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    Predefinito Dal "Capitale" di Marx alla "Repubblica" di Platone

    Linea ANNO VIII, NUMERO 76, Pagina 2, DOMENICA 20 MARZO 2005

    Dal "Capitale" di Marx alla "Repubblica" di Platone

    A volte ritornano. Marx, uno dei morti più defunti degli ultimi due secoli, è riemerso dalle limacciose acque liberali in cui era rimasto impigliato, e con ancora in tasca la sua ricetta contro tutti i mali.Qualcuno lo ha portato all'asciutto e, incredibile, ma vero, lo ha subito trovato diverso, cambiato, non è più lui: antimaterialista, stavolta. Idealista. Platonico. Possibile? Il filosofo Costanzo Preve, nel suo ultimo libro Filosofia del presente. Un mondo alla rovescia da interpretare (Edizioni Settimo Sigillo), azzarda l'idea trasgressivissima che il materialismo marxiano in realtà non esiste. Non è mai esistito. Esiste solo nella scolastica marxista. Marx era un idealista e un hegeliano rispettoso delle trascendenze dello Spirito Assoluto, tanto che, in realtà, dice Preve, è più vicino all'antica filosofia greca che ai suoi indegni scoliasti marxisti. L'idea, in effetti, è davvero trasgressivissima, è un rovesciamento del "mondo alla rovescia" di cui parla Preve, ma soltanto per i marxisti. Per la verità, lo sapevamo da un pezzo che Marx nulla aveva di scientifico, nulla di materialistico, tutta essendo fondata la sua serie di analisi e di profezie su un sistema di apriori mitico. Che dico, fantastico, inarrivabilmente utopistico. Le sue profezie sbagliate si basavano tutte sulla sbagliata idea a-priori che il mondo, una volta, illo tempore, all'alba del primo mattino, era buono, gli uomini agnelli, i beni alla portata di chiunque volesse goderne. E il miele scorreva a fiumi. Insomma ancora una leggenda, di nuovo una fiaba, e ci tocca berla ancora una volta, come il massimo dell'antagonismo di ultima generazione al potere mondiale liberale! Il giardino dell'Eden, per chi ci crede, mena sovente agli inferni della storia, e si sa come è andato a finire il paradiso marxiano. E non vale dare la colpa ai marxisti. Scusate, ma è troppo facile. Qui è tutto un fare a scaricabarile. Il papa chiede perdono per duemila anni di soperchierie e gli va liscia. I marxisti buoni danno la colpa ai marxisti cattivi, e va di nuovo tutto liscio. I liberali USA da cent'anni fanno danni collaterali a colpi di eccidio, ma chiedono scusa in nome della democrazia, e va di lusso. I fascisti pentiti danno la colpa a quelli oltranzisti, e qui va già meno bene: loro devono abiurare, maledire, strisciare. E, in effetti, abiurano, maledicono e strisciano. A quando un nazista buono che ci parli bene del Nuovo Ordine Europeo, scusandosi per la cattiva applicazione fàttane dai cattivi interpreti? Poi chiederà scusa qualcun altro? Ci permettiamo di dire che il marxismo, dal punto di vista storico _ o, se si preferisce, storicistico - è esistito soltanto ed esattamente perché sono esistiti i marxisti. E questi hanno fatto quello che hanno fatto. Non esiste alcun Platone senza polis, alcun Locke senza liberalismo inglese, alcun marxismo senza Lenin, alcun Vangelo senza papi, se non negli innocui libri di filosofia e di devozione. Questa è una considerazione di realismo hegeliano, a chi piace. I fatti valgono solo per i fascisti o anche per gli altri?
