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Discussione: Cronaca di una batosta

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    Predefinito Cronaca di una batosta

    Roma. Il punto è che il centrodestra queste regionali le ha perse e in malo modo. All’ora in cui questo giornale va in stampa si tratta tutt’al più di stabilire l’entità delle botte prese: “Se è andata male e basta, se è andata malissimo oppure se è un disastro completo”, come dice un dirigente di Forza Italia. Capire – e comunque non è poco – se finirà con un undici a due per l’Unione ovvero se gli elettori avranno evitato alla Casa delle libertà l’umiliazione di lasciare sul campo anche Lazio e Puglia oltre a Liguria, Calabria, Abruzzo e quasi certamente il Piemonte. Come gli exit poll, anche i primi dati apprezzabili ieri pomeriggio certificavano infatti che per la Casa delle libertà il risultato di queste regionali si profila disastroso.
    Prima di mostrare segnali di recupero timidi e insufficienti nel Lazio, e altri più illudenti in Puglia, la coalizione di Silvio Berlusconi sembra aver mantenuto soltanto due regioni sulle otto conquistate cinque anni fa. E dunque la sua dote elettorale resiste soltanto nelle due roccaforti strategiche del nord.
    Nella Lombardia di Roberto Formigoni (oltre dieci punti sopra il candidato dell’Unione Riccardo Sarfatti) e nel Veneto governato da Giancarlo Galan (in vantaggio di oltre cinque punti sull’ulivista Massimo Carraro).
    Anche in Lombardia e Veneto comunque il Polo sconta qualche voto in uscita, e con quello che è accaduto altrove quasi non si nota.
    Per il resto non è affatto inverosimile immaginare che nella notte venga ufficialmente ammessa dai leader della Cdl una sconfitta senza appello.
    Temuta alla vigilia e politicamente pesantissima una disfatta che avrà conseguenze nelle regioni che fino a ieri sera venivano considerate ancora in bilico. Malissimo sarà, e pare che ci siano pochi dubbi in proposito, se in Piemonte la sfidante dell’Unione Mercedes Bresso confermerà il sorpasso sull’uscente Enzo Ghigo. Non molte chance in più nel Lazio dove in serata Francesco Storace era sotto di oltre un punto rispetto a Piero Marrazzo (vicino al 51 per cento, e se questa sarà in effetti la sua percentuale a Storace non sarà possibile neanche invocare a sua scusa il nome dell’odiata Alessandra Mussolini).
    Quanto alla Puglia, è stato un testa a testa lungo e sorprendente tra Nichi Vendola e Raffaele Fitto. Per qualche ora, il candidato di Rifondazione sembrava avercela fatta comodamente contro il governatore polista. Poi la rincorsa di Fitto si è fermata. Contando anche le sconfitte – preventivate – in Calabria (dove l’ulivista Agazio Loiero ha avuto gioco facile su Sergio Abramo) in Abruzzo (dove il presidente uscente Giovanni Pace era dato sconfitto in partenza contro Ottaviano Del Turco) e nella Liguria di Sandro Biasotti (espugnata senza difficoltà da Claudio Burlando), se è vero che la maggioranza di centrodestra ha lasciato all’Unione undici regioni su tredici, da ieri sera, voti alla mano, il Polo potrebbe essere minoranza nel paese. Anche perché il centrosinistra si è ovviamente affermato con percentuali alte nelle regioni in cui la sua prevalenza non pare mai essere in discussione. In Emilia l’uscente Vasco Errani viene riconfermato attestandosi al 61,9 per cento sul candidato del centrodestra Carlo Monaco, fermo al 36. Così anche Claudio Martini in Toscana, oltre il 56,6 per cento contro il 33 e qualcosa dello sfidante polista Alessandro Antichi (e malgrado Rifondazione abbia corso da sola con Luca Ciabatti). Anche nelle Marche successo scontato di Gian Mario Spacca sul rivale di centrodestra Francesco Massi; e così pure in Umbria dove Maria Rita Lorenzetti sfiora il 60 per cento dei consensi (con quasi venticinque punti di distacco da Pietro Laffranco della Cdl). In Campania Antonio Bassolino si conferma governatore malgrado non abbia sfigurato il concorrente polista Italo Bocchino.

