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    Predefinito Rifondazione Israeliana

    A pag. 2 del quotidiano IL FOGLIO di oggi, martedì 26 aprile 2005, Ottolenghi firma un articolo di analisi sulla strategia di Sharon....

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    Così Sharon rifonda Israele


    Nell’incontro della notte scorsa, il ministro della Difesa israeliano, Shaul Mofaz, e l’uomo forte della sicurezza palestinese, Mohammed Dahlan, ministro per gli Affari civili dell’Anp, hanno concordato l’avvio di una fase “coordinata” di preparazione all’inizio del piano di ritiro di Ariel Sharon dagli insediamenti. I palestinesi premono anche per un maggior coinvolgimento americano nel processo in atto. Al recente vertice di Crawford sono emerse alcune divergenze tra il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, e Ariel Sharon, premier israeliano. Tra i dossier discussi, uno ha suscitato disaccordo: gli insediamenti israeliani, appunto. Il disaccordo non è una novità, ma la situazione è ora nuova. C’è in ballo il piano di disimpegno da Gaza. C’è in ballo la possibilità di riavviare la road map, che richiede a Israele di congelare gli insediamenti e smantellare quelli sorti illegalmente dopo il marzo 2001. E c’è l’annuncio del governo israeliano di aver approvato 3.500 nuovi appartamenti da costruire nel corridoio E-1, la zona che separa (e collega) Gerusalemme da Ma’aleh Adumim, un insediamento di circa 20 mila abitanti alle porte della capitale che, secondo le mappe dei vari accordi israelo-palestinesi mancati, dovrebbe rimanere sotto sovranità israeliana. Di fronte a questi sviluppi lecito dunque chiedersi: quale il futuro degli insediamenti? Secondo Israele, parte degli insediamenti dovrebbero rimanere sotto la sua sovranità. Le intese firmate a Washington un anno fa tra Sharon e Bush offrirebbero l’appoggio americano a questa interpretazione. Ma pochi, in Europa e in medio oriente, credono che Sharon sia pronto a rinunciare al resto: fu lui il maggior sponsor e architetto della politica degli insediamenti dal 1977 in poi. Gli scettici temono che il ritiro israeliano da Gaza rappresenti non l’inizio di un processo di disimpegno territoriale ma il massimo che Sharon offrirà. Bush ha promesso nel suo discorso tenuto a Bruxelles a febbraio che ci sarà uno Stato palestinese territorialmente contiguo, gli europei considerano la linea verde il confine internazionale, i palestinesi accusano Israele di utilizzare la barriera difensiva come strumento di annessione. Chi sostiene che la barriera difensiva sarà il futuro confine israeliano indica come tutti gli insediamenti a est dovranno essere abbandonati. Chi dubita il cambio di rotta politica di Sharon crede che gli insediamenti rimarranno come isole di sovranità israeliana, rendendo impossibile la visione territoriale di uno Stato palestinese contiguo. Chi ha ragione? Per capirlo occorre chiarire le intenzioni di Sharon. Che piano ha il primo ministro? Quale futuro assetto territoriale è disposto ad accettare? Che ruolo avranno insediamenti e Stato palestinese in questo assetto? A pochi mesi dal disimpegno da Gaza, e con l’arrivo al potere di una nuova leadership palestinese più moderata, dopo la morte di Yasser Arafat, capire il piano di disimpegno di Sharon e la sua visione strategica e politica per il futuro diventa imperativo.