    L'idea che Marx non è un materialista ma un mirabolante affabulatore di Utopia è vecchia quanto Marx. Solo i marxisti, prima del 1989, non ci volevano credere, e scoprirlo oggi li stupisce. Avevano prese per buone le sue battute, e lo credevano il guru di un futuro matematicamente immancabile. C'è da capirli, lo shock è stato violento. Ma si sono consolati alla svelta. Da subito andarono a frugare dalle parti di Platone. Platone al posto di Marx. Viva il compagno Platone! Poi capirono che non era il caso di insistere, e diventarono liberali in massa! Alla fine si sono piegati alle evidenze e, mentre molti di loro si acciambellano ai piedi del capitalismo vincente, che incensano con lo stesso turibolo con cui incensavano Lenin, altri tornano alla nostalgia di un sogno inespresso, male interpretato: insomma, non l'hanno capito come meritava, quel vecchio, diamogli ancora una possibilità! Dice: Marx, poi, non era neppure un progressista: l'elogio della borghesia rivoluzionaria nei confronti del feudalesimo reazionario, evidentemente, ce lo siamo sognato noi. Marx, in realtà, non voleva spingere la storia in avanti a calci, voleva tornare indietro. Ai Greci. Poiché, ci dice Preve, in realtà i Greci non erano affatto schiavisti. No, erano piccoli proprietari moderati, piccola borghesia egualitaria, par di capire che erano una specie di middle-class del new England, white collars per bene, aperti, certo democratico-comunitaristi. Peccato che la schiavitù sia documentata da Omero in giù, peccato che il sogno marx-rousseauviano sulla comunità originaria somigli molto a quello paradisiaco di tutti i naufraghi e i renitenti della storia, i fuggiaschi dalla realtà, quelli che si rifugiano tra le calde braccia del sogno a occhi aperti. Ma questi sono dettagli, inutili dettagli. Preve, studioso profondo e di indubbio talento _ non a caso è emarginato dalla "sinistra", ma non dalla "destra" (radicale, beninteso), molto più onesta e aperta degli asfittici e dittatoriali progressisti, ieri marxisti e oggi liberali _, dice di voler superare gli opposti della vecchia suddivisione "destrasinistra", ma non parla altro che di "destra" e di "sinistra". A parte il governo e l'opposizione, è rimasto solo lui a parlarne. Difficile voler superare questa logora antitesi, rimanendo attaccati alla barba di Marx. E si arriva al paradosso di considerare De Benoist quasi di "sinistra" perché parla di differenzialismo e di anti-universalismo, condannando i bombardamenti umanitari, l'omologazione, il mercantilismo etc.: ma che altro dovrebbe dire? E in cosa consiste la meraviglia? Ma quando la "sinistra" ha avuto nel suo carniere questi ideali, nel corso della sua storia secolare? La "sinistra" è universalismo omologante, è progressismo economicista, è violento spegnimento di ogni differenzialismo, è egualitarismo livellatore.
    La "sinistra" coincide con il liberalismo, di cui è frammento. Tutto il resto è antisinistra, anti-progressismo, aria libera. Occorre rovesciare Preve che rovescia i marxisti, e ricordare che la "destra" comunitaria non è quella cosa che si chiama "destra" e che è al potere. Quella è l'opposto, cioè la destra economica, sorella gemella della "sinistra". Come dimostrano i fatti di ogni giorno, essa è molto più vicina alla "sinistra" che non alla concezione nazionale-popolare della comunità organica. Questi sono elementi base che fanno parte del primo giorno di scuola. I Greci. Possiamo parlarne, ma lasciamo perdere la "sinistra" e l'egualitarismo.
