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    "Solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale" Marx-Engels

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    Frantz Fanon

    Scritti politici - volume II

    L’anno V della rivoluzione algerina

    Prefazione di Robert J.C. Young e Françoise Vergès; Postfazione di Nigel C. Gibson
    pagg. 192 €17
    Muntzer il Sopravvissuto

  2. #12
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    Emilio Quadrelli

    Gabbie metropolitane

    Modelli disciplinari e strategie di resistenza
    pagg. 304 €17
    Muntzer il Sopravvissuto

  3. #13
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    Emilio Quadrelli

    Andare ai resti

    Banditi, rapinatori, guerriglieri nell'Italia degli anni Settanta
    pagg. 336 €17.5
    Muntzer il Sopravvissuto

  4. #14
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    Gramsci e la rivoluzione necessaria
    di Raul Mordenti
    Muntzer il Sopravvissuto

  5. #15
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    Jan Rehmann

    Recensione di Antonio Ramirez

    Odradek Edizioni, 2009 – euro 20,00 – pp. 235.


    L’autore di questo scritto, Jan Rehmann, insegna Teoria sociale alla Union Theological Seminary di New York e Filosofia alla Libera Università di Berlino, e come la stragrande maggioranza degli studiosi seri è conosciuto in un circolo di specialisti del settore. I Nietzschiani di sinistra tuttavia si presta ad una lettura in grado di coinvolgere anche il grande pubblico, sia per lo stile preciso e sintetico, sia per l’importanza’sociale’ oltre che accademica, del contenuto del suo lavoro.
    Il sottotitolo, “Deleuze, Foucault e il postmodernismo: una decostruzione”, sembrerebbe indicare un ambito di ricerca estraneo alle preoccupazioni quotidiane gravanti su ognuno di noi, ma non è così: la tendenza postmoderna a non focalizzare seriamente sui fattori determinanti la nostra esistenza non elimina la loro influenza ma anzi la rende ancora più invadente. Rehmann, partendo da una analisi certamente filosofica, richiama ad una interrogazione che interessa l’intera società nei suoi processi più profondi.
    Stefano G. Azzarà, studioso serio e traduttore dell’edizione italiana, presenta il libro in una stimolante introduzione cogliendo in maniera puntuale proprio questo aspetto. L’uso fatto da Nietzsche in Italia, specialmente dopo il ’68, non può essere meramente risolto nelle mura di un dibattito universitario fra eruditi, perché ha creato delle ripercussioni nella società civile di cui a tutt’oggi si pagano gli effetti. Persino chi non ha letto Nietzsche, o l’ha fatto senza approfondire, ne ha subito il fascino indiscusso, trasformandolo in una icona politica del ribellismo di sinistra.
    Ma la lettura di Nietzsche consente veramente la sua elevazione a simbolo della sinistra rivoluzionaria? Il fallimento, o per lo meno il forte ridimensionamento dei risultati ottenuti dal movimento sessantottino, spinge a chiedersi se questa debacle fosse già implicita anche e soprattutto nell’uso inappropriato del pensiero del filosofo tedesco.
    Ciò che evidenzia Azzarà, e naturalmente Rehmann nell’intero suo studio, è indiscutibilmente l’aspetto reazionario di un pensiero postmoderno disinteressato alla analisi rigorosa e dialettica della società. “E’ possibile ricostruire una teoria filosofica e politica di sinistra a partire da Nietzsche?”
    La risposta dell’autore evidenzia due aspetti fondamentali: il ribellismo di sinistra e il tentativo di andare oltre il marxismo per approdare ad una filosofia della differenza non produce nessuna liberazione, ma anzi crea un indistinto magma di forze tutte allo stesso livello, quindi solidali con il potere costituito; il confronto diretto delle opere di Nietzsche e dei migliori strumenti critici offerti dagli studiosi del pensiero nietzschiano (come Losurdo), dimostra che la sconfitta era prevedibile perché l’arbitrarietà dei pensatori francesi, così ambigua e sommaria, esprime una debolezza i cui effetti inevitabilmente vanno a minare le basi su cui fondare una teoria del cambiamento sociale.
    Il pensiero di Nietzsche, sottoposto alla seria critica filologica, avvalora indiscutibilmente una volontà aristocratica il cui odio per il socialismo, le masse, la democrazia non trova eguali nella storia del pensiero reazionario.
    Come possiamo notare, l’uso politico di Nietzsche, seppure a sinistra e tralasciando per un attimo la legittimità di una scorretta esegesi, conserva inevitabilmente i batteri dell’aristocratismo e veicola qualsiasi rivolta – seppur in buona fede – ad un epilogo dai tristi contorni.
    Nel suo bel libro Rehmann offre al lettore la possibilità di interrogarsi su ciò che Nietzsche abbia realmente voluto dire, e sulla operazione di travisamento – voluta e cercata – compiuta da Deleuze e specialmente da Foucault.
    Dentro “I nietzscheani di sinistra” – Jan Rehmann
    (Odradek Edizioni, 2009 – euro 20,00 – pp. 235.) di Antonio Ramirez