    Il ritiro da Gaza emerge da una nuova visione strategica che Sharon ha adottato dopo essere andato al potere, nel febbraio 2001. Tre elementi influenzano Sharon: la natura della guerra tra Israele e i palestinesi; i limiti politici e diplomatici, interni e internazionali, che Israele e il suo governo devono prendere in considerazione; il modo in cui guerra e limiti politici e diplomatici interagiscono nel delineare ex novo gli interessi strategici e nazionali di Israele. La strategia di Sharon si fonda su tre principi. Innanzitutto ristabilire la deterrenza strategica israeliana nei confronti dei palestinesi attraverso il ricorso a misure rivoluzionarie e non convenzionali di guerra urbana e antiinsurrezionale per vincere il conflitto scatenato dai palestinesi nell’ottobre 2000; la costruzione della barriera difensiva nella Cisgiordania come strumento difensivo e futuro confine orientale; l’avvio di una serie di iniziative diplomatiche unilaterali che creino nuovi confini per Israele col sostegno dell’Amministrazione americana e il consenso della società israeliana. Per capire questa strategia occorre quindi innanzitutto studiare la natura del conflitto, al quale il piano di disimpegno e la rielaborazione dei confini orientali di Israele sono una risposta. A partire dal collasso del processo di Oslo, Israele si trova a combattere un conflitto a bassa intensità contro attori non statali la cui strategia
    si basa sul principio della guerra asimmetrica. Un conflitto asimmetrico implica un notevole squilibrio di forze tra le parti in causa, dove di solito il più debole - generalmente un attore privo di statualità – ricorre a mezzi non convenzionali atti a colpire i punti più vulnerabili del nemico, minimizzando il rischio di rappresaglia, sfruttando lo squilibrio di forze a proprio vantaggio, o costringendo l’attore più potente a confrontarsi su un terreno dove il vantaggio tecnologico, militare, strategico o di intelligence è neutralizzato. Attori non statali godono di un ulteriore vantaggio: non sono soggetti agli stessi obblighi giuridici internazionali di uno Stato e quindi possono eludere le loro responsabilità in caso di violazioni anche sistematiche del diritto internazionale. L’asimmetria militare si traduce spesso anche in asimmetria giuridica: lo Stato in guerra deve rispettare il diritto internazionale ed è passabile di sanzione se lo ignora: quindi deve seguire certe regole che il nemico, privo di statualità, può invece violare impunemente. Esiste un’altra importante distinzione in uno scontro asimmetrico: a differenza dai conflitti convenzionali, lo scopo principale della guerra asimmetrica è di dissuadere il nemico dal combattere, piuttosto che sconfiggerlo, ottenendo tangibili risultati politici grazie a una prolungata e sostenuta pressione mediante tattiche non convenzionali.
    A partire dal 29 settembre 2000, inizio dell’Intifada, i palestinesi hanno adottato la dottrina strategica della guerra asimmetrica contro Israele. La guerra palestinese si contraddistingue per cinque elementi. Primo, ristabilire la tradizionale descrizione del conflitto come scontro tra un Davide palestinese e un Golia israeliano. Alla vigilia dell’Intifada, i palestinesi avevano perso il sostegno dell’opinione pubblica internazionale a causa del rifiuto di Arafat di accettare le proposte israeliane fatte a Camp David nel luglio 2000. Ma una volta che la violenza ritorna giornalmente e in maniera prominente sui teleschermi, il vantaggio negoziale israeliano – basato su controllo territoriale, potenza militare, prosperità economica e superiorità diplomatica – diventa una debolezza. Nello scontro violento, il più forte perde immediatamente il vantaggio e la sua forza diventa simbolo di arroganza e mancanza di magnanimità. Per contro, le principali debolezze palestinesi in campo negoziale – mancanza di territorio e di indipendenza, debolezza militare, povertà, dipendenza economica e isolamento diplomatico – diventano la loro forza principale in campo mediatico e come strumento di influenza sull’opinione pubblica internazionale. Il vittimismo diventa una strategia. Secondo , adottare una strategia di tensione crescente che porti al coinvolgimento arabo e musulmano nel conflitto con conseguente aumento di pressione su Israele attraverso boicottaggi economici e possibili sanzioni. La rottura delle relazioni diplomatiche con Israele da parte di alcuni Stati arabi e le azioni concertate in seno alle organizzazioni internazionali (Lega araba e Organizzazione degli Stati musulmani) hanno dato ai palestinesi un blocco compatto di voti e la mobilitazione internazionale a favore della loro causa. Terzo , evidenziare la posizione pro-israeliana dell’Amministrazione americana, cercando così di screditarne il ruolo mediatore e favorendo l’ingresso attivo nel processo negoziale di attori più schierati a favore dei palestinesi, principalmente l’Onu e l’Unione europea. Quarto , sottolineare la necessità di un’interferenza internazionale sul campo, attraverso l’invio di osservatori e forze di pace, e il possibile varo di sanzioni. Tale passo serve a rafforzare la posizione negoziale palestinese e a facilitare l’ottenimento di termini più vantaggiosi in un eventuale futuro accordo. Quinto , protrarre il conflitto il più a lungo possibile nella speranza che la società israeliana si pieghi alle pressioni di una recessione
    economica causata dal conflitto, di una situazione di sicurezza insostenibile, di un’atmosfera di crescente isolamento e condanna internazionale. Le statistiche degli attacchi terroristici danno un senso più concreto della natura e del tipo di guerra asimmetrica con cui Israele si è confrontato negli ultimi quattro anni e mezzo: ci sono stati più di 23 mila attacchi dal 29 settembre 2000; tra questi ci sono stati 137 attentati suicidi portati a termine. Quasi 500 attacchi suicidi sono stati sventati dalle forze israeliane. 69 degli attacchi suicidi riusciti sono avvenuti prima dell’operazione militare israeliana “Muro difensivo”, lanciata nella primavera 2002. Altri 12 sono avvenuti durante l’operazione. Fino all’aprile 2002 la maggior parte degli attacchi andava a segno e solo una minoranza veniva neutralizzata. Dall’aprile 2002 il numero degli attacchi riusciti è drammaticamente diminuito. Oggi, grazie a una combinazione di intelligence umana e digitale, arresti preventivi, coprifuoco e posti di blocco, incursioni militari, omicidi mirati, sabotaggio della catena di comando, sistemi di rilevamento
    radar ed elettronici e ostacoli fisici, Israele riesce a sventare più del 90 per cento degli attacchi. Ma ha sostenuto un numero di vittime civili molto più alto di quelle militari a testimonianza della natura asimmetrica e non convenzionale del conflitto: i terroristi mirano a colpire deliberatamente non l’esercito, militarmente più forte, ma i civili indifesi come strumento di pressione psicologica. Il rapporto è di un morto o ferito in uniforme ogni quattro vittime civili. Anche in questo caso però i numeri sono diminuiti dopo l’aprile 2002. Nel 2002 c’è stato un declino del 9 per cento rispetto al 2001; nel 2003 un declino del 53 per cento; e nel 2004 del 18 per cento: 2594 feriti nel 2001, 2348 nel 2002, 1123 nel 2003 e 917 nel 2004. Le morti sono aumentate nel 2002: 453 morti contro i 247 del 2001. Nel 2003 le morti sono scese del 53 per cento: 212 morti in tutto. Nel 2004 le morti sono scese del 44 per cento, con 118 israeliani uccisi in atti terroristici. Il declino di morti e feriti è correlato alla rioccupazione militare della Cisgiordania e alla costruzione della barriera difensiva. Se le tattiche israeliane hanno funzionato in termini di prevenzione, non hanno diminuito la motivazione palestinese a colpire. Hanno però ridotto in maniera sostanziale la capacità operativa del nemico. La strategia militare israeliana mancava quindi di una componente politica che districasse il paese da una logica di guerra d’attrito in cui l’elemento psicologico, le pressioni internazionali e gli effetti economici sulla determinazione dell’opinione pubblica a resistere avrebbero giocato contro Israele a lungo andare. Quali risultati e quali fallimenti hanno prodotto la strategia palestinese e la risposta israeliana? I successi