    Che c'entra l'egualitarismo con un sistema di idee che è l'opposto? Dice: ma l'eterno ritorno dei Greci non era eterno ritorno dell'eguale, era "visione dinamica della vita e aporetica della storia": appunto, ma il dinamicismo della vita e la frattura storica non sono progressismo, ma il suo contrario. La visione aporetica è per l'appunto l'eterno ritorno, una parola spengleriana di frattura che non fa ritornare l'eguale _ nessuno ha mai pensato che ritorni l'eguale, il ritorno ciclico è un'ellissi, caso mai _ ma l'eternamente ritornante: la vita. E la vita non è progresso, se non per una mentalità mercantilista, acquisitiva, progressista e progressiva, emancipatoria dalla vita stessa. I problemi di un Greco del V secolo sono esattamente eguali ai nostri. Solo che lui, non appesantito dai demiurghi progressisti che intendono insegnare al mondo quello che deve e quello che non deve fare, li aveva risolti. E li aveva risolti nel senso della isonomia, l'eguaglianza di stirpe distribuita sulla diversità di rango: due cose diverse, ma complementari, che sono la caratteristica della democrazia greca, che era l'opposto della "democrazia" anglosassone parlamentarista oligarchica: la democrazia greca era fondata sulla gerarchia, sul governo dei migliori, sul senso dell'esclusivismo comunitario e, in più, su quella sciocchezzuola che era lo schiavismo. No, davvero, in tutto questo Marx non c'entra! Lo scherzo è divertente, ma rimane uno scherzo. L'ultima fase del nichilismo è la riduzione di tutti gli ambiti della vita a merce e di tutte le idee a poltiglia intercambiabile: così che alla fine nessuno ci capisce più nulla e nessuna idea rimane più in piedi. Una visione dinamica della natura, giusto alla maniera pagana, prevede che appunto alla natura si lasci fare il suo corso. E la natura non assembla il dissimile, lo discrimina, aggregando invece il simile con il simile. Semplicissimo. Questi erano i Greci, e non altro. E quanto alle aporie della storia, poi: l'eterno ritorno, cioè il tradizionalismo, che è il contrario del progressismo rettilineo, prevede per l'appunto che la forza delle idee, prima o poi, riemerga contro la violenza dell'omologazione e della mercificazione: di rivoluzioni vere, cioè di quelle che riconducono indietro, è piena la storia passata, e certo lo sarà anche quella futura. Una prima rivoluzione, cioè un primo ritorno all'indietro, lo fanno appunto i marxisti che sono passati dal Capitale alla Repubblica di Platone: il resto verrà da sé. Preve si chiede chi mai sarà in grado di scardinare il potere mondiale dei mercanti egualitari: è indeciso fra quale classe, quali "gruppi sociali" sapranno _ marxisticamente _ impugnare la falce e levare il martello della riscossa. Sommessamente, ci permettiamo di suggerire che non saranno certamente queste finzioni sociali a rovesciare le oligarchie USA, ma i popoli. I popoli _ categoria naturale, pagana, ellenica, tradizionale, eterna, ed eternamente ignota ai marxisti - daranno la risposta che tarda: e la daranno a Preve come a Bush.