    “Rehmann mostra come questi discorsi [dei filosofi della Gauche] siano ben poco fondati in una lettura rigorosa dei testi nietzschiani e soprattutto, lungi dal costruire il presupposto per un rinnovamento della critica del dominio e della società capitalistica, siano del tutto solidali con l’offensiva ideologica neoliberale e le sue concrete pratiche di sottomissione politica e sociale”.
    Siffatte parole esprimono perfettamente l’obiettivo dell’autore, ovvero smascherare l’aspetto conservatore e fondamentalmente disimpegnato della cultura postmoderna di ispirazione nietzschiana. Ma quali sono, secondo Rehmann, i capisaldi di un tale fraintendimento? Dove si annida il ‘misunderstanding’?
    I concetti ‘pathos della distanza’ e di ‘differenza’ – ereditati da una rilettura della volontà di potenza e dalla distanza schiavo-padrone in Nietzsche - evidenziano palesemente questa confusione. Lungi da essere strumenti di liberazione ed emancipazione, essi si riducono a metafora di espressioni nietzschiane la cui valenza è contraria a qualsiasi obiettivo democratico.
    La differenziazione si riduce ad una inutile presa d’atto dell’esistente, e nega il valore di ogni negazione determinata, dialettica, in un contesto emancipatorio dai connotati storici. Un altro grande torto che si compie infatti nell’ambito delle filosofie sottoposte qui a giudizio è la banalizzazione della storia e delle istanze in essa presenti.
    D’altra parte, osserva ironicamente Rehmann, è da questi filosofi esplicitamente dichiarata la volontà di trasformare, manipolare, “usare” Nietzsche a seconda delle esigenze, che sembrano in definitiva rivolte alla distruzione della dialettica ed al superamento del marxismo.
    La prima parte del libro è dedicata a Deleuze, ed è notevole non soltanto la padronanza degli argomenti dell’autore ma anche la perfetta disposizione stilistica dei contenuti, mentre la seconda, su Foucault, è più articolata ma ugualmente imponente per l’acutezza dell’analisi e delle prove a sostegno. Tale frammentarietà non è da considerarsi un difetto ma la conseguenza della intera analisi del pensiero foucaultiano, certamente complesso e flessibile.
    I nietzschiani di sinistra propone in definitiva una analisi intelligente e pertinente di una tendenza filosofica la cui importanza va oltre il semplice ambito accademico perché, come su descritto, è arrivata a influenzare persino gli striscioni degli studenti universitari in rivolta. Rehmann ed il suo lavoro meritano una attenzione particolare per la vivacità della prosa, la pertinenza delle risposte ed infine va ringraziato per la cura dell’impianto bibliografico da cui si può partire per una ricerca autonoma delle fonti e degli argomenti citati.
    La fine delle grandi narrazioni, il superamento della metafisica verso un futuro dalle magnifiche sorti proclamato con enfasi negli anni passati – osserva Rehmann – non ha lasciato altro che macerie: un fallimento dovuto alla mancanza di approfondimento, di attenzione filologica, di narcisismo intellettuale dal quale questo libro ed il suo autore sono indiscutibilmente emendati.
    Muntzer il Sopravvissuto

  6. #16
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    Editore Graphos

    Autore Serge Thion
    Autori N. Chomsky, N. Giladi, I. Yinon, A. Weinstein

    Anno 2004


    “Sul terrorismo israeliano”


