UN CELEBRE SAGGIO DEL PROFESSOR ALBERT MEMMI “BOCCIA” LA SENTENZA DEI GIUDICI VERONESI
Pubblichiamo, di seguito, un estratto dal famoso saggio “Le racisme”, ed. Gallimard, del professor Albert Memmi, filoso e scrittore d’origine tunisina, docente all’Università di Parigi X.
In questo libro ho già proposto un’analisi in tre punti: il razzismo consiste nel mettere in rilievo le differenze, nella valorizzazione di queste differenze, nell’utilizzazione di questa valorizzazione per un profitto dell’accusatore e a discapito dell’accusato. Lo sottolineavo già in precedenza: nessuna di queste circostanze, da sola, basta a costituire il razzismo. Molti malintesi, e inutili accuse, in un campo che ne è ricco, serebbero evitati se si tenesse a mente questo necessario collegamento.
Insistere su una differenza, biologica o altro, non è razzismo; anche se questa differenza è dubbia. Mettere in rilievo una differenza, anche quando non esiste, non è un crimine; è un errore o una sciocchezza. Mettere in luce una differenza, allorchè esiste, è ancor meno biasimevole. Anzi si ha il diritto di pensare che sia legittimo; dopotutto, la curiosità è l’anticamera del sapere. L’esame delle differenze fra gli uomini è l’oggetto stesso della scienza antropologica. Questa disciplina si divide in antropologia biologica e antropologia sociale: vi si ritrova bene la distinzione tra differenze biologiche e differenze culturali. La psicologia e la sociologia progrediscono tanto per lo studio delle somiglianze che delle differenze. Dovremmo sospettare di razzismo tutti i ricercatori in scienze umane? In breve, la constatazione di una differenza non è razzismo, è semplicemente una constatazione.
E anche la valorizzazione di una differenza a nostro vantaggio non è, ancora, la prova di una mentalità razzista. (...) Si ha il diritto di preferire gli occhi neri a quelli blu, i capelli lisci ai crespi, tale forma del naso a un’altra. Sarebbe una cattiva battaglia, e persa dall’inizio o generatrice d’ipocrisia, la pretesa d’imporre un canone estetico o erotico. Sarebbe un razzismo al rovescio. Noi abbiamo tutti, dentro di noi, dei modelli che ci vengono dalla nostra infanzia, riflessi dei primi esseri che si sono chinati sulla nostra culla, padre, madre e famigliari. Nessuno dubita che le nostre esperienze più precoci abbiano un’influenza decisiva sui nostri gusti, su ciò che ci attrae o sulle nostre repulsioni. Non c’è niente da reprimere in questo, nulla che debba essere colpevolizzato.
Non si diventa precisamente razzisti, infine, che attraverso il terzo punto: l’utilizzazione delle differenze contro gli altri allo scopo di ottenerne un profitto. Affermare, a torto o ragione, che un tal popolo colonizzato è tecnologicamente inferiore a un altro non è ancora razzismo. Questo può essere oggetto di discussione e deve essere dimostrato o smentito. Ma i colonizzatori non si sono accontentati di questa constatazione o di questo errore: ne hanno concluso che potevano, e dovevano, dominare il colonizzato; e l’hanno fatto.
Questi tre punti, lo ripeto, formano un tutto; e, soprattutto, l’argomentazione razzista, deve essere interpretata in funzione della sua conclusione, che orienta le premesse. (...)
La vera posta in gioco, ricordiamolo senza sosta, contro i razzisti ma anche per l’edificazione degli antirazzisti, non è esattamente la differenza ma il suo utilizzo come arma contro la vittima e a vantaggio del suo aggressore. Questa è la vera perversione del razzismo. Credo di poter concludere infine in tre punti: le differenze possono esistere o non esistere. Le differenze non sono ne buone ne cattive in se stesse. Non si è razzista, o antirazzista, segnalando, o negando, le differenze, ma utilizzandole contro qualcuno a proprio profitto.
[Data pubblicazione: 04/03/2005]