    Luca Leonello Rimbotti

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    L'europa deve saper riprendere il suo indiscutibile primato culturale

    T utto è venuto dall'Europa e tutto è partito da lei. O quasi tutto": lo scrisse il poeta Paul Valèry, interpretando una convinzione - né arrogante né presuntuosa, ma onesta e realistica e, comunque, espressione di sana fierezza - largamente diffusa un po' ovunque nel mondo e soprattutto negli stessi popoli europei, da sempre convinti, davanti alla realtà storica delle cose, di appartenere ad una élite, a un'avanguardia dell'umanità in tutti i campi. Tutto questo era consapevolezza diffusa e patrimonio degli uomini del nostro continente, ma prima che la sconfitta europea nella seconda guerra mondiale ingenerasse una sorta di senso di colpa collettivo e una crescente smania depressiva di svalutazione del sé. Il crollo dell'autostima data da quando l'Europa si è fatta battere dall'America nel campo della politica mondiale, ma si tratta di un sentimento singolare e poco comprensibile, se si pensa che gli USA hanno ereditato la potenza economica e militare, ma non certo la potenza culturale e spirituale dell'Europa. Che da allora, come per qualche sincope psicologica da imitazione, è venuta clamorosamente a mancare anche nel Vecchio Mondo, ristretto nel ruolo marginalizzato e servile di colonia politica culturalmente e ideologicamente desertificata.
    Dalle ceneri storiche dall'Europa abbandonata dai suoi figli è nato dopo un parto lungo e doloroso una specie di aborto mostruoso, che più che l'Europa pare la caricatura dell'Europa, il suo contrario, la sua negazione. Quanto la nostra civiltà è stata in termini di progetti ideali e spirituali, di profondità di cultura letteraria e artistica, di genialità scientifica e di padronanza di tutte le tecniche, di tanto appare irriconoscibile oggi quel fenomeno anti-politico che è stato chiamato Unione Europea. Una protesi burocratica gettata su tutti noi come si getta una colata di cemento, senza la minima attenzione per la volontà popolare, per la nostra storia e le nostre aspettative per il futuro. Senza il dovuto riguardo per il delicato, frastagliatissimo tessuto di culture e realtà locali che datano da un paio di millenni e che di tutto abbisognavano, fuori che di una cappa omologatrice che cancella le diversificazioni per premiare il serialismo mentale dei tecnocrati, esatta trasposizione del produttivismo standardizzato che opera alle loro spalle.
    Si è voluto aprire nel cuore dell'Europa un nido di intrighi, all'interno del quale formicolano e si accavallano gli interessi privati di una ristretta cerchia di delegati del potere finanziario cosmopolita. Si è voluta innalzare nel cuore dell'Europa una sovrastruttura estranea alla vita e alle esigenze dei popoli, un mercato di burocrati ad altissima remunerazione che sfornano senza posa misure di mortificazione del lavoro europeo, attraverso leggi che sembrano studiate apposta per rovinare le nostre economie, per logorare il tessuto sociale e produttivo, per fiaccare ancora e sempre di più il talento, l'organizzazione, la volontà, la compattezza dei nostri popoli.
    Se da qualche parte esistesse un nazionalismo europeo, l'avremmo già visto accorrere in forze a Bruxelles per radere al suolo quei tuguri di imbroglio e per farne uscire a frotte tutta quella massa di parassiti che li popolano senza avere uno straccio di legittimità popolare.
    La tecnocrazia delegittimata che, senza alcun titolo, straparla a nome dell'Europa non rappresenta un indice politico della volontà europea. Non bisogna dimenticare che i popoli che stanno subendo questa imposizione sono stati a lungo "lavorati" da cinquant'anni di potere capitalistico-atlantista da un lato e sovietico-marxista dall'altro: e in entrambe le situazioni si è portato nel cuore delle nostre popolazioni un capillare attacco alle forme più elementari dell'identità. E questo, lungo estenuanti decenni di "lavaggio del carattere" che, a Est come a Ovest, non ha soltanto de-fascistizzato l'Europa, come era negli intendimenti propagandistici del primo dopoguerra, ma l'ha de-europeizzata a fondo, così da ottenere, al compimento dell'opera, un corpo incapace di produrre reazioni che non vadano nel senso voluto dal martellamento mass-mediatico. Non è spiegabile altrimenti l'inerzia paralizzata con cui le nostre nazioni stanno subendo pressoché regolarmente il loro incapsulamento nel sistema.

    Luca Leonello Rimbotti

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    Il diritto dei popoli di sottrarsi ai "diritti dell'uomo"