    L’affluenza bassa, ma non troppo
    Di certo c’è che l’affluenza alle urne è stata del 71,4 per cento, 1,7 per cento in meno rispetto alle ultime consultazioni. Dunque una flessione non tanto forte come si temeva alla vigilia e che non può aver modificato chissà quali equilibri. Non esattamente buona, ma forse quanto basta per risultare decisiva, invece, la performance della lista guidata dalla Mussolini, Alternativa sociale. La nipote del duce non incassa i consensi che auspicava in Campania, nel Lazio e al nord. Ma contando le sue percentuali –oscillanti dall’uno e qualcosa al due per cento – e sommandole a quelle ottenute dalla neonata Democrazia cristiana di Gianfranco Rotondi, si può pensare che il pacchetto di voti sarebbe stato decisivo per la Cdl in Piemonte e Puglia. Lo ha riconosciuto da subito il coordinatore vicario di An, Ignazio La Russa, quando ha commentato in televisione i primi e più preoccupanti exit poll. Quanto ai partiti del centrodestra, complessivamente Forza Italia continua a perdere elettori (nell’ordine del punto e mezzo percentuale) e soprattutto al sud. Fa notare qualche esponente forzista: “E’ venuta a mancare la tanto attesa svolta che avrebbe dovuto innescare nel movimento il ritorno alla politica sul territorio di Claudio Scajola”. La linea difensiva dei forzisti, affidata a Fabrizio Cicchitto e Sandro Bondi è nota: per tutta la coalizione ha pesato il fatto che Berlusconi non sia sceso in campagna elettorale. In più, molto ci sarà da discutere con gli alleati che hanno posto veti su Mussolini e Rotondi, mentre il centrosinistra si compattava e ingrossava le sue preferenze. La Lega nord risulta decisiva nella conservazione del Veneto e della Lombardia. Il che consente a Umberto Bossi, per bocca di Roberto Calderoli, di affermare:
    “Per noi è facile commentare i risultati perché la Lega cresce in ogni regione, sia rispetto alle politiche che alle ultime europee”.
    Non sembra brillare particolarmente An. Non crescerebbe o crescerebbe poco e con discontinuità l’Udc. Il che non impedisce ad alcuni centristi d’indicare in Silvio Berlusconi e nella sua linea di governo la causa di una maggioranza franante. Lo ha detto Bruno Tabacci, aggiungendo: “Negli
    ultimi anni, quando ha affrontato la prova elettorale, la Cdl non è andata mai bene. E dire che Berlusconi non si è speso in campagna elettorale è sbagliato”.
    Quindi la conclusione del suo ragionamento: “Gli italiani hanno interpretato il voto come un referendum su Berlusconi, è qualcosa di molto delicato”.
    Ironico il capogruppo dell’Udc a Montecitorio, Luca Volontè: “Per vincere le elezioni non è sufficiente dire che i comunisti mangiano i bambini”.
    E’ probabile che anche i figiani respingeranno le accuse di aver posto veti e diktat penalizzanti. Ma non cercano
    di minimizzare il colpo subìto. E’ possibile che provino a imputare la sconfitta di Storace a un contraccolpo generale riflettutosi anche sul buon lavoro dei governatori. Cauto ma sconsolato il commento del ministro dell’Agricoltura Gianni Alemanno:
    “Il giudizio definitivo su queste elezioni lo potremo dare soltanto quando si saprà l’esito dei testa a testa. Però dobbiamo fare tutti quanti insieme con serietà e umiltà una profonda riflessione per capire dove correggere, e per gettare le basi per tornare a vincere”.
    Toni preoccupati e richieste di autoanalisi per la coalizione anche dal ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri.

    Prodi trionfante
    Romano Prodi aveva annunciato che al centrosinistra sarebbe bastato strappare una regione al Polo per proclamarsi vincitore. Con questi presupposti e soprattutto con i dati largamente favorevoli a diposizione, oggi può esultare trionfante. “Abbiamo vinto in numero di voti e in numero di Regioni”, ha detto Prodi nella sede dell’Unione di piazza Santi Apostoli: “Con questo voto gli italiani ci chiedono di prepararci a governare”. Come Prodi anche il segretario dei Ds Piero Fassino, che parla di “uno spostamento di milioni di voti”. Fassino si è spinto fino a decretare che “il centrosinistra ha un consenso di 7-8 punti percentuali in più dell’alleanza di centrodestra”, mentre il leader della Margherita Francesco Rutelli sostiene che “l’Ulivo e la coalizione sono nettamente avanti nel voto popolare”. Esulta con discrezione Fausto Bertinotti. Ma il segretario di Rifondazione, a sinistra, incassa forse il risultato più dirompente grazie a Nichi Vendola. Infine il Cav. E’ rimasto silenzioso come il defilatissimo ministro degli Esteri e leader di An Gianfranco Fini. Come il vicepremier e leader dell’Udc, Marco Follini. Il premier ha seguito gli exit poll da lontano e si è limitato a telefonare per complimentarsi con Galan e Formigoni, unici candidati della Cdl festeggiabili ieri sera.

    Il Foglio del 5 aprile

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    Predefinito L'Unione che verrà

    Anche nella scorsa campagna elettorale
    era presente. Ma questa volta Flavia Prodi è praticamente fissa al fianco del candidato premier del centrosinistra. Come mai? Per seguire i consigli degli esperti di marketing che hanno raccomandato all’ex presidente della Commissione europea l’importanza di avere accanto a sé una first lady. La coppia fornisce l’immagine di una famiglia normale assai utile a rassicurare i moderati, ancora perplessi per questa alleanza tra i centristi e la sinistra di Fausto Bertinotti.

    Romano Prodi sta già fremendo al pensiero della cernita dei futuri ministri. Vi saranno delle vere e proprie sorprese per gli alleati dell’Unione. Il candidato premier del centrosinistra, infatti, volge la propria attenzione soprattutto al di fuori del mondo politico. Prodi punta su diversi esponenti della società civile. Sia per quel che riguarda un ministero chiave come quello dell’Economia sia per il dicastero della Sanità. E’ probabile, quindi, che qualche parlamentare rimarrà deluso. Tra gli uomini, ma anche tra le donne. Infatti le esponenti del centrosinistra che avevano accolto con grande gaudio la decisione di Prodi di tentare di imitare Zapatero (tentare, perché la quota del cinquanta per cento alle donne, almeno al momento, non è prevista), potrebbero subire delle forti delusioni perché l’ex presidente della Commissione europea sta pensando sì di inserire delle donne nel suo governo, ma molte provenienti dalla società civile. Le uniche due che occuperanno senz’altro un ministero saranno Luciana Sbarbati e Giovanna Melandri. La seconda per gli ottimi rapporti, anche personali, che ha con Prodi. La segretaria dei Repubblicani europei, invece, per un altro motivo che, comunque, non riguarda il suo essere donna. Infatti il candidato premier dell’Unione punta a mettere nel suo governo tutti i leader delle forze politiche per rendere più compatta la propria maggioranza. Con i numeri uno dei partiti dentro l’esecutivo sarà più facile per Prodi evitare scollamenti, prese di distanza o logoramenti.