palestinesi sono cinque: primo , i palestinesi hanno vinto la battaglia mediatica principalmente in Europa, spostando a loro vantaggio le opinioni pubbliche di paesi i cui governi si sono sentiti in dovere di appoggiarli, anche in considerazione dell’opinione pubblica interna. Secondo , tale vittoria mediatica ha portato a risultati diplomatici, tra cui il voto compatto dell’Unione europea all’Onu a favore dei palestinesi in importanti risoluzioni di condanna a Israele; terzo , nel dettaglio la vittoria palestinese nel contesto giuridico del parere consultivo della Corte internazionale di giustizia dell’Aia a luglio crea un precedente importante per il futuro dei negoziati e offre un modello per altre battaglie; quarto, Israele è notevolmente isolata sul piano diplomatico; quinto , agli occhi dell’opinione pubblica, il ruolo di mediazione americano è stato parzialmente screditato o perché troppo filoisraeliano o perché disimpegnato dal conflitto. Accanto a questi cinque importanti risultati però i palestinesi hanno pagato un caro prezzo che offre una lunga lista di errori e fallimenti. La manovra di delegittimazione contro gli americani ha portato alla perdita di molto credito politico che i palestinesi si erano guadagnati a Washington prima dell’Intifada: per consenso internazionale non esiste alternativa credibile ed efficace agli americani, cosa che rende la manovra futile e controproducente nel lungo periodo. Dopo l’11 settembre poi la questione palestinese ha perso d’urgenza per l’Amministrazione Bush e ottiene minore attenzione. Il mondo arabo, sotto pressione internamente ed esternamente dopo l’11 settembre, non è andato oltre il solito sostegno retorico alla causa palestinese, offrendo appoggio diplomatico e in minor misura economico, ma mai sbilanciandosi più del dovuto né mai paventando un’escalation militare che permettesse al conflitto di estendersi oltre i confini d’Israele e dei territori. Da un punto di vista interno, la strategia adottata dai palestinesi ha causato un graduale sgretolamento, i cui effetti collaterali più gravi sono stati una crescente anarchia e una perdita di controllo del territorio da parte dell’Autorità palestinese. Le pressioni congiunte dall’interno e dall’esterno hanno lasciato la leadership dell’Anp in una posizione impossibile: incapace di modificare il corso degli eventi e vittima delle stesse forze che inizialmente aveva ritenuto di poter scatenare contro Israele a proprio vantaggio. Inoltre, contrariamente alle aspettative, l’Intifada ha fallito nell’obiettivo di spezzare le reni a Israele . Il paese ha mostrato una maggior volontà di resistere di quanto si aspettassero i palestinesi. Semmai l’Intifada ha ottenuto l’effetto opposto, indebolendo la sinistra pacifista, rendendo le posizioni centriste meno disponibili al compromesso e riducendo la possibilità che Israele riproponga termini di accordo che i palestinesi hanno comunque già rifiutato quattro anni e mezzo fa. Tale impatto indesiderato sull’opinione pubblica ha anche portato al collasso della sinistra israeliana e al potere Sharon, costringendo i palestinesi a dover negoziare con la loro nemesi storica. Le tattiche israeliane hanno efficacemente neutralizzato l’effetto principale del terrorismo palestinese, cioè l’impossibilità di una vita pubblica normale condotta senza paura fino al punto di spezzare la volontà del paese. L’effetto psicologico è stato contrario a quello desiderato: lungi dal condizionare un ammorbidimento delle linee rosse israeliane, i palestinesi hanno ottenuto l’effetto opposto. Questa è la dimostrazione
    più ovvia del fallimento della strategia del terrore di fronte a un’efficace risposta militare.
