Considerazioni sulla geopolitica, sull'eurasiatismo e sul rapporto fra Turchia ed Europa
di COSTANZO PREVE

Il dibattito politico, economico e culturale in favore o contro l'ingresso della Turchia in Europa è molto vivace, ed è probabile che duri ancora a lungo. Recentemente ho letto due interventi decisamente contrari all'inserimento geopolitico ed economico della Turchia in Europa, Il primo di Maria Carotenuto (cfr. "Italicum", Gennaio-Febbraio 2005) , ed il secondo di Marco Tarchi (cfr. "Diorama Letterario", n. 268, Novembre-Dicembre 2004). In particolare l'intervento di Tarchi non è solo contrario all'ipotesi dell'ingresso turco in Europa, ma è anche estremamente critico verso ogni ipotesi eurasiatica, definita sbrigativamente una "fantasia". Vale la pena proseguire la discussione. Qui mi limiterò, per ragioni di spazio, a toccare solo tre punti. Primo, la plausibilità o meno della ipotesi geopolitica cosiddetta "eurasiatica". Secondo, l'argomento per cui la Turchia non appartiene né geograficamente né storicamente né culturalmente all'Europa, e dunque non è bene che ne faccia parte. Terzo ed ultimo, infine, l'argomento per cui nelle attuali circostanze la Turchia non sarebbe che un ulteriore cavallo di troia per l'egemonia americana sull'Europa, e quindi non è proprio il caso di fare regali alla già superpotente superpotenza che ci sovrasta. Esaminiamo questi tre punti separatamente.

I. Geopolitica ed eurasiatismo. Alcune note introduttive
Mi spiace iniziare con quello che per Gadda era il più "odioso" dei pronomi, e cioè "io", ma è bene che segnali la mia personale posizione in proposito alla cosiddetta teoria eurasiatica. Per decenni mi sono occupato quasi esclusivamente di filosofia antica, moderna e contemporanea, di marxismo e di questioni politiche dell'area definita di "estrema sinistra", e non sapevo neppure che cosa fosse la geopolitica e l'euroasiatismo. Su questi problemi il mio animale totemico era lo Struzzo, che nega semplicemente il mondo mettendo la testa sotto la sabbia. Non mene vergogno affatto, e anzi lo rivendico come un momento sensatissimo della mia vita, ma fino ai primi anni novanta ho creduto che l'utopia sociologica proletaria monoclassista fosse la sola bussola per orientarsi nelle tempeste del mondo. Sapevo vagamente che l'euroasiatismo era sostenuto da un (a me) sconosciuto nazista belga chiamato Thiriart, e questo mi bastava ed avanzava per non prenderlo nemmeno in considerazione. In quanto all'asse preferenziale Parigi-Berlino, di cui sono ora convinto sostenitore contro ogni atlantismo berlusconiano-dalemiano, mi sembrava allora fosse solo una mania si un vecchio francese provinciale superato dai tempi chiamato Charles de Grulle. Poi è arrivato il triennio 1989-1991, con la dissoluzione del baraccone sovietico. Io non ero mai stato un sostenitore filosofico-politico di questo baraccone, ed avevo per vent'anni invece sostenuto tutte le eresie marxiste che lo criticavano, dal trotzkismo europeo al maoismo cinese. Di questo non bisogna affatto stupirsi, perché ho fatto parte di quella generazione politica di "sinistra" che ha creduto alla "riformabilità" politica, economica e culturale del baraccone staliniano. Questo baraccone, ora lo sanno anche i bambini (ma allora non lo sapevano neppure i pacatissimi sovietologi a tempo pieno), non era invece riformabile, ma era in preda ad un morbo incurabile. Bene, quando questo baraccone crollò io non ne fui affatto rallegrato (a differenza dei D'Alema che sono cresciuti alla sua ombra, ed ora sconciamente ringraziano il papa polacco per averlo abbattuto), perché già dal 1991 si poteva capire che il mondo non sarebbe affatto entrato in una deriva "democratica", e tanto meno in un "paradiso dei diritti umani", ma sarebbe precipitato in una deriva "imperiale" USA, con la fine del diritto internazionale fra gli stati ed il trionfo dell'arroganza bombardatrice unipolare. Per capire una cosa così semplice non c'era nessun bisogno di Marx, ma bastava un poco di sano pensiero politico "realistico", nella tradizione di Machiavelli e di Hobbes. Poi arrivò il 1999, ed una guerra (quella contro la Jugoslavia), fu fatta senza e contro l'ONU e la costituzione italiana, in nome di un genocidio (che non c'era) e di una pulizia etnica (che non c'era). Il contenzioso storico fra serbi ed albanesi nel Kosovo (che c'era, ovviamente) si esprimeva in una guerriglia etnica di tipo secessionistico, ma il governo jugoslavo del tempo non stava assolutamente portando avanti un genocidio, e neppure una espulsione etnica. La menzogna passò, in un tripudio che vide insieme la sinistra e la destra ufficiali, il circo mediatico unificato ed infine la tribù degli intellettuali urlanti. Poi arrivò il 2003, ed una guerra (quella contro l'Irak) fu fatta senza e contro l'ONU in nome di due palesi menzogne, la detenzione da parte dell'Irak di armi di distruzione di massa (che nella zona possiede solo Israele, noto detentore di armi atomiche), e la collusione con Al Qaeda (con cui Saddam non era certamente colluso, né avrebbe potuto auspicare la distruzione delle Torri Gemelle, che fu di fatto il simbolico casus belli). Insomma, arrivarono alcune novità, imprevedibili prima del 1989. A questo punto chi parla della geopolitica come di qualcosa di inesistente o dell'euroasiatismo come di una fantasia per giocatori di Risiko ha l'onere di suggerire in positivo come vede in prospettiva lo scacchiere geopolitico del mondo. In proposito, lo invito a barrare due caselle:
1) La geopolitica: (a) esiste; (b) non esiste.
2) Lo scenario geopolitico preferibile:
(a) eurocentrismo, o l'Europa deve fare da sola;
(b) euroatlantismo, o l'Europa alleata di ferro con gli USA, con le basi atomiche americane sul suo territorio a 60 anni dalla fine della seconda guerra mondiale;
(c ) euroasiatismo, in cui partendo da un asse preferenziale Parigi-Berlino-Mosca ci si garantiscano buoni rapporti stabili con il mondo islamico, l'Asia centrale, l'India e la Cina.
Per barrare correttamente la casella giusta non c'è bisogno che lo scenario preferito sia già visibile a breve termine. Ed è del tutto evidente che per ora mancano ancora le condizioni minime di realizzazione. Ma mi sembra già sufficiente indicare una prospettiva: la prospettiva è sempre la strategia dell'azione storica. Poi è certo la tattica che decide. Ma una tattica che non è al servizio di una prospettiva strategica non è neppure una tattica.