    È difficile che passi giorno senza che si sia invitati a ricordare che, oltre all?America di Bush, di Cheney, di Rumsfeld, di Abu Ghraib e di Guantanamo, delle multinazionali vampiresche, delle mille e mille nefandezze perpetrate in ogni angolo della terra, c'è un'altra America che non si rassegna, che protesta, che si oppone. È vero. è altrettanto vero che lo stesso non si può dire di Israele, se non con molte riserve. Si obietterà: ma come, non c'è anche là gente che non si rassegna, che protesta, che si oppone? Forse che per popolare il paese sono stati clonati in milioni di esemplari quei figuri con il loro grifo immondo, perfetta incarnazione della politica che perseguono? No, non sono certo cloni quelli che adesso abitano la Palestina. E quei dissenzienti, quelle coscienze che si rivoltano, anche se in numero limitatissimo, salvano l'onore del loro popolo. Sappiamo perfettamente che tra il refusenik e Ariel Sharon passa un'incommensurabile differenza. Il punto, tuttavia, non è questo. Il punto è che, almeno da un punto di vista, il refusenik e Sharon sono sul medesimo piano: l'uno e l'altro stanno là dove non dovrebbero stare. Tutto considerato, questo non si può dire della popolazione statunitense. L'estirpazione dei pellirosse fu qualcosa di abietto, nessun dubbio su ciò, ma è un fatto che questo qualcosa fu l'irreparabile rovina di un'etnia cui possiamo, sì, guardare con ammirazione e con rimpianto, ma che, per i suoi modi di vita sociale, rimaneva pur sempre attardata in una lontana preistoria. Il genocidio dei pellirosse non perciò riesce meno ripugnante, ma fu parte di un processo assai più vasto del quale in via obiettiva non si può negare il carattere di progressività storica. Se il refusenik israeliano e Sharon stanno là dove non dovrebbero stare, ciò accade invece come risultato di una politica che era, nonostante il suo mascheramento in senso socialista, storicamente reazionaria nella premessa da cui partiva ? l'inconsistente interpretazione dell'ebraismo come nazionalità. L'attuazione di tale politica -perseguita per decenni, molto prima di Sharon, con l?inganno, il ricatto, la prepotenza, la violenza, l'oppressione, e sempre in un'atmosfera di intollerabile ipocrisia- ha implicato come conseguenza necessaria e puntualmente prevista una guerra di stampo razziale e la catastrofe di quella che era, e in qualche misura rimane ancora oggi, la frazione del popolo arabo più laica, dunque più refrattaria alle suggestioni del fondamentalismo religioso. Il perseguimento della linea suddetta è stato reso possibile, specialmente dopo la guerra del 1967, solo dalla capacità dell'ebraismo americano, il più numeroso del mondo, di condizionare, grazie al proprio ingentissimo peso economico e sociale, la politica di Washington. Altrettanto efficaci sono state la multiforme rete protettiva stesa intorno allo Stato sionista dalle comunità ebraiche del mondo intero, e -elemento essenziale, ieri e oggi, di manipolazione dell'opinione pubblica- l'aureola di intoccabilità creata intorno all'ebraismo dall'imposizione come indiscutibile verità storica (con la complicità, per quanto riguarda il proletariato, delle socialdemocrazie e dallo stalinismo) di una visione radicalmente falsata dei fini, delle modalità e dei costi umani dell'infame persecuzione di cui si macchiò l'antisemitismo hitleriano. Oggi, in Europa e fuori d'Europa, un'opinione pubblica esente nella sua grande maggioranza da ogni preconcetta ostilità al sionismo è, giorno dopo giorno, indotta a chiedersi in che cosa la condizione del popolo palestinese sia diversa da quella dei polacchi sotto il tallone di ferro del nazismo.
    Muntzer il Sopravvissuto

  7. #17
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    Amadeo Bordiga

    Mai la merce sfamerà l'uomo
    La questione agraria e la teoria della rendita fondiaria secondo Marx

    introduzione e cura di Rita Caramis

    pp. LVI-286 € 24,00

    «Più il capitalismo dissoda ed incivilisce, più costruisce […] la fame. Eppure occorre che dissodi.»


    La teoria della rendita di Marx «vale a stabilire in modo irrevocabile la limitatezza storica della maniera capitalistica di sciogliere il rapporto tra produzione e consumo delle collettività umane […] le necessità alimentari di queste non saranno mai risolte dal processo dell’accumulazione del capitale, per quanto possa procedere la tecnica, la composizione organica del capitale, la massa di prodotti ottenibili dallo stesso tempo di lavoro. Necessariamente al moderno antagonismo di classi sociali corrisponde la formazione di sopraprofitti, il nascere di rendite assolute, l’anarchia e lo sperpero nella produzione sociale. La equazione capitalismo uguale fame è irrevocabilmente stabilita. […] Per quanto la sfera della produzione degli alimenti sia fondamentale nella dinamica di ogni società, la teoria marxiana della rendita è parte centrale della descrizione del modo di produzione capitalista: diremo che ne è dal punto di vista rivoluzionario e antipossibilista la parte decisiva.»