    In tutti i quattro anni e mezzo di Intifada, Israele non ha perso il sostegno diplomatico americano. Semmai, tale sostegno si è rafforzato. In più il governo ha goduto di ampio consenso e appoggio dell’opinione pubblica nelle sue politiche durante l’Intifada, con punte di 102 per cento di adesione al richiamo alle armi dei riservisti durante l’operazione “Muro difensivo” e un’incidenza di obiezione di coscienza selettiva e a sfondo politico assolutamente minimo (poche centinaia i firmatari delle varie petizioni di militari contrari alle azioni militari nei territori). Tale consenso ha permesso al governo Sharon di condurre la guerra in maniera determinata e incisiva e allo stesso tempo cercare di creare spazi politici nuovi fondati sul consenso pubblico in merito al tetto di concessioni che Israele può fare ai palestinesi. Nonostante tali risultati, Israele ha perso la battaglia mediatica, il sostegno della gran parte dell’opinione pubblica e della comunità internazionale e le sue relazioni con l’Europa, il suo piú importante partner commerciale, hanno sofferto. Tutto questo significa tre cose: Israele ha vinto la guerra da un punto di vista strettamente militare, ma non può tradurre il successo militare in un risultato politico positivo; la strategia dei palestinesi è stata neutralizzata, ma la continuazione dello status quo potrebbe giocare a loro favore; la pazienza della comunità internazionale nei confronti di Israele non è illimitata e il vantaggio che Israele gode oggi grazie a un’Amministrazione americana amichevole potrebbe ridursi dopo il 2008, se il successore di Bush fosse meno favorevole alle posizioni attuali del governo israeliano. Il piano politico di Sharon emerge dunque dall’intricata combinazione della natura della guerra, delle tattiche adottate per combatterla, del costo umano, diplomatico ed economico per sostenerla e della congiuntura politica interna e internazionale. Durante il suo premierato, Sharon ha raggiunto una serie di importanti risultati. L’incapacità iniziale di Israele di rispondere efficacemente all’assalto terroristico palestinese ne aveva danneggiato la deterrenza strategica. Tale danno aveva indebolito la posizione negoziale con i palestinesi e in generale la deterrenza strategica israeliana nella regione. Prima di poter riaprire qualsiasi dialogo, era dunque urgente ristabilire il deterrente israeliano, neutralizzando il terrorismo. Ogni risposta efficace avrebbe peraltro causato proteste internazionali al punto da limitarne l’estensione e l’incisività. Per poter vincere, Israele doveva dunque riconoscere la natura asimmetrica del conflitto e capire i limiti del suo potere militare in questo contesto. La discordia politica interna e la mancanza di consenso avrebbero infatti causato non meno danno dell’isolamento diplomatico. Azioni militari non dovevano quindi mettere a rischio né l’alleanza con gli Stati Uniti né il consenso interno espresso tra il 2001 e il 2003 e da qualche mese a questa parte da un governo di unità nazionale. Questo principio di alleanza binaria – America e consenso nazionale – guida Sharon dalla sua elezione quattro anni fa. Da un punto di vista diplomatico, Israele ha una serie di linee rosse oltre il quale non si può spingere senza rischiare la sua sicurezza e la guerra civile. D’altro canto, l’erosione del deterrente le ha rese vulnerabili. Il governo del predecessore di Sharon, il laburista Ehud Barak, ha oltrepassato quei limiti, pagando un caro prezzo ma anche stabilendo un pericoloso precedente per il paese. Sharon doveva quindi limitare il danno fatto da Barak. La risposta israeliana all’Intifada rimane quindi coerente dal febbraio 2001: non ci saranno negoziati fintantoché perdura la violenza, i non accordi di Taba negoziati da Barak nel gennaio 2001 non costituiscono un precedente o un punto di partenza, e non ci sarà un ritorno dei rifugiati palestinesi. Dal punto di vista militare, Sharon ha adottato una serie di misure con l’intento di ridurre la minaccia terroristica e ristabilire il deterrente israeliano. La lentezza di questo processo, condizionata dall’impossibilità di ricorrere a un uso eccessivo della forza, ha creato forti pressioni pubbliche per la creazione di un confine unilateralmente tracciato da Israele che tenga conto dei bisogni militari e politici israeliani. E’ stata quindi la combinazione di considerazioni di natura strategico-militare e politiche a spingere Sharon ad adottare la politica della barriera e del ritiro unilaterale, due misure proposte originariamente dai laburisti e rifiutate da Sharon.