2. la Turchia e l'Europa. Alcune note preliminari
Chi sostiene che la Turchia non deve far parte integrante dell'Europa adduce in generale argomenti geografici, storici e culturali. Esaminiamoli brevemente uno per uno. Dal punto di vista geografico, se badiamo agli atlanti, neppure Cipro fa parte dell'Europa. Per quanto riguarda la Russia, gli abitanti di Mosca e San Pietroburgo sarebbero europei, mentre quelli di Novosibirsk e di Vladivostok sarebbero asiatici. Ma è una follia, perché si tratta di russi eguali al cento per cento. Nello stesso modo, sarebbero europei i Turchi di Edirne e di Istanbul, mentre quelli di Smirne e Ankara sarebbero asiatici. Un'altra follia. Inoltre, se teniamo conto del fatto che la catena del Caucaso separa geograficamente l'Europa e l'Asia, ne deriverebbe che i calmucchi, i bashkiri, i tartari del Volga ed i ceceni sarebbero europei, mentre gli armeni ed i georgiani non lo sarebbero. Un'altra follia. E follie di questo genere si moltiplicherebbero, fino a far diventare "europei" gli eschimesi della Groenlandia ed i polinesiani di Tahiti, eccetera. Dal punto di vista storico, i turchi sono in Europa dal trecento, e sono dunque arrivati solo quattrocento anni dopo gli ungheresi, di cui nessuno discute la natura "europea". Se poi vogliamo dire che l'Europa moderna si è costruita "contro" i Turchi (Lepanto 1571, Vienna 1683, eccetera), è bene sapere che questo varrà forse per l'Europa centrale di lingua tedesca, ma non vale per l'Europa balcanica, che con i turchi è vissuta intrecciata per mezzo millennio. Un po' meno di provincialismo, per favore. Dal punto di vista culturale, infine, la Turchia moderna dopo il 1922 (e dunque da più di ottanta anni, quasi un secolo) ha scelto la via dello stato laico e della cultura europea molto più di parecchi paesi europei DOC. Nei Balcani, la cultura turca è intrecciata con quelle locali, sul piano linguistico, letterario, gastronomico, musicale, eccetera. Solo chi pensa che l'Europa sia un sobborgo multiculturale di Bruxelles può ignorarlo. L'Europa, cari amici, non è l'Europa "cristiana" o l'Europa "carolingia", ma è anche (non soltanto) l'Europa cristiana e carolingia. Dire che l'Europa è giudaico-cristiana è una bestialità, non solo perché il giudeo-cristianesimo non esiste ed è una recente invenzione del circo intellettuale universitario, ma perché questa formula è stata coniata (coscientemente o no, non lo so, ma conoscendo i miei polli scommetterei sulla malafede) appositamente per rendere "stranieri" e al massimo "ospiti" i musulmani. E invece no. Un'Europa come si deve è un'Europa di cristiani (divisi in protestanti, cattolici, ortodossi e settari), di musulmani, di ebrei, di atei, eccetera, tutti a pari grado.
Avete capito bene? Ho detto. A pari grado.

