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Discussione: La legge e la pietà

  1. #1
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    Predefinito La legge e la pietà

    Il carattere di una circostanza tragica, perfettamente illustrato dalla storia di Terri Schiavo, è l’indecidibilità.
    Quando la ragione, assistita dall’amore, risulta impotente, allora alla legge, al diritto positivo, alla sentenza del giudice, alla volontà codificata della comunità subentra o dovrebbe subentrare la pietà.
    Che non è una legge né soltanto un sentimento, ma un dover essere della coscienza, una sottomissione adulta, consapevole e matura, perfino stoica, ai misteri della condizione umana.
    Forse la pietà è la versione laica della religiosità e del senso del divino, quella di Antigone si nutre di un’idea naturalistica e pagana della divinità ma anticipa motivi che saranno del cristianesimo e di altre religioni o concezioni o visioni del mondo, del cosmo.
    Il fondamento della pietà è il riconoscimento che esistono casi i quali non ammettono soluzione per via semplicemente volontaria o per via razionale: il dover essere allora coincide con il non potere, la cosa da farsi è identica al divieto di farla. Non restano che l’attesa, la cautela psicologica e morale, la rassegnazione, la delicatezza del tatto, e suona falsa ogni soluzione basata su quanto certificano dati materiali di tipo obiettivo o scientifico non risolti per intero nell’intuizione amorosa.
    Chiunque abbia avuto una persona cara in coma sa che per i vivi custodi del suo dolore la differenza di percezione del suo stato, tra il tempo del coma e, se e quando arrivi, il tempo della morte, è immensa: il coma è un sonno ansimante e tragico, la morte è raffreddamento, lontananza, uscita dal tempo della vita, è un’altra cosa quali che siano i dati registrati dalle macchine.
    Nei casi in cui ci sia un testamento biologico, si può discutere.
    Nei casi che la pratica della pietà familiare sottrae al dominio della coscienza pubblica e della legge, si può vedere e chiudere vedendo entrambi gli occhi.
    Ma quando la questione sia formalizzata, come nel caso di Terri, perfino in un aspro dissenso familiare, in una opposizione delle volontà e delle emozioni pubbliche e private, non c’è altra scelta che attendere, cautelarsi, diminuirsi al di sotto della soglia del giudizio obiettivo e simbolico, e rispettare l’esigenza di vita da chiunque sia posta, figuriamoci se invocata dai genitori della persona che soffre o non soffre, ma ci fa soffrire, nel suo limbo comatoso.
    Gli americani hanno messo in scena una tragedia classica, con la legge, il Congresso, la comunità, la Casa Bianca, tutti convocati al capezzale di una donna che dorme tra vita e morte da quindici anni.
    Pietà vuole che di questa tragedia nessuno possa né debba scrivere un finale legale, scientifico e burocratico.

    Il Foglio del 19 marzo

    saluti

  2. #2
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    Predefinito Invettive

    Pubblichiamo ampi stralci dell’articolo di Francesco M. Valiante sull’Osservatore Romano di oggi dedicato al caso di Terri Schiavo, la quarantunenne americana malata da quindici anni e alla quale un tribunale della Florida ha staccato il tubo che la nutriva e la dissetava.