    Luca Leonello Rimbotti

    L'uomo astratto e universale è un detrito del peggior kantismo illusionistico. Universalismo intellettuale, forzato umanismo, moralismo generico. Queste le depotenziate categorie di pensiero che hanno partorito il più meschino dei cyborg: un essere inesistente, falso, impoverito di tutte le naturali doti umane: l'uomo universale. Quest'uomo irreale, mai esistito da nessuna parte, uscito fuori dalle divagazioni concettuali di qualche aristocratico dei secoli XVII e XVIII, quest'uomo non di carne e sangue, non vivente di appartenenza, destino, storia e cultura, ma frutto di immaginazione, di odio per la natura, di passione insana per la costruzione artificiale, quest'uomo è un semplice concetto come tanti. Eppure, è in nome di questo androide immaginario che da un paio di secoli l'umanità è costantemente investita dalle paranoie e dalle intolleranze giacobine, che non la smettono di voler sovrapporre il loro mondo di concetti astratti al mondo reale, imponendo la loro inesistente "umanità" ai popoli quali sono e quali sono sempre stati. L'ideologia dei "diritti dell'uomo", in questo modo, da trovata estemporanea, da costruzione artefatta del concettualismo illuministico, è divenuta la protagonista assoluta di tutte le politiche democratiche: la chiave di volta propagandistica del partito unico universalista. E' il ponte su cui corre veloce la globalizzazione, che di spersonalizzazione, di genericità e di annullamento identitario si nutre. Gli Stati Uniti d'America, sulla scorta del loro morboso messianismo universale di conio biblico-puritano, sono i tragici esecutori materiali di alcuni diktat ideocratici che, se non fossero quotidiani portatori di morte, sarebbero esilaranti. Tra di essi, apici dell'assurdo come il proclamato "diritto alla felicità", ci danno testimonianza di quanto lontano si sia spinta l'adolescenziale immaturità degli utopisti: se non fosse che questi argomenti, da risibili che sono, diventano drammatici se posti in mano a quella sorta di bambino criminale che sono gli USA, da sempre abituati a maneggiare giocattoli di morte: dal fucile Winchester adoperato contro gli inermi Pellerossa alla bomba atomica. Il cieco fanatismo dei rieducatori del genere umano è un disegno di sterminio per tutti coloro che non credono allo storico inganno di una democrazia, i cui liberali diritti si espandono nel mondo con l'eloquente parola evangelizzatrice dei missili. Si nasconde in tutto questo la regressiva utopia di un nuovo e distorto diritto naturale basato sulla concezione privata e individualistica della società, volto a demolire i secoli e i millenni di diritto positivo che, da Aristotele a Machiavelli, da Hobbes a Hegel a Schmitt, avevano inteso di portare disciplina etica nella convivenza umana, adoperandosi per una conciliazione civile tra legge di natura e ordine tecnico-razionale della società: non contratto individualistico, dunque, ma ordine organico totale, sintesi etica di un superiore senso della giustizia comune. Non quindi l'assolutismo dell'individuo astratto, ma la totalità delle persone reali, non disgiungibili dal loro patrimonio giuridico comunitario ereditario. E' per tenere in piedi quel fantoccio virtuale che è "l'umanità", partorito dalla fantasia di alcuni allucinati utopisti, che da duecento anni si umiliano i popoli, iniettando nelle loro vene il veleno del dubbio su ogni antica e sudata certezza. Spingendoli verso il tradimento di sé, questi utopisti cosmopoliti ottengono dai popoli esattamente ciò che desiderano: l'abbandono progressivo dell'identità, la sovversione delle necessità vitalistiche, organiche e naturali, soppiantate da un prontuario di sciocchezze elevate al rango di indiscutibili totem. Nella realtà del mondo, non esiste alcuna "umanità". Esistono uomini, ben riconoscibili tra loro in quanto nobilitati dalle differenze, in base alle quali essi appartengono alla comunità, che fa di loro qualcosa di prezioso, di unico e di irripetibile. L'uomo vero è fatto di bios e di techne, di natura e di cultura: cioè di gene ereditario e di apprendimento comunitario. Quest'uomo esiste, è sempre esistito: è l'uomo eterno, che veicola un sapere intessuto dalla vicinanza, dalla quotidianità, dalla reciprocità che intrecciano nei secoli immaginazione, fantasia, mitopoiesi, psiche e corporeità, creando lo stupefacente patrimonio delle culture, della diversità inesauribile che è lo stigma delle grandi creazioni del genio individuale, come di quello comunitario. Un Michelangelo