    Dal risvolto:

    « Questo testo, uno dei pochi che circola con il nome del suo autore – che ha sempre propugnato l’anonimato nella pubblicistica – è anche quello che maggiormente può rappresentare il suo pensiero, integrando momenti teorici e politici, ma soprattutto entrando nel cuore della critica dell’economia politica marxiana. Il testo risulta inoltre di straordinaria attualità perché valorizza la centralità della teoria della rendita che soltanto la recente, inaspettata e devastante crisi energetica ha riproposto come ineludibile. Il meccanismo infernale dello sviluppo capitalistico trova così nella terra e nella rendita un limite invalicabile – un limite naturale, fisico – che non può essere aggirato da nessuna politica e da nessuna guerra: perché, comunque, il prezzo delle merci necessarie fornite dalla terra (cibo ed energia) è destinato a crescere. Sono qui anticipate le tematiche dell’ambientalismo e sorprendentemente difesi i “diritti della Terra” in maniera certamente né occasionale né contingente, individuando l'intreccio sempre meno districabile tra crisi del sistema economico e crisi ambientale. Se il nocciolo teorico è duro, in compenso lo stile è diretto e frizzante, ironico e arguto, alieno da tecnicismi, e ricco di riferimenti alla vita quotidiana.»

    AMADEO BORDIGA (1889-1970), promotore della scissione di Livorno e della fondazione del Partito Comunista d’Italia, è stato alla guida del PCd’I dal gennaio 1921 all’autunno 1923; nel 1920 a Mosca, concorre all’organizzazione della Terza
    Internazionale. Oppositore del regime fascista, viene arrestato nel 1923 e confinato dal 1926 al 1929. Dopo la sconfitta della “sinistra” al Congresso di Lione del 1926, viene espulso dal partito nel 1930. Accanto all’attività professionale di ingegnere edile, attento a tematiche sociali ed “ecologiche”, si dedicherà a un intenso lavoro teorico e poi pubblicistico. Profondo conoscitore e interprete della teoria marxiana come strumento scientifico e fondamento del programma comunista, dal 1945 al 1952 contribuisce al Partito comunista internazionalista (dal 1965 Partito comunista internazionale).