    Ma per comprendere completamente la strategia di Sharon occorre anche leggere il contesto all’interno della quale tale strategia si dipana. Dall’autunno del 2000, esiste un consenso in Israele sull’assenza di un partner credibile per un compromesso realistico. L’effetto più duraturo dell’Intifada è stato quello di distruggere la visione della sinistra israeliana di un nuovo medio oriente integrato e pacifico e della destra di una Grande Israele. L’insistenza palestinese sul ritorno dei rifugiati in particolare ha convinto l’opinione pubblica israeliana della futilità del negoziato e dell’impossibilità di raggiungere un accordo nel futuro prossimo. Il tema dei rifugiati ha portato all’attenzione degli israeliani il fattore demografico, cioè il fatto che entro il 2020, se i confini attuali rimangono invariati, Israele si troverà ad avere una minoranza ebraica che domina una maggioranza araba, cosa che porterebbe presto alla fine dello Stato d’Israele come Stato ebraico: la continuazione dell’occupazione, l’espansione degli insediamenti e le pressioni internazionali porterebbero, in un decennio, a una situazione in cui Israele potrebbe vedersi costretto ad accettare la soluzione di uno Stato solo. L’opinione pubblica israeliana, dunque, preferendo a larga maggioranza l’idea dello Stato ebraico, sostiene un’iniziativa governativa che, con o senza il consenso e la cooperazione palestinese, eviti che lo scenario dello Stato unico si possa materializzare. Mancando un partner con cui negoziare, la posizione del governo è dunque tesa a raggiungere un risultato ottimale che crea dei confini politici e geostrategici difendibili militarmente e diplomaticamente , senza doverne negoziare i tempi e i termini coi palestinesi. Questa è la strategia di
    Sharon. L’incontro con le realtà demografiche ne ha influenzato l’attaccamento ai territori, facendogli comprendere che i territori e i confini che essi comportano hanno smesso di essere un vantaggio e si sono trasformati in indifendibili a causa della natura asimmetrica del conflitto in corso. Meglio ridurre le linee di difesa quindi, scegliendo il terreno migliore da cui condurre difesa e contrattacco. In più, la mancanza di un orizzonte politico avrebbe prima o poi ridato fiato alla sinistra e alle concessioni che alcuni suoi leader ancora paventavano. L’idea del ritiro da Gaza e della barriera, entrambe le cose sostenute dalla stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, permettono a Sharon di offrire quell’orizzonte politico che garantisce il mantenimento del consenso per continuare la guerra, se necessario, e del sostegno americano in caso di fallimento dei negoziati. Inoltre il disimpegno da Gaza toglie l’iniziativa ai palestinesi e agli attori internazionali ostili a Israele. Sharon ha compreso che le nuove realtà create dall’Intifada rendono indifendibili i confini sorti dalla Guerra dei Sei giorni. Occorre ritracciare dei confini difendibili, che possano eventualmente essere difesi, da Israele militarmente e dai suoi alleati a livello diplomatico e internazionale, oggi e in futuro. Questo è quanto ha fatto Sharon. Nel lungo periodo, la barriera e il disimpegno creeranno una nuova realtà sul terreno. La combinazione di limiti, dilemmi strategici e sfide di lungo periodo trasformeranno la barriera in un confine con il quale sia Israele sia gli americani possano dormire tranquilli, sia che la pace adotti quel confine sia che la pace continui a sfuggire. Per questo Sharon ha adottato una notevole flessibilità sul tracciato della barriera e ha usato ogni mezzo politico per salvare il suo progetto di disimpegno, negoziando il futuro confine con la Corte suprema, con il Partito laburista e con l’Amministrazione Bush. Nessun altro politico israeliano, dai tempi di David Ben Gurion, avrà altrettanta influenza sul futuro del paese. Sharon ha ritracciato la mappa geostrategica e i confini di Israele, fondando tale concezione territoriale su due principi: una solida alleanza con l’unica superpotenza e un consenso nazionale atto ad attutire le tensioni che emergeranno durante il ritiro. I nuovi confini tengono conto degli interessi nazionali nel senso più ampio: militare, politico, demografico, idrico, per il lungo periodo. Limitano al minimo l’effetto traumatico della rimozione di insediamenti perché ne includeranno la maggioranza, ma senza alterare la mappa demografica del paese, e tutto questo senza bisogno di negoziare con i palestinesi e senza danneggiare la deterrenza israeliana nei confronti dei vicini arabi e delle altre potenze regionali. Il che spiega, in conclusione, le intenzioni di Sharon. Di fronte alle sfide degli ultimi cinque anni, il premier israeliano ha mostrato che, in ultima analisi, l’unica ideologia in cui crede è la sicurezza del suo paese e la difesa, per generazioni a venire, dell’interesse nazionale anche a costo degli imperativi che emergono dalle passioni ideologiche che ha inseguito per tutta la sua vita di adulto e politico.
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    Shalom

  2. #2
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    " Un progetto condiviso per il futuro d’Israele

    Da un articolo di Gadi Taub

    L’elemento più decisivo nella società israeliana è il suo principio unificante, ciò che fa dire agli israeliani: “noi”. Questo elemento, anziché discendere direttamente dal passato, si proietta piuttosto vero il futuro. Sotto questo aspetto Israele non è diverso da altre società di immigrati che hanno dato vita a stati nazionali nei quali il senso comunitario di appartenenza non scaturisce tanto da esperienze condivise nel passato, quanto piuttosto da un progetto condiviso per un futuro.