privato della sua struttura di appartenenza bio-storica, privato della sua natura di erede, non avrebbe potuto esprimersi ai suoi livelli: sia le tecniche apprese in un determinato contesto, quello in cui è nato ed è vissuto, sia l'immaginativa, sia il talento individuale sia quello di stirpe, nel suo caso sono apparsi concentrati in un unico uomo: ed ecco il genio. Un Lao-tsu non sarebbe pensabile al di fuori del contesto taoista, è inimmaginabile come "uomo universale" privo di cultura di riferimento, privo di referenti metafisici, linguistici, storici, tradizionali etc., che in lui si sono manifestati, e non potevano non manifestarsi, in quel momento e in quel luogo…Sempre l'individualità d'eccezione è l'altra faccia della realtà comunitaria di un popolo. L'uomo non è l'inesistente "uomo di natura" pensato da Rousseau in qualcuno dei suoi numerosi momenti di appannamento: l'inganno dei "diritti dell'uomo" deriva ancora da quell'immaturo abbaglio di credere all'esistenza di un archetipo da laboratorio - il famoso "buon selvaggio" - che gli illuministi settecenteschi pensarono di aver trovato in uomini che invece, e più ancora degli europei, erano legati alle loro arcaiche strutture di appartenenza tribale, familiare, di stirpe. Questa fissazione illuminista ha causato non poche sciagure nel suo dilagare per il mondo, e ancora non si stanca di distribuire il suo carico di odio per la vita e di inganno ideologico. L'uomo come individuo trae la sua più alta nobilitazione dal senso dell'appartenere. L'apolide non è nessuno, poiché non si riferisce a nessuno. Egli incarna l'idea di uomo universale, cioè una non-esistenza: non è nessuno, poiché pretende di essere e rappresentare tutti. E l'idea di "tutti" è talmente generica, che non esiste nell'oggettivo realismo della mente umana, non può trovar posto nella realtà pensabile e rappresentabile, ma solo in quella macchina di invenzioni cerebrali che, allo stesso modo, può liberamente fantasticare di marziani, giganteschi o lillipuziani Gulliver, società perfette, città ideali, paradisi, nuove Sion e così via…L'uomo vero, l'uomo creato dal gene della vita e non dal pensiero, non vive di genericità immaginativa, ma di solida realtà e di potenti miti, dalla stessa realtà scaturiti come fonti di rappresentazione delle forze e delle dinamiche eterne di natura. L'uomo non conosce "l'uomo" e neppure "l'umanità", ma il prossimo: e persino Gesù ammoniva ad amare il prossimo, cioè l'altro vivo e vero, colui che vive accanto veramente, che possiamo toccare e con cui parliamo, e non sobillava affatto ad amare una generica "umanità": concetto inesistente presso tutti i popoli in tutte le epoche, e presente solo nei trattati illuministi e nelle costituzioni massonico-puritane della Francia e degli USA. Diceva Maurice Barrés che "i popoli sono uguali nella loro incompatibilità". Quando sono sani, i popoli sono sempre incompatibili. Entità vigorose non si corrompono aprendosi a casaccio all'altro-da-sé, così come si apre una casa vuota in cui non ci sia più nulla da proteggere, così come si apre la valva morente. Entità marce, all'opposto, usano negare se stesse, attraversate da un intimo brivido di dissoluzione, e per sentirsi vive si aggrappano al surrogato delle categorie intellettuali universali. L'innesto dell'intera concezione politica mondiale sulla retorica dei "diritti dell'uomo" non è che l'ennesima maschera dietro a cui si nasconde l'eterna volontà di rapina di quanti aspirano alla dominazione del mondo. Parlano di umanità, in modo da non dover essere costretti a fare i conti con rocciose e resistenti realtà, i popoli. Parlano di diritti, in modo da non dover fare i conti con i doveri, i propri e quelli che ogni nazione ha verso se stessa. Solo chi tradisce i doveri straparla di diritti. E noi sappiamo che ogni matura comunità si edifica prima di tutto sui doveri, che sono il cardine della reciprocità e della vera solidarietà. E l'universalismo non è affatto nobiltà di sentimenti umani, ma il più comodo mezzo su cui viaggia il concretissimo mercantilismo internazionalista, che non conosce popoli, ma masse. Masse di umanità rimescolate e private di anima: "L'umanità - ha scritto Carl Schmitt - è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche ed è, nella sua forma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell'imperialismo economico". Questa nitida fotografia scattata da Schmitt a quell'epocale stortura che è la "filosofia" dei diritti dell'uomo strappa la maschera dal