    Nota editoriale a Mai la merce sfamerà l'uomo

    L’uscita di questo libro cade quando la più grave crisi capitalistica, a far tempo da quella del 1929, si mostra con una forza tale da non poter essere più negata. Crisi sistemica, con ogni evidenza; una crisi finanziaria, innescatasi però a partire dalla crisi energetica che ha fatto impennare il prezzo del petrolio, cioè di una merce non riproducibile capitalisticamente il cui prezzo entra, direttamente o indirettamente, nel prezzo di tutte le altre merci – proprio come il prezzo della forza lavoro – ma nel cui prezzo la rendita rappresenta un limite che non dipende, o dipende poco, dalla concorrenza.
    Mai la merce sfamerà l’uomo ha un sottotitolo “pesante”, inequivoco e sorprendente non solo per coloro che si rifanno a una delle tante vulgate del marxismo, ma anche per i molti che, magari filologicamente e approfonditamente, si sono applicati allo studio del marxismo senza mai giungere al cuore della teoria, custodita nella sesta sezione del III libro del Capitale, probabilmente supponendo che lì si trattasse, per “dovere” di completezza, di un aspetto della materia economica – nonostante i due metri cubi di appunti del Nachlass sull’agricoltura in Russia, nonostante Marx abbia dedicato all’agricoltura (e alle miniere) più pagine di quante abbia dedicate all’industria.
    Ora, per spezzare l’asintoto che spinge verso la fine senza che mai la si possa raggiungere, per rompere questa specie di muro di gomma che respinge e protegge quanto pur di risolutivo è contenuto nelle pagine finali dell’opera, è necessario “cominciare dalla fine”, a partire anche dalla circostanza che il III libro è stato scritto anteriormente al primo. È ciò che fa Bordiga, o per lo meno tratta della rendita, in quanto parte significativa del prezzo delle derrate alimentari e quindi del prezzo della forza lavoro.
    Insomma, nel momento in cui lo sviluppo storico dei rapporti di produzione conduce il lavoro a una forma completamente estraniata (si produce non per sé ma per il mercato) – “la forma delle condizioni di lavoro estraniata dal lavoro, resa autonoma nei suoi confronti e così trasmutata” – ecco, in un momento storico così particolare, tutto si estrania personificandosi: così come i prodotti del lavoro umano divenuti merci diventano una potenza autonoma nei confronti dei produttori, anche la terra si personifica nel proprietario terriero, il capitale nel capitalista, il lavoro nel lavoratore salariato, e tutto appare come naturale.
    L’esempio lampante e chiarificatore è proprio quello offerto dalla terra: «... così che non è la terra che riceve la parte del prodotto che le spetta a sostituzione e incremento della sua produttività, ma è il proprietario fondiario che ottiene, al suo posto, una parte di questo prodotto per sperperarla e dissiparla», Il Capitale, III, p. 938. Occorre sottolineare due aspetti: i. uno spunto “verde”, da ambientalista ante litteram, ripreso peraltro in altre parti della sesta sezione; in due righe è contenuto il nocciolo del discorso sull’“ambiente”, più che in tanti libri messi insieme: la parte di plusprodotto appropriata dalla rendita, che in rapporti di produzione più evoluti e non capitalistici andrebbe a sanare il depauperamento della terra (sia con investimenti diretti, sia, indirettamente, studiando tecniche meno distruttive), viene invece spesa improduttivamente (in merci di lusso, prodotte capitalisticamente) per riprodurre il presente rapporto di produzione, attraverso la riproduzione di una delle due classi proprietarie; e ii. il presupposto che il vero fondamento di una critica alla rendita non è la notazione moralistica per la quale c’è chi non produce eppure consuma, ma appunto quella per cui, per riprodurre l’attuale società – di cui la rendita è uno dei tre elementi fondamentali: la rendita capitalistica, appunto – non si esita ad incrementare la distruzione dell’ambiente perseguendo comunque e sempre la valorizzazione del capitale (deforestando, cementificando, consumando, come merci, beni non riproducibili).
    Rilevante è il continuo riferimento di Marx al “globo terrestre monopolizzato”, punto d’arrivo di un processo, che si compie giusto nell’Ottocento, di un processo che vede l’appropriazione privata di tutta la terra disponibile nel pianeta. Proprio quando i socialisti si limitavano a manifestare la loro insofferenza nei confronti della rendita considerata un retaggio di passati modi di produzione – da appropriare e redistribuire: ai poveri? ai funzionari? all’industria? –, Marx ne coglie la trasformazione in senso capitalistico, la sua cooptazione e sussunzione: questo è il senso dell’insistenza sul “globo terrestre monopolizzato”. Insomma, non c’era poi tutto questo bisogno di scrivere qualche migliaio di pagine a stampa per convincere e convincersi che una classe sfrutta il lavoro di una seconda mentre una terza si riproduce consumando parte della ricchezza prodotta in concorso tra le prime due senza nemmeno partecipare alla produzione.
    Tutto ciò acquista dignità di problema scientifico quando si voglia invece esibire la “razionalità” complessiva del sistema dei rapporti sociali; quando si voglia misurare la ricchezza prodotta sulla base dello sfruttamento (grandezza a sua volta misurabile), non solo, e si pretenda, una volta conosciute le condizioni di produzione (la composizione del capitale impiegato), si pretenda di individuare le condizioni della riproduzione, ossia la quantità e la qualità dei redditi nei quali si scompone la ricchezza prodotta, una volta reintegrate le quote di ammortamento del capitale.
    Altro che «eutanasia del rentier». A partire dal concetto stesso di “sistema organico”, ancorché capovolto, il rentier, lungi dal lasciarsi morire, più o meno dolcemente, viene addirittura evocato e posto in essere anche là dove non esisteva la proprietà della terra. In Marx non c’è “eutanasia del rentier”, ma la continua ridefinizione e ricollocazione della rendita a partire dalla prima sua trasformazione: da appropriazione del pluslavoro (come corvée) e del plusprodotto (come decima) ad appropriazione di parte del plusvalore, come rendita capitalistica, sotto forma di denaro. Macchina perenne il capitale per il capitalista per estorcere pluslavoro, ma calamita perenne la terra per il proprietario fondiario per attrarre parte del plusvalore estorto. Perché il capitale non è solo una pompa di plusvalore; è anche la riproduzione della società che storicamente e peculiarmente si poggia sull’estrazione del plusvalore.
    In uno dei tanti indici del terzo libro con i quali Marx cercava di sistemare la materia, come terza sezione del III libro, compariva proprio la trattazione della rendita, al posto della caduta tendenziale del saggio di profitto. Forse questa successione avrebbe esibito con maggiore evidenza il rapporto tra profitto e rendita, e meglio reso la centralità della teoria degli extraprofitti come determinazione immediata e pratica della teoria del valore. Già, perché la teoria del valore, di per sé, non mette capo che a banali volgarizzazioni di tipo socialistico, che depotenziano e addirittura obliterano il ruolo della rendita, e quindi fingono una realtà capitalistica tanto semplice quanto falsa. La difficoltà di comprendere la rendita non è solo politica, bensì quella di coglierla all’interno di una teoria generale degli extraprofitti che considera, insieme, gli extraprofitti appropriati dal capitalista e che entrano nella determinazione del prezzo di produzione come media; e quelli appropriati dai proprietari della terra sotto forma di rendita, e sottratti agli imprenditori affittuari che pure ne hanno determinato le condizioni.
    Lo sviluppo di questo rapporto determina, comunque, che la massa assoluta della rendita tende ad accrescersi addirittura più che proporzionalmente nei confronti del profitto industriale, manifestandosi, quindi come il vero limite al movimento del capitale.
    Amadeo Bordiga, il dogmatico – in realtà critico nei confronti degli eterni stupefatti – conclude questo scritto avvertendo che non è un libro per professori, ai quali, anzi, augura di penzolare: Professeurs, à la lanterne! Anche se la sua lettura, in extremis, non sarebbe loro inutile.