    Ma, c’è un “ma” grosso come una casa.
    Cioè che Fausto Bertinotti non intende assolutamente entrare nell’eventuale futuro governo presieduto da Romano Prodi. Per ripetere il bis del 1998? Senz’altro no. Tant’è vero che alcuni esponenti politici molto vicini al leader del partito della Rifondazione comunista sostengono che Bertinotti in realtà stia puntando a un’altra poltrona. Cioè a quella che oggi è occupata da Pierferdinando Casini. Al segretario del Prc, insomma, non dispiacerebbe fare il presidente della Camera. Peccato che punti a quella poltrona anche il presidente dei Democratici di sinistra, Massimo D’Alema.

    Quello della campagna referendaria è un problema che sta angosciando i leader del centrosinistra. Come riuscire a non dividersi e, nel contempo, a fare propaganda per i quesiti referendari? E’ quasi impossibile. Una cosa del genere infatti metterebbe seriamente in imbarazzo il candidato premier dell’Unione Romano Prodi, che ha già i suoi bei problemi con il Cardinal Ruini e le gerarchie ecclesiastiche. Sarebbe per lui molto difficile assistere senza partecipare a una campagna referendaria in cui i due maggiori partiti del centrosinistra, Quercia e Margherita, si troverebbero su sponde opposte.
    Per questa ragione l’Unione metterà il silenziatore alla campagna. I Ds la faranno, visto che sono obbligati dal momento che hanno promosso i quesiti referendari, ma in maniera molto modica. Senza inasprire i toni e senza esagerare in propaganda. Ma questo compromesso raggiunto alla fine dentro il centrosinistra potrebbe scontrarsi con un ostacolo di non poco conto.
    Cioè Marco Pannella e i radicali. I quali, senz’altro, non lasceranno passare sotto silenzio l’atteggiamento dei Ds e degli altri partiti della sinistra che si sono schierati a favore dei quesiti referendari.

    Su il Foglio del 5 aprile

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  3. #3
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    Predefinito Prima analisi di una sconfitta

    Le regionali sono le regionali.
    In tutta l’Europa che arranca economicamente, le forze di governo perdono le elezioni locali. Ma perdere o affaticarsi all’ultimissimo voto in sei regioni sulle otto governate dal centrodestra non può essere solo un caso di gigantesca distrazione: per subire una sconfitta così ci vuole anche un bel po’ di politica nazionale.
    Ci vogliono coalizioni rissose che il premier riporta alla calma sempre e solo all’ultimo momento, nell’incapacità di costruire quel minimo di armonia che una maggioranza composta di forze diverse deve avere per guidare un grande paese.
    Ci vuole una linea politica che salta fuori a sorpresa come un coniglio da un cilindro senza costruire quel rapporto con le élite che solo dà sicurezza all’arte di governare.
    Ci vuole una carenza di personale politico che talvolta riesce ancora a sorprendere, e che stupisce anche in regioni dove politici capaci hanno avuto tutto il tempo per costruirla.
    Finiti i pigolii, Silvio Berlusconi avrà poche settimane per rispondere all’enorme deficit di politica che la sconfitta alle regionali indica. Poi arrivano l’estate, la Finanziaria, una campagna elettorale che solo qualche fantasista profondamente distaccato dalla realtà può pensare di vincere con onde azzurre o mille giovani volontari.
    Ogni stagione ha il suo frutto: se quella dell’allegra fantasia, liberatrice e ingannatrice, è finita, ora servirebbe una visione concreta degli obiettivi per il prossimo futuro, incardinata sulle scelte che si fanno nei prossimi mesi.
    Ma chiudere gli occhi sui risultati, è il modo sicuro per non imboccare anche questa stretta via.

    Ferrara su il Foglio del 5 aprile

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  4. #4
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    Predefinito A ciascuno il suo

    Milano. Al centrodestra, per reagire alla batosta delle regionali, serve riflettere bene su che cosa ha determinato la sconfitta.
    Un voto che esprime una tendenza nazionale omogenea, segnala errori di leadership. E le mosse del leader vanno analizzate con rigore per capire se chi guida è in grado di assolvere ancora alla sua funzione. Ma gli altri membri dell’alleanza non sono assolti: le carenze di leadership non giustificano le miopie nell’inseguire interessi di parte dimenticandosi di quelli della coalizione.
    Il corretto insistere sulla tendenza nazionale, che dunque riflette un giudizio (in parte notevole, espresso ancora con l’astensione) critico sulle scelte del governo, non può, poi, sostituire la valutazione specifica della mancata riconferma di alcuni governatori.
    Anche quando è diffusa la convinzione che presidenti di regione come Enzo Ghigo, Francesco Storace e Raffaele Fitto abbiano operato bene.
    Perdere questi politici per un centrodestra (già malmesso come materiale umano) sarebbe stupido.
    Ma per reinserirli bene, è indispensabile valutarne gli errori non solo le virtù.

    Che Ghigo, per esempio, sia stato un buon governatore è testimoniato anche dall’alto numero dei suffragi che riceve in ampie aree della sua regione. Il presidente uscente del Piemonte ha, in questo senso, rimontato le diffidenze dell’elettorato sui temi della sanità, legate sia a scandali (in parte sgonfiati), sia all’imposizione dei ticket per spese sanitarie. Quest’ultimo provvedimento era indispensabile per riportare i conti della sanità sotto controllo: non soltanto per le nuove entrate ma soprattutto per scoraggiare il ricorso irresponsabile ai farmaci.
    Abolire i ticket era stata una scelta elettoralistica di Giuliano Amato tra 2000 e 2001 che aveva regalato al successivo governo di centrodestra un boom della spesa sanitaria.
    Nel caso dei ticket (come per Fitto sulla questione della chiusura degli ospedali minori) è mancato coordinamento tra regioni e governo a maggioranza di centrodestra: un’opera comune di chiarimento politico che i metodi accentratori di Giulio Tremonti nel gestire una pur ragionevole politica fiscale hanno reso complicata.