    Terri non è in coma. Vive in uno stato che la scienza, con termine peraltro infelice, definisce vegetativo. Alterna, cioè, fasi di veglia a fasi di sonno (il coma, invece, è uno stato privo di veglia). Non dà alcun segno evidente di coscienza di sé o di consapevolezza dell’ambiente. Appare incapace di interagire con gli altri o di reagire a stimoli adeguati. Ma non è certo un “vegetale”. Tanto che sull’innaturale rigidezza del suo volto – entrato in questi giorni con forza dirompente nelle nostre case e nelle nostre coscienze attraverso la televisione – pare perfino di intravvedere l’ombra di un sorriso al contatto con le mani carezzevoli e premurose dei genitori.
    Terri non è sottoposta ad alcuna particolare terapia medica. Non è tenuta in vita da macchinari che si sostituiscono ai suoi organi vitali.
    Viene soltanto nutrita artificialmente attraverso quel tubo che ora è stato staccato. Da ormai quasi quattro giorni, dunque, Terri non riceve né cibo né acqua.
    Secondo l’impietoso “calendario” di morte stilato dai medici, cominciano adesso ad apparire i primi segni di disidratazione. Il battito del cuore si accelera, la pressione diminuisce. Poi lo stato di veglia si attenuerà, il respiro diventerà irregolare.
    Al decimo giorno la donna sprofonderà in un vero e proprio coma, finché gli organi non collasseranno per carenza di nutrizione.
    Il caso di Terri Schiavo sta scuotendo l’America, anche se nel dibattito in corso finiscono spesso per prevalere le polemiche politiche più basse o il sottile gioco degli artifizi giuridici. (...)
    In questo accavallarsi di accuse, di ricorsi, di colpi di scena, si rischia di perdere di vista il vero “cuore” della questione.
    In un ospedale di Miami c’è una donna che sta per morire di fame e di sete.
    C’è una donna alla quale da quasi quattro giorni vengono negati non medicinali, terapie specifiche, cure palliative, ma quello che per ragioni elementari di umanità non si rifiuterebbe neppure all’essere più abietto e reietto.
    C’è il lento morire di una persona – e non di un “vegetale” – a cui il mondo assiste impotente attraverso la televisione o i giornali. E il suo autentico dramma, anziché suscitare un’onda di pietà o di solidarietà generalizzata, è soffocato dall’indecente rincorsa ad arrogarsi il diritto di decidere sulla vita e sulla morte di una creatura umana.

    Chi può pretendere quel diritto?
    Ma chi può, davanti a Dio e davanti agli uomini, pretendere impunemente di possedere tale diritto? Chi – e in base a quali criteri – può stabilire a quali persone concedere il “privilegio” di vivere? A quale agghiacciante mentalità eugenetica appartiene il principio secondo cui la vita di qualcuno – per quanto menomata o provata – dipende da un giudizio di qualità espresso da altre persone? Chi può giudicare la dignità e la sacralità dell’esistenza di un uomo fatto a “immagine e somiglianza di Dio”? Chi può decidere di “staccare la spina”, come se stessimo parlando di un elettrodomestico rotto o ormai in disuso? Forse i giudici? O i medici, la cui deontologia professionale mai come in questo caso dovrebbe ritirar fuori dalla soffitta dei ricordi il buon noto principio: “to cure if possible, always to care”, “guarire se possibile, aver cura sempre”? Magari i genitori che a Terri hanno donato la vita 41 anni fa? O il marito, che un giorno le aveva promesso di “amarti ed onorarti sempre, nella salute e nella malattia” e che oggi è divenuto il suo più freddo e impietoso “carnefice”?
    La lenta, straziante agonia di Terri è oggi l’agonia del senso di Dio, Signore e Artefice della vita.
    E’ l’agonia dell’amore che sa chinarsi su chi è più fragile e bisognoso. E’ l’agonia dell’umanità.

    Anche chi non abbia il senso di Dio come signore e artefice della vita riconoscerà in queste righe di inusuale temperamento, stampate ieri dal quotidiano del Vaticano, l’Osservatore Romano, il segno di una forte emozione etica e intellettuale, e un giudizio tagliente, che provoca la mente e attizza il fuoco del carattere in chiunque ragioni del caso di Terri Schiavo senza pregiudizi e bardature ideologiche.
    Nessuno finora è stato trattato così, come lei.
    Affamata e assetata su conforme richiesta di un familiare, contro il parere di altri familiari, e debilitata nel fisico e nel diritto soggettivo a vivere per una sentenza giudiziaria che non ha nemmeno la formale e disgustosa responsabilità di una sentenza di morte occhio per occhio. Secondo un sondaggio della Abc, la grande maggioranza degli americani non vede lo scandalo, diffida dell’intervento del Congresso e della Casa Bianca nel caso di Terri Schiavo.
    Fosse vero il sondaggio, ecco un altro caso in cui occorre ribellarsi, ma qui si parla di cose serie, alla dittatura della maggioranza.

    L’elefantino su il Foglio del 22 marzo

    saluti

 

 

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