    Claudio Del Bello
    Muntzer il Sopravvissuto

  8. #18
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    Aa.Vv.
    Stalinismo e Grande terrore

    introduzione e cura di Marco Clementi

    Saggi di: E. Dundovich, I. Flige, M. Talalay,
    P. Cioni, A. Salomoni, B. Mantelli,
    T. Kosynova, M. Clementi, V. Lomellini

    pp. 185 € 18,00



    Il Grande terrore, come viene chiamato il periodo repressivo che tra il 1937 e il 1938 si abbatté sull’Unione Sovietica, contribuì al consolidamento del regime staliniano e alla definitiva trasformazione del paese, che negli anni Trenta si modernizzò, pagando un prezzo molto alto in termini demografici e sociali. Alla vigilia della seconda guerra mondiale il regime aveva ormai raggiunto una certa stabilità, mentre il Partito comunista aveva accolto una nuova generazione di militanti, divenendo uno strumento di controllo e di governo nelle mani dell’entourage di Stalin. Accanto al partito, il GULag giocò un ruolo importante in questo processo, contribuendo all’estensione del controllo politico sull’intera società. Al suo interno finirono per transitare milioni di sovietici e decine di migliaia di cittadini stranieri, giunti in Russia per i motivi più diversi, ma uniti dalla comune idea di poter contribuire alla costruzione del socialismo. Alcuni di questi esuli, tra cui un centinaio di italiani, pagarono con la vita le proprie posizioni politiche del passato, che il commissariato agli Interni sovietico registrava e conservava con scrupolo. Al contrario di quanto si può comunemente pensare, però, il terrore non fu diretto in modo particolare contro il partito e i comunisti “eretici” (o trockisti, l’accusa allora più comune), ma verso la società nel suo insieme, eliminando e colpendo cittadini di ogni estrazione e posizione. Intere famiglie furono così distrutte, sia fisicamente, sia attraverso gli anni trascorsi nel lager, ai quali si aggiunse, dopo la liberazione, l’oblio. Di quelle vicende si tacque per decenni e si sarebbe tornato a parlarne ufficialmente solo negli anni Ottanta del secolo scorso, dopo il timido tentativo compiuto all’indomani XX Congresso del Pcus nel 1956.


    Che cosa, dunque, ha caratterizzato il biennio del Grande terrore, e qual è oggi lo stato della memoria in Russia? A queste domande, grazie al contributo di studiosi e studiose italiani e stranieri, si è cercato di rispondere nel corso di un convegno organizzato nell’ottobre 2007 presso l’Università della Calabria. Il presente volume ne raccoglie i contributi, che affrontano temi diversi come il destino degli esuli italiani in Urss, le odierne ricerche dei segni del terrore in Russia, l’eccidio di Katyn’, la figura di Maksim Gor’kij, le ripercussioni in Urss della morte di Antonio Gramsci, avvenuta proprio nel 1937, il destino degli ebrei sovietici nel corso della seconda guerra mondiale, la situazione nei paesi baltici, la vita di un intellettuale come Grigorij Gnesin e il dibattito nel Pci sullo stalinismo negli anni Settanta.