    Gli sbagli del giovane Fitto
    Anche in Piemonte, poi, come nella gran parte dell’Italia, si è registrato lo scontro tra gli uomini del “partito” (come il coordinatore di Forza Italia, Roberto Rosso) e quelli dell’istituzione, come Ghigo. Scontro aspro in cui Ghigo ha prevalso perdendo settori importanti dell’anima cattolica di FI. Comunque il dato centrale della sconfitta di Ghigo è l’enorme distacco di Mercedes Bresso nel voto di Torino città. Anche qui c’è un trend nazionale: il centrodestra va male nei grandi centri urbani, il che peraltro indica la futura tendenza prevalente. Ma Ghigo esagera nel perdere: e questo deriva da due errori. Essersi fidato di una sorta d’intesa con il sindaco Sergio Chiamparino, scordandosi che i Ds sono un partito in cui i sentimenti sono subordinati agli interessi di partito. E di avere contato sull’appoggio benevolo della Fiat, centro di potere che non ha più la forza ormai di distribuire equamente i propri sostegni.
    Il giovane Fitto, per perdere con un Nichi Vendola di Rifondazione, ci ha messo del suo.
    D’altra parte i voti della coalizione di centrodestra sono più alti di quelli per il presidente. Ora che ha perso vengono fuori le critiche a una gestione solitaria, alla scarsa attenzione alle lunghezze della burocrazia che trattava con le imprese (specialmente agricole), al non avere mantenuto rapporti con l’ampio schieramento che in Puglia appoggiava il centrodestra, preferendo le vecchie amicizie ereditate dal padre: il che spiega perché l’anno scorso il centrodestra ha perso tutte le province pugliesi.
    Anche Fitto ha avuto, poi, l’ingenuità di pensare che un buon rapporto con Massimo D’Alema gli risolvesse automaticamente alcuni problemi politici fondamentali.

    Francesco Storace rispetto agli altri governatori è un politico di rango. Il suo governo è stato di ottimo livello. Ma anche il suo sfidante Piero Marrazzo era stato scelto dall’abile Paolo Gentiloni dopo accurati sondaggi e non a occhi chiusi.
    Anche Storace è stato in parte ipnotizzato dai rapporti con Walter Veltroni che quando si è mosso, è stato decisivo per far passare Marrazzo.
    Ma il suo errore fondamentale è stato non capire la lezione politica del sindaco di Roma.
    Come Storace, Veltroni è stato nelle istituzioni uomo di riferimento per tutti i cittadini. Ma come uomo di partito, nonostante un’iniziale scarsa sintonia politica con Piero Fassino, Veltroni è stato quello che univa tutto il centrosinistra da Rifondazione alla Margherita, da Roma a Milano.
    Storace è stato l’ottimo governatore di tutti, ma poi è stato il politico rigidamente non tanto di An quanto della Destra sociale di An, polemico con il governo e con la sua maggioranza, fattore di rottura e non di unità.
    In una Roma con una Forza Italia a pezzi, Storace ha contribuito a deprimere i seguaci berlusconiani con i risultati visti.

    Il Foglio del 6 aprile

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    Predefinito Palazzo

    Roma. Dopo la batosta delle regionali An chiede un gesto di discontinuità forte.
    L’Udc pretende una riflessione ma annuncia che non basterà.
    Pure la Lega si dice pronta per un’autoanalisi della Cdl ma non vuol sentir parlare di verifica.
    Silvio Berlusconi? In silenzio, almeno fino a ieri sera, ha affidato la sua reazione a un’intervista a Panorama in cui dice che “tutto era prevedibile perché legato alla tendenza europea” e allarma gli italiani sulla natura illiberale dell’opposizione.
    Intanto Forza Italia conta i danni e assiste a movimenti ostili provenienti da An e Udc. Tra i finiani è la Destra sociale, colpita dalla sconfitta di Francesco Storace, ad attaccare.
    Gianni Alemanno ha chiesto l’apertura degli “Stati generali” della maggioranza.
    Per il vice coordinatore
    Ignazio La Russa non serve arrivare a questo. Dopo una riunione tra Gianfranco Fini e i suoi
    dirigenti è uscita rafforzata la linea di una “critica moderata” a Berlusconi. An non mette in discussione la leadership del premier (che pure considera in declino), si aspetta da lui alcune proposte concrete, vuole il riconoscimento del grave valore politico della sconfitta. E come conseguenza una metamorfosi nella squadra di governo, se possibile attraverso regolare crisi. Obiettivo non dichiarato: i ministri tecnici di Forza Italia e la politica di tagli fiscali annunciata dal premier.
    Se il Cav. invece insiste a minimizzare e, forte del sostegno leghista, richiama tutti all’ordine?
    A quel punto, minacciano i finiani, la maggioranza va in pezzi.
    Anche i centristi preparano qualcosa che assomiglia a una resa dei conti.
    Per ora solo allusioni – da parte del segretario Marco Follini – dopo la direzione politica dell’Udc si saprà qualcosa di più .
    Cresce anche fra i dirigenti di FI – convocati per oggi da Berlusconi – l’idea che un gesto forte del Cav. sarebbe salutare. La speranza è che arrivi in anticipo rispetto alle richieste degli alleati. Altrimenti scatterebbe un meccanismo difensivo paralizzante.