volto di quanti, negando l'oggettivo relativismo differenzialista di uomini e popoli, negano la vita, la natura e la storia. E così, proprio i teorici del materialismo, i guru dell'oggettività, diventato i patetici portatori dell'illusione, del bluff, dell'utopia, tutte ingannevoli affabulazioni messe al servizio dei conti di cassa degli speculatori cosmopoliti. La legittimità della volontà nazionale-popolare, in quanto volontà individuata, basta da sola a togliere di mezzo le pretese ideologizzanti dei falsi egualitarismi. E il vero e unico umanesimo - che è l'opposto dell'umanismo illuministico - poggia sul diritto di natura che ogni comunità umana sana deve rivendicare, nel senso di confidare nella forza dello sguardo sul mondo circostante proprio ad ogni popolo: questo crea la cultura, il comune sentire, la fratellanza tra simili che insieme condividono fatica e progetto, vita e morte. Come è possibile che quella innominabile ragnatela psichica che è la modernità poggi ancora i suoi contorti "diritti" su impotenti polluzioni letterarie, come la "società generale" dei vari Diderot, devianze razionaliste già date per morte e sepolte due secoli fa? Come è possibile ancora oggi, che il mondo è in pasto al conflitto cronico scientificamente programmato, pretendere l'asservimento dei popoli nel nome di un'utopia di assolutismo che è gestita dagli stessi artefici dell'etnocidio in serie? Il diritto di ogni popolo consiste nella protezione e nel potenziamento della sua vita biologica e mitica. Questo diritto è tutta quanta la cultura. Il vacillare su questo punto è un invito all'avanzare della malattia mortale dell'universalismo, con tutti i suoi demoni dell'oblio, del rinnegamento, della divisione parcellizzante fino all'ultima e più povera, più disperata e più inerme cellula: l'individuo solo. Davanti al nulla rappresentato dai "diritti dell'uomo" sta la massiccia oggettività del diritto che ogni popolo ha di veder riconosciuti in faccia al mondo la propria specificità, la propria identità, il proprio prezioso patrimonio ereditario di cultura, di tradizione, di con-vivenza col suolo che è lo spazio geo-storico del proprio unico e ineguagliabile destino. La legge della bio-diversità distribuisce per natura ad ogni popolo talenti in misura diseguale, ma sempre tali da assegnare ad ognuno il diritto a veder riconosciuta una particolarità in cui risiedono il valore, la fierezza e l'onore di un legame non equiparabile a nessun altro. Il diritto dei popoli è essenzialmente legame, il diritto di veder protetto il reticolo di quei preziosi vincoli che creano la solidarietà tra uomini che con-vivono e con-dividono un destino. I generici diritti dell'uomo, al contrario, sono essenzialmente la sanzione di uno scioglimento. I legami spezzati sciolgono, avviano all'abbandono, disperdono in un vagare privato di ancoraggi: ab-soluti, cioè per l'appunto sciolti, assoluti e assolutisti, sono quei diritti che agli uomini non promettono altro che il disperante tradimento della relazione comunitaria. La massa mondiale di individui così sciolti e spezzati, a questo punto, non avrà più da pretendere alcun diritto, neppure alla vita. Già lo vediamo. Ad esempio, gli attacchi della tecnoscienza, che notoriamente lavora per lo più al servizio degli interessi cosmopolitici, già avanza crescenti minacce alla stessa integrità dell'uomo non più solo etica o psico-fisica, ma biologica. Essi non sono che l'avanguardia di ciò che aspetta al varco i popoli, rintanato dietro la retorica dei "diritti": assalto diretto alle basi stesse della vita, demolizione finale di ogni struttura di resistenza al caos mondialista. Una resistenza è possibile solo con l'organizzazione, e l'organizzazione è di nuovo organismo, comunità, socializzazione tra uomini entro sistemi di appartenenza: nazioni, Stati, comunità solidali, aggregazioni in gruppi, fino alla tribù, fino alle più minute tradizioni locali. Oggi, di fronte al pericolo di morte che è ìnsito nel disegno di trasformare i popoli del pianeta in una indifesa poltiglia umana indifferenziata, esiste un solo diritto: quello di lottare per ogni frammento di identità, facendo di ogni legame - dalla famiglia alla terra patria, dalla cultura etnica alla solidarietà di popolo - una linea di resistenza, sempre più tenace, sempre più risoluta.

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    magnifico. Merita di essere postato, diffuso e discusso anche in altri fora.

 

 

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