    SOMMARIO

    Prefazione di Marco Clementi

    Elena Dundovich Le vittime italiane del Grande terrore

    Irina Flige Gli oggetti della memoria sul Grande terrore

    Michail Talalay Il caso Gnesin, spia italiana

    Paola Cioni Le sette morti di Gor’kij

    Antonella Salomoni Lo stalinismo e il diritto di cittadinanza:
    il caso ebraico

    Brunello Mantelli La storia poteva ripetersi? Il patto Molotov-Ribbentrop del 1939 e il quadro baltico del 1919

    Tat’jana Kosynova All’ombra di Katyn’. Mednoe

    Marco Clementi Le Ceneri di Gramsci

    Valentine Lomellini Memorializzazione negli anni Settanta:
    i processi quarant’anni dopo



    Gli autori

    Elena Dundovich è professoressa associata di Storia dell’Europa Orientale.
    Irina Flige è direttrice del Centro di ricerca scientifica Memorial di San Pietroburgo.
    Michail Talalay, dottore di ricerca, è membro dell’Istituto di Storia moderna e contemporanea dell’Accademica delle Scienze di Mosca.
    Paola Cioni, dottore di ricerca, collabora con l’Istituto di Storia moderna e contemporanea dell’Accademia delle Scienze di Mosca. È direttrice dell’Istituto italiano di cultura di Francoforte sul Meno.
    Antonella Salomoni è professoressa ordinaria di Storia Contemporanea all’Università della Calabria.
    Brunello Mantelli è professore associato di Storia Contemporanea all’Università di Torino.
    Tat’jana Kosynova è ricercatrice del Centro di ricerca scientifica Memorial di San Pietroburgo.
    Marco Clementi è ricercatore di Storia dell’Europa Orientale all’Università della Calabria. Da anni collabora con il Centro di ricerca scientifica Memorial di San Pietroburgo
    Valentine Lomellini è dottoranda all’IMT, Institute for Advanced Studies di Lucca.
    Marco Clementi insegna Storia dell’Europa orientale nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università della Calabria. Da anni collabora con il Centro di ricerca scientifica Memorial di San Pietroburgo.
    Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Il diritto al dissenso. Le idee costituzionali di Andrej Sacharov (Odradek 2002); Cecoslovacchia (Unicopli 2007); Storia del dissenso sovietico (Odradek 2007); Storia delle Brigate Rosse (Odradek 2007). Ha curato una raccolta di scritti dello storico russo-ucraino Nikolaj Kostomarov dal titolo Storie di Ucraina (Odradek 2008).
    Muntzer il Sopravvissuto

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    Koinè - Filosofia e politica: che fare?

    Editrice petite plaisance
    Koiné Periodico culturale
    Direttori
    Luca Grecchi - Diego Fusaro

    Anno xvi - n° 1-3 Gennaio-Giugno 2009 p. 320 e 30,00

    Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare
    qualcosa di nuovo,
    che dunque vogliano pure pensare da sé.

    KARL MARX


    Sommario

    Intenzioni


    COSTANZO PREVE, La saggezza dei Greci. Una proposta interpretativa
    radicale per sostenere l’attualità dei Greci oggi

    ANDRÉ TOSEL, I diritti dell’uomo e i livelli dell’universale.
    Aporie della mediazione

    DENIS COLLIN, Per una critica dell’economia politica

    GIACOMO PEZZANO, Filosofi(a) e politica
    (?). Breve storia di un rapporto controverso

    DOMENICO LOSURDO, I «Protocolli dei Savi dell’Islam» ovvero come si costruiscono le leggende nere

    CARMELO VIGNA, Politica e speranza

    ENRICO BERTI, Per una nuova società politica

    DIEGO FUSARO, La gabbia d’acciaio: Max Weber e il capitalismo come destino

    ERNESTO SCREPANTI, Marx e il contratto di lavoro: dall’astrazione naturale alla sussunzione formale

    MARIO VEGETTI, La filosofia e la città: processi e assoluzioni

    FRANCO TOSCANI, Speranza e utopia nel pensiero di Ernst Bloch

    FEDERICO LEONARDI, La Repubblica di Platone. Il tiranno e il filosofo:
    una affinità elettiva