    Naturalmente gli ebrei hanno un lungo passato in comune, ma da solo quel passato non seppe promuovere una realtà politica, ed è appunto a questa mancanza che il sionismo si proponeva di porre rimedio. Ecco perché il sionismo è un movimento rivoluzionario. Perché prometteva – proprio come facevano gli Stati Uniti ai loro immigranti – un comune futuro più che un obbligo verso diversi patrimoni del passato.
    Essendo una società fatta di immigrati, Israele – come gli Stati Uniti – conobbe un preciso momento di nascita nel quale annunciò il progetto per un futuro comune. Di nuovo come gli Stati Uniti, il progetto venne inscritto in una Dichiarazione di Indipendenza.
    A differenza degli americani, però, gli israeliani non trattano la loro Dichiarazione di Indipendenza con molto riguardo. È un peccato, giacché gran parte della turbolenta storia di Israele può essere letta proprio alla luce di quel progetto-per-un-futuro-comune che indicava a chiare lettere chi siamo, o meglio cosa vogliamo di diventare.
    Mentre il documento americano fonda la sua rivendicazione sui diritti individuali, la dichiarazione israeliana fonda la rivendicazione morale del sionismo su diritti collettivi. E ne indica due: uno, che la dichiarazione definisce “naturale”, è il diritto universale di “tutti i popoli” all’auto-determinazione; l’altro, che la dichiarazione definisce “storico”, è l’attaccamento specifico degli ebrei alla terra dei loro padri. Presi insieme, questi due diritti mirano a formare uno stato degli ebrei in Terra d’Israele basato su principi democratici. Israele doveva trasformare l’identità ebraica da un’identità radicata essenzialmente nella tradizione religiosa in una nuova identità moderna e nazionale. Doveva diventare il luogo dove il diritto universale all’auto-determinazione trovava applicazione per il caso specifico degli ebrei.
    In questo contesto sorsero molte controversie su quali contenuti dare a questo progetto, su cosa della tradizione ebraica dovessimo trasferire nella sovranità statale e cosa lasciarci alle spalle.
    A partire dalla guerra dei sei giorni, tuttavia, non è più il contenuto che viene discusso, quanto il contenitore. La controversia fra ciò che chiamiamo sinistra e destra, fra coloro che volevano includere i nuovi territori conquistati e coloro che volevano abbandonarli, verteva essenzialmente attorno ai più fondamentali principi che presiedono al nostro stato.
    Ciò che scatenava il dibattito non era tanto il territorio aggiunto, quanto la popolazione aggiunta. Con una significativa popolazione araba improvvisamente finita sotto il controllo di Israele, ci trovammo di fronte a due alternative. A lungo termine – ma oggi è ormai questione solo di pochi anni – le tendenze demografiche avrebbero messo in minoranza gli ebrei nella regione a ovest del Giordano. Ridotti in minoranza, non avremmo più potuto preservare un paese che avesse contemporaneamente un carattere ebraico e democratico. O tutti possono votare, e il carattere ebraico dello stato verrebbe spazzato via dal voto; oppure possono votare solo gli ebrei, e allora il paese non sarebbe più democratico.
    Apparentemente dovevamo scegliere tra attenerci al diritto naturale di tutti i popoli all’auto-determinazione o attenerci al diritto storico degli ebrei alla terra: non potevamo avere entrambi. Il centro dello schieramento politico ha finito per spaccarsi, dando vita a due concezioni opposte su quale dovesse essere il nostro futuro comune, su quale fosse l’essenza del progetto sionista: la destra storica vedeva come primo obiettivo del sionismo il riscatto di una terra; i suoi avversari, potremmo chiamarli i sionisti del diritto naturale, vedevano come primo obiettivo del sionismo il riscatto di un popolo.
    Ecco perché la controversia sui territori occupati è diventata così lacerante: perché opponeva una contro l’altra due concezioni su ciò che vogliamo essere, assai più profonde di qualunque programma politico. Non si trattava semplicemente di un problema di natura politica: toccava una questione di identità. In una società fatta di immigrati, nella quale il progetto comune per il futuro è il vero principio fondante, un disaccordo su quel progetto chiamava in causa l’opzione stessa dell’esistenza di un “noi” israeliano.
