Digiuno: quella morte che apre alla vita

Il teologo Brantschen:«La sua logica non è mai quella
dei "record". Una strada per ritrovare se stessi»«C'è anche una gioia da coltivare nel digiuno. Non a caso la liturgia parla di questa dimensione come di un amoroso impegno»


Di Niklaus Brantschen

Non di rado ci imbattiamo nell'opinione errata secondo la quale il digiuno produrrebbe effetti tanto più grandi e belli quanto più esso viene effettuato in maniera radicale e intelligente. Certo, una generosa disponibilità è opportuna, l'adozione di un metodo è utile e un senso di leggerezza acquisito attraverso un esercizio prolungato è auspicabile. Ma il digiuno non deve mai degenerare in un pezzo di bravura. Altrimenti esso non è più una medicina, ma piuttosto un veleno. Come prestazione record - quanto più, tanto meglio! - esso coccola, infatti, l'Ego, invece di sgonfiarlo, relativizzarlo e rimetterlo al posto giusto.
Il digiuno è quindi esposto al pericolo della superbia. Non penso al giusto orgoglio e alla gioia che subentrano, quando abbiamo superato la paura di varcare la soglia e abbiamo deciso di affrontare il rischio del digiuno. Penso piuttosto al modo di guardare dall'alto in basso verso coloro che non l'hanno ancora compreso e che si muovono ancora nei bassifondi dei bisogni terreni. La Bibbia mette in guardia dal fare sfoggio del digiuno - o della preghiera e dell'elemosina - per essere lodati dagli altri (Mt 6). La causa più profonda della superbia è insita nello stesso decorso del digiuno: dopo uno stato d'animo piuttosto depresso e deprimente dei primi giorni può subentrare un sentimento di euforia. I digiunanti si sentono allora leggeri e pieni di slancio e corrono addirittura il pericolo di sopravvalutarsi e di diventare superbi. Solo dopo che è stato superato il pericolo della superbia possono maturare i frutti spirituali del digiuno, vale a dire la conoscenza e il ritrovamento di sé e l'esperienza di Dio.

Digiunare e sperare
Non c'è bisogno di essere pessimisti per dire che la mancanza di speranza è molto diffusa. Molti, possedendo tutto, non si attendono più nulla o perlomeno nulla di buono dal futuro. Il nostro mondo occidentale sembra stanco e vecchio. Si va diffondendo la rassegnazi one.
In questa situazione al digiuno spetta un ruolo importante. Il digiuno, unito alla preghiera e alla meditazione, ha infatti molto a che fare con la speranza. Un ex prigioniero di guerra, cui era stato concesso di fare della fame imposta un atto volontario e di farne quindi un autentico digiuno, ha fatto questa esperienza: «Penso che occorra infine mettere in risalto anche un nesso profondo e fondamentale esistente tra il digiuno e la speranza... Digiunare significa opporsi alla "sapienza del mondo" e preferire in certo qual modo l'essere al fare, la contemplazione alla produzione, il soprannaturale "avrai" al naturale "qui hai"».
L'uomo vive in questa tensione tra il «qui hai» e l'«avrai», tra il «già» e il «non ancora» ed è tentato di allentarla optando in favore dell'aldiqua: «Mangia e bevi, perché domani morrai». Oppure l'allenta in favore dell'aldilà cercando di fuggire il mondo e di non soddisfare le sue esigenze e le esigenze degli uomini. Ma può anche sostenere tale tensione, anzi farla diventare feconda e creativa. Grazie alla speranza fortificata dal digiuno può realmente cercare di trasporre in maniera incoativa dal «non ancora» nel «già adesso» la «nuova creazione» sospirata da tutte le creature e il suo ordinamento di libertà e di pace. Regno di Dio è stato chiamato questo «altro» mondo. Esso non è un mondo da cercare sopra, accanto o dietro a questo mondo e un mondo nel quale entreremo in qualche momento nel futuro, ma è piuttosto un mondo a cui partecipiamo qui e ora. Il regno di Dio non si realizza, infatti, alla fine del mondo, quindi dopo l'estensione orizzontale arbitrariamente lunga di questo tempo e di questa storia. Esso è già qui, è in noi, e il digiuno apre gli occhi per vederlo.

Digiunare e celebrare
Digiuno: fa pensare a giorni di rigore e a facce serie. Festa: vediamo davanti a noi volti sorridenti e bicchieri tintinnanti. Il contrasto tra il digiuno e la festa sembra perfetto. Ma l'apparenza inganna. «Le cose sono più complicate e più semplici. Il sacrificio spirituale mira a lasciarsi alle spalle il contrasto tra la sofferenza e la gioia in una specie di "alchimia del dolore", nella quale la sofferenza somiglia al volto interiore di una gioia suprema».
Il digiuno ha molto a che fare con il «morire». Mangiare significa vivere; non mangiare significa a lungo andare morire. E come il morire prepara una nuova nascita, una risurrezione, così fa anche il digiuno. La Chiesa segue perciò una logica più profonda quando parla della «festa del digiuno». Il digiuno trova una sua corrispondenza nella festa, in particolare nella festa della Pasqua, e precisamente non solo a motivo di una successione temporale e neppure solo nel senso che, dopo essersi privati del cibo, si gusta meglio il pasto festivo. Si tratta di un rapporto molto più profondo; si tratta del morire e della gioia della rinascita. Basilio Magno, il vescovo edotto alla scuola del deserto (ca. 330-379), esorta infatti a vivere anche i giorni di digiuno non con mestizia, ma con gioia: «Non essere triste quando vieni guarito! Che stoltezza non rallegrarsi per la salute dell'anima».
Questa gioia non è ovvia. Alla sua base c'è piuttosto una motivazione più profonda. Un ruolo decisivo spetta alla preghiera che mette le ali al digiuno e solleva il cuore. Non di rado la liturgia della Quaresima ci fa espressamente pregare per questa gioia: «Concedi, o Signore, ai tuoi fedeli di celebrare con amoroso impegno... questo tempo del sacro digiuno e di trascorrerlo con sereno fervore».

Avvenire - 23 Marzo 2005