    MICHELE MAROLLA, Benedetto: politica, filosofia, fede nel tempo della crisi

    ALBERTO GIOVANNI BIUSO, Oltre liberalismo e socialismo

    MARCELLO BARISON, Critica della produzione immateriale

    AUGUSTO CAVADI, La filosofia-in-pratica. Una discussione lacustre

    DONATO SPERDUTO, Agire o lasciar fluire? Emanuele Severino e Carlo Levi a confronto

    LUCA TONETTI, I filosofi e la politica: che fare? Nuova filosofia del fare: azione e riflessione nella politica di oggi

    COSTANZO PREVE, Il saggio di Luca Grecchi Occidente: radici, essenza, futuro. Un convincente esercizio di filosofia della storia

    DANIELA BENVENUTI, Il saggio di A. Sangiacomo: Scorci. Ontologia e verità
    nella filosofia del Novecento

    AUGUSTO CAVADI, Il saggio di N. Pollastri: Consulente filosofico cercasi.
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    Karl Marx, Il capitalismo e la crisi

    Scritti sceltia cura di Vladimiro Giacché
    pagg. 176 €15

    Il libro

    La crisi ha riportato Marx agli onori delle cronache. La barba del rivoluzionario di Treviri è tornata ad affacciarsi dalle prime pagine di giornali e periodici: dal «Financial Times» a «Foreign Policy», da «Le Point» al «venerdì di Repubblica». Il presidente francese Nicolas Sarkozy si è fatto fotografare mentre sfogliava Il capitale e il ministro delle finanze tedesco Steinbrück ci ha detto che «in fondo Marx non aveva tutti i torti».
    La verità è che sulla crisi attuale Marx ci dice di più di molti economisti alla moda. Può farlo perché rovescia gli assunti della teoria economica dominante. Per Marx la crisi non è un infortunio del nostro sistema economico, ma il prodotto necessario delle sue leggi di funzionamento più elementari. Del modo in cui nella nostra società sono ripartite la proprietà e la ricchezza, del modo in cui si scambiano le merci e si adopera il denaro. È questo modo radicale di affrontare il problema che rende così attuale il pensiero di Marx.

    Karl Marx
    Vladimiro Giacché (1963) si è laureato e perfezionato in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa. Lavora nel settore finanziario. È autore di volumi e saggi di argomento filosofico ed economico, fra i quali Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel (Pantograf 1990), La filosofia. Storia e testi (con G. Tognini, La Nuova Italia 1996) e Storia del Mediocredito Centrale (con P. Peluffo, Laterza 1997). Per DeriveApprodi ha pubblicato Escalation. Anatomia della guerra infinita (con A. Burgio e M. Dinucci, 2005) e La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (2008).

    un assaggio...
    Premessa

    Immaginiamo di incontrare un tipo che fa discorsi strani. Che dice che la crisi non è un’eccezione, ma la norma. Che questa crisi non è stata causata né da qualche speculatore troppo avido, né da qualche proprietario di casa troppo credulone. E neppure dalla nuova casta dei banchieri, dai governatori delle banche centrali e dagli analisti delle società di rating. E non perché tutti costoro siano innocenti, ma per un motivo più profondo. Perché la crisi non è un infortunio del nostro sistema economico, ma il prodotto delle sue leggi di funzionamento più elementari. Del modo in cui nella nostra società sono ripartite la proprietà e la ricchezza, si scambiano le merci e si adopera il denaro.
    Immaginiamo che questo tizio, sfruttando il nostro sconcerto, si faccia sempre più insolente. E affermi che la crisi non solo non è un problema per il sistema, ma è il solo modo attraverso cui il sistema può risolvere i propri problemi, e riprendere a funzionare senza intoppi. Anche se comunque il suo funzionamento regolare è soltanto una tregua, più o meno breve, prima della prossima crisi.
    Immaginiamo di superare il fastidio e l’imbarazzo, e di chiedergli chi gli dia il diritto di raccontarci tutte queste sciocchezze. E che lui ci risponda che tutto questo l’ha inteso, dimostrato e scritto in prima persona. Osservando le crisi di 150 anni fa e scrivendone su un quotidiano degli Stati Uniti, dopo essere stato espulso per attività sovversive da Germania, Belgio e Francia. E poi chiuso a studiare nella British Library di Londra, o a scrivere nella sua casa traboccante di libri e assediata dai creditori. Chiunque non dia per scontato che questo tipo sia un folle potrà trovare qualcosa di interessante in questo libro.
    Muntzer il Sopravvissuto

 

 
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