    Nell’Unione c’è un ragionevole sentimento di euforia che sconfina nell’impazienza di veder franare la Cdl. E nella richiesta che Berlusconi congeli quel che rimane del suo percorso riformista in materia di Costituzione e legge elettorale.
    Romano Prodi non chiede e non si aspetta elezioni anticipate. L’Unione ha ufficialmente abolito le primarie che avrebbero dovuto legittimare la leadership prodiana e lanciare Fausto Bertinotti come suo principale (e solidale) competitore a sinistra. Prevale dunque la richiesta dei Ds anche perché tutti i partiti della coalizione, di fronte alla vittoria alle regionali, non hanno interesse ad aprire contenziosi.
    Passa la tesi secondo cui la caratteristica vincente della leadership prodiana è sotto gli occhi di tutti in quel 52 per cento di voti a livello nazionale toccato dall’Unione.
    Fra i primi a riconoscerlo c’è Francesco Rutelli, in tempestivo avvicinamento (si può anche chiamarlo allineamento) a Prodi. Una mossa, quella del capo della Margherita, che evidenzia il poco spazio disponibile per una soluzione di tipo istituzionale di fronte alla crisi d’identità della maggioranza.
    Rimandate anche eventuali velleità di accordi trasversali neoproporzionalistici.
    Anche dove l’Unione si divide, la cosa si nota per lo più grazie ai demeriti del centrodestra.
    Accade a Venezia, dove la Cdl si è presentata con cinque liste concorrenti alle elezioni comunali e il risultato è che a sfidarsi al ballottaggio saranno i due candidati sindaci di centrosinistra:
    Felice Casson e Massimo Cacciari (sostenuto solo da Margherita e Udeur).

    Il Foglio del 6 aprile

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    Predefinito Un talento privato

    Mettiamola così, papale papale. Quel che doveva fare, Berlusconi in undici anni di politica l’ha fatto, e non è poco.
    Fermata l’aggressione procuratizia alla politica elettiva; ristrutturato radicalmente il sistema politico e istituzionale, con il maggioritario che funziona egregiamente e il bipolarismo che consente l’alternanza di forze diverse alla guida del paese; una svolta benedetta di centottanta gradi in politica estera, all’altezza del disastro di civiltà dell’11 settembre, una ricollocazione occidentalista coraggiosa, mobile, non ingessata nell’obbedienza franco-tedesca del vecchio e polveroso europeismo.
    Poi molto altro: un po’ di sano anticomunismo, protratto oltre il credibile con qualche sciatteria, e un’iniezione di sano spirito liberale, fatta di fortunosi tagli delle tasse ma soprattutto di uno spirito garibaldino, non professionale, un po’ folle e spesso allegro, che ha incantato ideologicamente il paese e ha messo a nudo l’inquietante mediocrità di certa politica professionale.
    Quando i vincitori delle elezioni di questi tre anni, che hanno trovato un culmine drammatico nel rovesciamento politico delle regionali, saranno indaffarati con la loro ordinaria amministrazione, se ce la faranno a riprendersi il governo, voci indipendenti e lungimiranti si metteranno a parlare per il fenomeno Berlusconi, a favore della sua energia anomala, fino a nuove italianissime consacrazioni ex post.
    Non finirà dannato, nemmeno se sconfitto. Avrà l’onore delle armi.
    Il problema è il core business. Quello di un imprenditore milanese è il profitto d’impresa attraverso la mobilitazione efficiente di una squadra privata. Se dotato di immaginazione, ambizione, volontà, senso del pericolo in circostanze eccezionali come quelle degli anni Novanta in Italia, questo imprenditore può realizzare miracoli come quelli ricordati sopra anche nella sfera pubblica.
    C’è però un nec plus ultra, un limite che forse è stato raggiunto. Infatti la costruzione di una base minima di consenso sociale attraverso riforme liberali nell’economia e nello Stato, l’evocazione non effimera di una classe dirigente generale, la statuizione di regole valide per tutti e riconosciute come tali, il raccordo fattivo con gli alleati e il conflitto non devastante con gli oppositori, un progetto di società: tutto questo è un altro paio di maniche e non fa parte del core business di una personalità irriducibilmente privata, a suo modo grande e debordante.
    Da secoli, gli italiani non hanno alcuna voglia di essere liberi e responsabili, preferiscono tutela e varia e volubile informalità al prezzo della libertà.
    Può essere che di qui a un anno il Cav. si faccia un altro giro di giostra, può essere che no.
    Detto oggi con speciale affetto, visto che le ruvidezze tra amici sono state per i tempi d’oro, non valgono per le circostanze dure, un altro giro non cambierebbe poi molto.
    Non ce lo fa pensare il risultato delle regionali, pur così radicale, ma ciò che precede quel risultato, l’invilupparsi della fantasia politica di Berlusconi in una specie di mania politicista senza oggetto, lo svuotamento di senso che affligge l’opera complessiva del centrodestra, pur tra parziali risultati. Probabilmente il nostro Louis XIV non la pensa così, e medita dall’interno della sua corte privata e ambulante grandi vendette e risarcimenti pieni.
    Se è così, gli daremo ancora una inutile mano come abbiamo sempre fatto, cioè a modo nostro. Tuttavia la grande sorpresa finale, il suo vero happy end, il Cav. dovrebbe metterlo in scena con il talento drammaturgico che ebbe nell’entrare in politica e nel rivoluzionare l’abietta Italia dei primi Novanta.
    Con altrettanta fantasia, dovrebbe preparare, evitando risse tenorili e crisi melodrammatiche dell’ultima ora, una composta battaglia per valorizzare il ben fatto e cercare di restare in sella, preparando al tempo stesso con onore e ironia la fine della galoppata.