3. La Turchia cavallo di Troia degli USA in Europa? Una riflessione
Il solo argomento che sono disposto a prendere seriamente in considerazione contro l'ingresso della Turchia in Europa è quello secondo il quale la Turchia autoritaria e kemalista potrebbe essere un cavallo di Troia degli USA in Europa. Si tratta di un argomento serio e pertinente. E' infatti vero che l'establishment militare turco di origine kemalista, indiscusso protagonista storico della laicizzazione europeizzante della Turchia moderna, è un alleato strategico degli USA e di Israele. Si tratta del migliore elemento di continuità tra la Turchia ottomana e la Turchia contemporanea, perché le popolazioni turcomanne che hanno popolato l'Anatolia negli ultimi 1000 anni a partire dal 1171 (battaglia di Manzikert) si sono costituite in popolo (halk) attraverso un esercito (ordu) in cammino (yol). E tuttavia questo appartiene più al passato che al futuro. La maggioranza del popolo turco (e lo si è visto anche dal rifiuto parlamentare di aderire apertamente all'aggressione USA all'Irak nel 2003) non è in prospettiva un fattore culturale strategico che possa assicurare il dominio americano sull'Europa. Certo, oggi la piccola borghesia turca che accede per la prima volta ai consumi di massa è culturalmente molto più "americanizzata" che "europeizzata", ma questo sgradevole fenomeno riguarda tutta l'Europa di oggi, dalla Danimarca al Portogallo. A mio avviso, se proprio si vuole cercare le riserve strategiche di tipo geopolitico per l'egemonia americana in Europa, bisogna lasciar perdere la Turchia e rivolgersi piuttosto alle classi politiche di governo (intercambiabili di sinistra o di destra) dei paesi ex-comunisti, dalla Polonia alla Romania, dall'Ungheria alla triade dei paesi baltici, eccetera. Per fare un comizio applauditissimo dalla plebe americanizzata Bush deve andare a Bratislava in Slovacchia, perché non potrebbe mai farlo a Parigi o a Berlino. Bisogna vedere le cose in modo storico, e non solo congiunturale. Se è vero che la Turchia è un paese-ponte fra Europa ed Asia (ed è indiscutibile che lo sia), allora ci conviene essere sovrani almeno su uno dei due lati di accesso al ponte. Lasciamo ai leghisti e ad Oriana Fallaci l'affabulazione irresponsabile sul fatto che non esiste e non può esistere un cosiddetto "Islam moderato", e che di conseguenza siamo condannati ad uno scontro di civiltà. L'atteggiamento rispetto alla Turchia è una cartina al tornasole per mostrare fino a che punto siamo riusciti ad emanciparci dalle radiazioni culturali che irresponsabilmente il circo mediatico al servizio delle oligarchie al potere ci rovescia addosso. Compiuto questo atto di indipendenza culturale di fondo, potremo poi occuparci di infiniti dettagli, che certo non mancano e non mancheranno, ma di cui poi potrò parlare in altra sede.

(da ITALICUM, Marzo-Aprile 2005)