lavorato insieme immancabilmente su qualsiasi questione che loro considerano necessaria per sopravivere: "L’attività intellettuale è come qualsiasi altro sforzo umano: Le strategie di gruppi coesivi prendono il sopravvento sulle strategie individualiste." Egli nota che non c’è mai stato un periodo storico in cui alti numeri di americani bianchi approvavano l’immigrazione non-bianca; è stata una minoranza coesiva e determinata che ha sconfitto la resistenza disorganizzata della maggioranza.

    MacDonald crede che a causa dell’efficacia di alcuni ebrei, non era nemmeno necessario che la maggior parte degli ebrei sostenesse attivamente i movimenti anti-maggioranza, benché l’attività ebraica fosse sempre decisiva. Egli precisa che "i movimenti intellettuali dominati dagli ebrei erano un fattore critico (cioè, una condizione necessaria) nel trionfo della sinistra intellettuale nelle società occidentali del tarde ventesimo secolo". Quest’affermazione, naturalmente, non potrà mai essere messa alla prova; ma non può esistere nessun dubbio sul fatto che gli ebrei americani hanno avuto un effetto sproporzionato sull’intelletto americano. MacDonald cita Walter Kerr, che nel 1988 scriveva che "ciò che è successo dalla fine della seconda guerra mondiale è che la sensibilità americana è diventata in parte ebraica, forse tanto ebraica quanto nessun altra…la mente americana colta è arrivata a pensare in qualche misura in modo ebraico (a giudaizzare)".

    A parte la questione se MacDonald ha ragione o no, rimane l’ulteriore questione di che differenza fa se ha ragione. Se giusta, la sua tesi certamente illumina la velocità con cui i bianchi hanno perso la propria volontà. Appena qualche decennio fa, i bianchi erano una razza piena di fiducia in sé, orgogliosi dei propri successi, convinti della propria capacità di dominare il mondo. Oggi sono un popolo in declino, apologetico, che si vergogna della propria storia e che è incerto anche del suo diritto sulle terre che ha occupato per dei secoli. Succede molto raramente che i concetti fondamentali vengono capovolti nel corso di solo una generazione o due, come è successo ai nostri concetti razziali. Una tale velocità suggerisce che c’è stato qualcosa di più che un cambiamento naturale.


    Per ulteriore informazione su questo libro, vedi il sito di Kevin MacDonald
    a: http://www.csulb.edu/~kmacd/index.html

    Per ordinare il libro (in inglese), vedi:
    http://www.amazon.com/exec/obidos/A...4713544-8770216


    Questa recensione fu pubblicata originariamente sull’American Renaissance, giugno 1999, numero 54, sotto il titolo 'Cherchez le Juif.' Kevin MacDonald, The Culture of Critique: An Evolutionary Analysis of Jewish Involvement in Twentieth-Century Intellectual and Political Movements, 1stBooks Library; (August 2002), 544 pages, $27.95.

  2. #2
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    About the Author Post #2 di 2

    Kevin MacDonald is Professor of Psychology at California State University-Long Beach, Long Beach, CA 90840-0901, USA. His research has focused on developing evolutionary perspectives in history and developmental psychology. After receiving a Masters degree in evolutionary biology, he received a Ph.D. in biobehavioral sciences at the University of Connecticut working on behavioral development in wolves, and he continued developmental research during a post-doctoral fellowship at the University of Illinois performing research on human parent-child play. His research has focused on developing evolutionary perspectives in developmental psychology. He has also authored four books, Social and Personality Development: An Evolutionary Synthesis (NY: Plenum, 1988) and A People that Shall Dwell Alone: Judaism as a Group Evolutionary Strategy (Westport, CT: Praeger, 1994), Separation and Its Discontents: Toward an Evolutionary Theory of Anti-Semitism (Westport, CT, 1998), and The Culture of Critique: An Evolutionary Analysis of Jewish Involvement in Twentieth-Century Intellectual and Political Movements (Westport, CT, 1998).

  3. #3
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  4. #4
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    Davvero un ottimo testo.

  5. #5
    SatanFascista
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    MacDonald è un grande , ha spiegato in maniera chiara e inconfutabile i come e i perchè del successo che la comunità ebraica ha ottenuto negli USA , una nazione composta sempre più da atomi sociali inconsapevoli dell'importanza della razza.
    Anche il neoconservatorismo americano è un'ideologia sfruttata/creata dagli ebrei , guarda caso infatti i neocons sono a favore dell'immigrazione e militaristi , come alibi sostengono di voler diffondere la democrazia nel mondo tramite la armi , e questo è un riflesso della volontà dei sinistri liberal americani di voler esportare il laicismo e i "diritti dell'uomo" in tutte la culture ... mentre i veri conservatori americani (ricordata le leggi restrittive e le quote penalizzanti verso i non-anglossassoni del 1924?) sono da sempre contro l'integrazione razziale , gli stranieri e l'interventismo globale.
    Insomma , o sinistra o destra va a finire , per purissimo caso eh , che Israele e gli ebrei USA ci guadagnano sempre...


    Lo si dovrebbe studiare a scuola CoFC (Culture of Critique)!

  6. #6
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    Purtroppo i libri di MacDonald non sono tradotti in italiano. Penso che il testo sopra sia l'unica recensione dei suoi libri seria tradotta in italiano. Prima o poi qualcuno dovrà pensarci

  7. #7
    SatanFascista
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    Ma guarda che strano , lo stesso messaggio che invita alla traduzione/pubblicazione di CoFC in italiano , che spunta a date sempre diverse , come a stimolare qualcuno o qualcosa...

    io ho diverse frammenti del libro stampati da siti Internet , la prossima settimana , con calma , ve li tradurrò , il resto lo deve fare una casa editrice però...

  8. #8
    Non sono d'esempio in nulla
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    Originally posted by Io Robert

    Ma guarda che strano , lo stesso messaggio che invita alla traduzione/pubblicazione di CoFC in italiano , che spunta a date sempre diverse , come a stimolare qualcuno o qualcosa...

    io ho diverse frammenti del libro stampati da siti Internet , la prossima settimana , con calma , ve li tradurrò , il resto lo deve fare una casa editrice però...

  9. #9
    Forumista assiduo
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    Originally posted by Io Robert
    Insomma , o sinistra o destra va a finire , per purissimo caso eh , che Israele e gli ebrei USA ci guadagnano sempre...
    Lo si dovrebbe studiare a scuola CoFC (Culture of Critique)!
    ...ci guadagnano tutti coloro che adorano e si ispirano a quella bizzarra serie di libri scritta dai discendenti di quel popolo semitico che visse sodomizzando le capre nel deserto per circa 40 anni.

  10. #10
    SatanFascista
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    Originally posted by Sùrsum corda!
    Ci sei cascato eh?
    Daniele non starmi col fiato sul collo , mi sembri SPQR!

    i pezzi sono lunghi da tradurre!

 

 
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