    Ferrara su il Foglio del 6 aprile

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    Predefinito Il problema dei vincitori

    Quando cinque anni fa il centrodestra, allora all’opposizione, ottenne un consistente successo nelle elezioni regionali, ne approfittò per costruire l’intesa programmatica tra Polo e Lega che fu poi alla base della vittoria alle politiche dell’anno successivo.
    Il profilo netto del programma, che fu possibile a Silvio Berlusconi sintetizzare nel “contratto con gli Italiani” fu un ingrediente importante di quella fortunata campagna elettorale, anche perché fugò i dubbi sulla possibilità di convivenza fra spinte diverse, come quella federalista della Lega e l’accento posto da An sull’unità nazionale.
    Ora un compito simile spetta al centrosinistra che deve sciogliere le contraddizioni tra le impostazioni programmatiche presenti nella sua coalizione.
    Il compito sarà assai facilitato dal clima d’entusiasmo, dall’affermazione contemporanea di quasi tutte le liste, in particolare dal successo di Nichi Vendola in Puglia, che ha mostrato la compatibilità elettorale di Rifondazione comunista con i suoi alleati.
    Tuttavia sarà necessario un certo lavoro di mediazione per arrivare a proposte programmatiche precise.
    Il primo scoglio sarà la legislazione sul lavoro, che la parte radicale della coalizione chiede di modificare pesantemente per reintrodurre tutte le rigidità superate con la legge Biagi.
    Lo stesso vale per la politica fiscale, a cominciare dalle riforme introdotte dal centrodestra, ad esempio sulla detassazione di eredità e donazioni.
    Sempre in campo economico c’è da definire gli obiettivi delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni, sulle quali Rifondazione esprime un dissenso piuttosto netto, mentre le formazioni dell’Ulivo, anche per mantenere i collegamenti con l’establishment, sono favorevoli.
    In questi casi, ma anche in generale, c’è da definire il rapporto con gli orientamenti dell’Unione europea, idoleggiata da Romano Prodi e considerata da Rifondazione una camicia di forza liberista. Infine c’è da definire una collocazione internazionale che non può prescindere dal ruolo degli Stati Uniti, nei confronti dei quali sussiste un’area di accesa ostilità pregiudiziale a sinistra.
    Problemi non certo insormontabili, ma reali e complessi.

    Ferrara su il Foglio del 6 aprile

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    Predefinito Il post batosta

    Roma. Ieri è stato il primo giorno di confronto politico tra alleati di centrodestra dopo la sconfitta alle regionali. Su questo confronto s’innesta l’interventismo ritrovato con il quale Silvio Berlusconi ha voluto riallineare la dirigenza di Forza Italia – cui ha confermato la propria fiducia – ha voluto attivare un’azione di difesa e propaganda della propria azione politica anche grazie al sostegno della Lega, e ha escluso elezioni anticipate e qualsiasi cambiamento nei rapporti con il Carroccio.
    Segnali di forza non si sa quanto graditi da An e Udc. Soprattutto dopo le indiscrezioni emerse in mattinata sul contenuto del colloquio di un’ora a Montecitorio fra il Cav., Pier Ferdinando Casini, Marco Follini e Gianfranco Fini.
    Indiscrezioni riferite all’ipotesi di uno scontro sulla richiesta di ridimensionare il peso della Lega e dar vita a un esecutivo “più politico”, e di una disponibilità ad andare a elezioni anticipate pur di ottenere soddisfazione.
    Fini e Follini chiederebbero spazio al Cav., e in più una
    ‘regolarizzazione’ del Carroccio; piegandone insomma le pulsioni isolazioniste sotto la minaccia di estrometterla dal governo.
    La posizione di Berlusconi non nasconde, semmai conferma, che nella maggioranza sia in atto uno scontro politico la cui portata è ancora da decifrare. Così come da valutare sono i tempi che i leader della Cdl intendono darsi per risolvere, se ne sono in grado, un rinnovato contenzioso che deciderà della prospettiva politica di tutta la coalizione.
    La visione della Lega appare quella più chiara. Ieri il ministro delle Riforme Roberto Calderoli ha detto che non vuol sentir parlare di fratture nel governo tra il cosiddetto asse del Nord e gli alleati An e Udc, ma ha sostanzialmente mostrato che la Lega vuole mantenere l’attuale equilibrio interno e proteggere il premier da una riedizione primaverile dello scontro che condusse al dimissionamento di Giulio Tremonti.
    Non la pensano così i centristi, che pure non sembrano voler arrivare a un rimpasto. Il capogruppo alla Camera, Luca Volontè, utilizza la metafora calcistica e dice al Foglio che: “non si può cambiare la squadra a pochi minuti dalla fine di una partita”.
    Se non la squadra, l’Udc vuole modificare lo schema, continua Volontè, “che dovrebbe portare Berlusconi a salvare il centrodestra dal fallimento e riconquistare la fiducia dell’elettorato entro fine legislatura”. Come? “Riordinando le priorità. Varando prima possibile il decreto sulla competitività, chiudendo il contratto del pubblico impiego e lavorando da subito ai contenuti del Dpef”.
    Quel che chiede l’Udc, lo vogliono anche i finiani e si tratta di un riposizionamento della politica economica. Per Ignazio La Russa, vice coordinatore di An, “bisogna ripartire dalle necessità del meridione e del ceto medio più penalizzato, nostro blocco sociale di riferimento, con un interventismo statale non assistenziale, ma medicale”.
    Quanto alla questione più importante, immaginare una prospettiva politica per il centrodestra in difficoltà, La Russa individua nella “comunicazione differenziata e competitiva” da parte dei partiti un errore da non ripetere se si vuole andare avanti: “Non è possibile – dice – far passare la devolution come un successo della Lega maturato con il solo benestare di Forza Italia e malgrado l’opposizione di Roma ladrona. Con il risultato che al Sud ha prevalso contro tutti noi la propaganda del centrosinistra”.
    Sull’effetto che la devolution ha provocato negli elettori del sud si incardina una constatazione pesante: il problema attuale è la Lega, da cui An vorrebbe in futuro “una chiarezza pubblica nella linea di condotta: che decida se stare interamente nella coalizione, sopportandone le responsabilità collegiali, oppure stabilisca che non fa parte della Casa delle libertà ma con questa fa accordi elettorali e basta”.
    Una prospettiva di coerenza personale, ma politicamente isolata e al limite del gesto estremo, è quella di Bruno Tabacci dell’Udc, presidente della commissione Attività produttive della Camera. Tabacci considera “chiusa la stagione della genialità immaginifica berlusconiana che si è saldata con il protagonismo localistico della Lega”. Da questa “esigenza di ritornare alla politica esprimendo una nuova classe dirigente che sia politica davvero”, Tabacci deduce drasticamente che “Forza Italia ha dimostrato di non essere un partito, mentre da Alleanza nazionale e dall’Udc può provenire una alternativa all’attuale difficoltà”.
    Più esplicitamente, secondo Tabacci la soluzione unica consisterebbe in “un cambio di leadership e nell’edificazione di un centrodestra con una dimensione nazionale”.
    Tradotto – e associato alla volontà da parte di Tabacci di bloccare il percorso parlamentare della riforma costituzionale – il ragionamento del dirigente centrista esprime la volontà di lavorare per un centrodestra senza Cav. e senza Lega. Questa la prospettiva.“ Ma non sono ottimista”, conclude.

    Il Foglio del 7 aprile

    saluti

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    Predefinito Il post vittoria

    Roma. “Economia, economia, economia, economia, economia”. Per cinque volte di fila. Rispondono così i collaboratori di Fassino quando gli chiedono su quale fronte occorre muoversi da qui alle elezioni per mettere in difficoltà il Cav. e per accentuare le crepe nella maggioranza. “Batteremo e batteremo sui fallimenti economici, la vita quotidiana delle persone in carne e ossa”. Anche se, aggiungono a via Nazionale, “staremo pure attenti a non dare una visione catastrofica, ma solo quella di un grande paese mortificato al quale proponiamo una nuova classe dirigente”.
    Ma ovviamente non ci sarà solo l’economia. Quella che l’Unione sta mettendo a punto, è una strategia su più fronti rispetto al centrodestra, praticamente tutti quelli che mostrano crepe politiche.
    Per questo, dice un dirigente dei Ds, “accantonate la battaglie dell’antiberlusconismo più folcloristico, che non funzionano”, al centro dell’azione ci saranno alcuni temi.
    Intanto, la riforma costituzionale, con la devolution. Ieri, dopo la segreteria diessina, è stato pubblicamente pronunciato “uno stop al progetto di sfregio della Costituzione”. Su questo fronte, il centrosinistra pensa di poter contare su tre punti di appoggio: la sfrangiamento interno della maggioranza, tra asse del Nord forzista-leghista da una parte e Fini e Follini dall’altro;
    il consolidamento nel meridione, dove l’allarme per la devolution fa molta presa; il collegamento con alcune forti élite del settentrione, a cominciare dal Corriere della Sera, che sul tema delle riforme ha lanciato a qualche giorno dal voto l’allarme con un editoriale di Ernesto Galli della Loggia e che ieri, non a caso, ospitava un’intervista a Walter Veltroni sullo stesso argomento: “La devolution va bloccata”.
    Ci sono poi questioni come par condicio e Rai. Anche qui, a poche ore dal voto, i toni si sono di colpo alzati. I Ds invitano apertamente il direttore generale Cattaneo “a fare le valigie”, per quanto riguarda la par condicio è noto che il Cav. vorrebbe modificarla, ma è altrettanto noto che alcuni dei suoi alleati (Udc in testa) non ne vogliono sapere.
    E un altro stop che il centrosinistra vorrebbe dare alla riforma della legge elettorale. La strategia è chiara: una maggioranza a sovranità limitata.
    Spiega Pierluigi Bersani: “Metteremo il coltello nella piaga. Berlusconi non funziona. Sperano di potersene liberare, sanno di non potersene liberare”. Ma avverte, il responsabile economico dei Ds che “per mettere in serio imbarazzo la maggioranza bisogna anche fare proposte”.
    In campo economico, ad esempio, dice che “riproporremo il piano d’azione parlamentare per l’industria e le attività produttive presentato tre anni fa”.
    Pure Peppino Caldarola cita legge elettorale, par condicio, “convincere il centrodestra a rinviare alla prossima legislatura il tema delle riforme, magari a un’assemblea costituente”, poi le grandi questioni di economia. E “mettere da parte tutte le antiche battaglie antiberlusconiane che non appassionano gli italiani”. Stringere la maggioranza, magari paralizzarla, ma senza mostrare estremismo.
    “Il centrosinistra – è la parola d’ordine – come pacificatore. Berlusconi è la febbre, noi ci mettiamo l’aspirina”.
    Un altro diessino dalemiano, il calabrese Marco Minniti, cita l’economia e la devolution, “un suicidio per il centrodestra approvarla a pochi giorni dal voto”, ma rispetto agli altri aggiunge la sicurezza, “i delitti sono aumentati, il bacino elettorale della destra tra le forze dell’ordine non regge”. La mette così, Minniti: “Da oggi in poi non si gioca più in contropiede. Ora dobbiamo fare noi la partita”.
    Voci e analisi che si sentono, più o meno identiche, in tutti i partiti dell’opposizione. Certo, ognuno aggiunge qualcosa. Per esempio, il capogruppo di Rifondazione, Franco Giordano, inserisce “il tema fondamentale della pace, maggioritario tra gli italiani”. Il capo dei deputati della Margherita, Pierluigi Castagnetti, si attarda sulla manovra a tenaglia sul centrodestra, “innanzi tutto la riforma costituzionale”, e tira un respiro rispetto alle possibili divisioni nel centrosinistra. “Il risultato elettorale – spiega – ha visto crescere la Margherita sopra il 10 per cento e i Ds rimasti sotto il 20 per cento. E ora la sindrome del padrone della coalizione e la sindrome del subordinato sono state in qualche modo assorbite dal risultato”.
    Un altro popolare come Gerardo Bianco mette pure l’accento, prima che sulle tematiche economiche, sull’assetto “costituzionale del paese”. Così come fa pure Enzo Bianco. Che aggiunge:
    “Anche noi dobbiamo lavorare per rafforzare la nostra unione sulle grandi questioni. Non basta l’unità politica, ma ci vogliono passi in avanti per l’unità programmatica. A Berlusconi ci pensa già Berlusconi. Noi pensiamo a noi”.
    Ma alla fine, come avverte il socialista Roberto Villetti, “per noi non c’è che una sola questione principale: la politica economica. Ed è inutile continuare a girarci intorno”.

    Su il Foglio del 7 aprile

    saluti

  10. #10
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    Predefinito Cosa capita agli altri

    L’amico Tony fa così

    Londra. Il premier inglese, Tony Blair, ha indetto le elezioni per il 5 maggio e sciolto le Camere: ha a disposizione 28 giorni per convincere i suoi elettori a fargli raggiungere quel record che mai, nella storia britannica, un premier laburista ha ottenuto: il terzo mandato consecutivo. Dall’elezione nel 2001 a oggi, il suo consenso è crollato da circa il 65 per cento (come nel ’97) al 35. Negli ultimi mesi l’opposizione di destra, i Tory, e di centro, i Lib-Dems, hanno rosicchiato il vantaggio del Labour: secondo un sondaggio del Financial Times, conservatori e laburisti sono appaiati – con uno scarto dell’1 per cento – e in un’altra indagine, tra gli elettori “decisi a votare in ogni caso”, i Tory battono il Labour 39 a 34 per cento.
    Il partito di Michael Howard ha puntato sulla brutta congiuntura sociale, determinata dal caos nella gestione dell’immigrazione e dagli sprechi per quel che riguarda la spesa pubblica. I Lib-Dems –in teoria partito di centro – sono più vicini alla sinistra tradizionale continentale su quasi tutte le “issue”, compresa la ferma opposizione alla guerra in Iraq, che ha visto una forte emorragia degli elettori laburisti pacifisti verso l’ambiguo partito “borghese ma hippy” diretto da Charles Kennedy. Dopo lo scandalo dei dossier sulle armi di distruzione di massa, il suicidio di David Kelly, la lotta fra la Bbc anti laburista e lo “spin doctor” Alastair Campbell, le relazioni di Lord Hutton e di Lord Butler, l’immagine di Blair è più offuscata.
    “Getting Blair out”, sfrattare il premier da Downing Street, è diventato uno slogan ricorrente.
    Già l’anno scorso, alle elezioni regionali, amministrative ed europee – tutte svoltesi nello stesso giorno – gli elettori avevano punito il governo, offrendo una bella maggioranza ai Tory, sia nelle contee del regno sia al Parlamento europeo. Consapevoli dei sentimenti dell’opinione pubblica, i “campaign manager” laburisti hanno così messo a punto una strategia elettorale strutturata su tre pilastri, con l’ambizioso obiettivo di recuperare in poche settimane ciò che il governo ha perso in qualche anno.
    Pilastro numero uno: “The masochist strategy”. Consiste nell’esporre un contrito Blair in maniche di camicia, in mezzo a un pubblico ostile, subissato di domande difficili e di dichiarazioni critiche (in alcune di queste manifestazioni “autolesioniste”, il premier è stato più volte vicino all’aggressione fisica di elettori inferociti). In questo modo il pubblico può sfogare la sua rabbia prima di andare alle urne per poi – sostengono gli “election guru” – perdonare il premier, come si fa con un amico pentito.
    Pilastro numero due: focalizzarsi su un’idea. Gli analisti politici considerano “molto azzeccata” la scelta di concentrare gli sforzi della campagna solo sulla gestione –riuscita – dell’economia nazionale negli ultimi otto anni. Il corollario, tra le righe, è il pericolo che i britannici correrebbero se decidessero di (ri)offrire le redini dell’economia ai Tory, dopo tanto tempo all’opposizione.
    E’ di certo una scelta rischiosa, visto che lo stesso Blair ha detto: “I Tory sono sempre stati considerati il partito della gestione economica stabile”, ma serve a sottolineare che ormai sono diventati i laburisti “il partito della stabilità economica”. Pilastro numero tre: focalizzarsi su una piccola fetta d’elettorato. Secondo uno studio dettagliato, le energie della propaganda si devono concentrare su 800 mila persone, individuate e vivisezionate dai complessi programmi informativi a disposizione del quartier generale della campagna laburista, scelti tra i milioni di elettori ancora indecisi residenti nei collegi elettorali più a rischio in entrambe le direzioni.
    Ieri è cominciata una massiccia campagna telefonica automatizzata che, malgrado non sia consentita dalla legge elettorale, bombarderà questi 800 mila superselezionati giorno e notte, a ripetizione, con chiamate da parte di voci registrate. Pare che questa strategia abbia funzionato a meraviglia negli Stati Uniti: ora Blair spera che abbia successo anche nella vecchia Inghilterra e gli permetta di ricreare quell’emozione che, nel 1997, aveva consacrato la sua abilità politica.

    Su il Foglio del 7 aprile

    saluti

 

 
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