    Una delle due parti del dibattito, tuttavia, aveva un vantaggio sull’altra. Quella che chiamiamo sinistra non chiedeva di scegliere uno dei due pilastri originari come base della nostra identità. Essa proponeva una via per ricomporli. Se Israele si ritira da gran parte dei territori, può tornare ad abbracciare entrambi. Sebbene la destra abbia monopolizzato l’etichetta di “patriottismo”, era in realtà l’altra parte quella più patriottica. La destra, si è capito a poco a poco, tendeva di fatto a uno stato bi-nazionale. Era la sinistra che aveva le chiavi per ristabilire un’esistenza nazionale autentica, la via per tornare a un sionismo coerente, un sionismo che sia al contempo ebraico e democratico.
    Se definiamo i nostri confini in modo tale da contenere un territorio nel quale gli ebrei siano, sul lungo periodo, una stabile maggioranza, possiamo tornare all’ideale originario inscritto nella nostra Dichiarazione di Indipendenza. E’ questo fattore fondamentale dell’esistenza nazionale d’Israele quello che più di ogni altro ha spinto alla fine un falco come il primo ministro Ariel Sharon a sostenere con forza il disimpegno (dalla striscia di Gaza e parte della Cisgiordania settentrionale). Giacché alla fine, restare aggrappati ai territori significa spaccare in due il sionismo. E con due progetti per il futuro, con due concezioni diverse su ciò che siamo, non vi sarebbe più nulla a tenere insieme questa società.
    È come se, dopo quattro decenni di incertezze, saremo presto in grado di aderire nuovamente alla nostra Dichiarazione di Indipendenza, e nella sua interezza.

    (Da: Jerusalem Post, 10.05.05)
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    Shalom

  3. #3
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    " Un ritiro, non a caso, unilaterale

    di Abraham H. Foxman

    Il ministro degli esteri israeliano Silvan Shalom ha recentemente affermato di non vedere come Israele possa procedere con il ritiro unilaterale nel caso in cui Hamas dovesse vincere le elezioni a Gaza. Poco dopo, quello stesso giorno, interpellato dai giornalisti su cosa pensasse di questa affermazione, il primo ministro israeliano Ariel Sharon ha replicato che il disimpegno non ha nulla a che fare con il comportamento dei palestinesi, in quanto è stato deciso nell’interesse di Israele indipendentemente da cosa fanno i palestinesi.
    La spiegazione di Sharon è cruciale, giacché molti non sanno – o dimenticano – che Sharon decise di proporre il disimpegno già più di un anno fa non perché Israele avesse un interlocutore per la pace, ma proprio perché Israele non aveva un interlocutore per la pace. Sharon giunse alla conclusione che restare intrappolati a Gaza perché non c’è un interlocutore per la pace, e quindi nemmeno negoziati di pace, era contro gli interessi di Israele: pressioni internazionali, controllo sui palestinesi, andamenti demografici, crescente affermazione della soluzione basata su un solo stato (a maggioranza araba).
    Il fatto che Arafat sia morto dopo che Sharon avanzò la sua iniziativa e sia stato rimpiazzato da Mahmoud Abbas (Abu Mazen), un leader che sembra offrire la prospettiva di essere un autentico interlocutore di pace, ha spinto alcuni a dimenticare che Sharon nel suo piano per lo sgombero dell’area non contava affatto su un interlocutore di pace. Così, quando sono emerse critiche circa sviluppi negativi in campo palestinese sotto Abu Mazen, Sharon ha risposto con logica coerenza basandosi sul suo assunto originario che ciò fosse irrilevante dal punto di vista delle prospettive del ritiro.
    Naturalmente vi sono argomenti legittimi pro e contro il ritiro, ma un argomento che non regge è l’idea che il ritiro non vada fatto perché i palestinesi ora non si comportano in modo pacifico. È esattamente perché non si comportavano in modo pacifico che Sharon fu spinto a prendere la sua decisione.
    Le argomentazioni di Silvan Shalom e altri con lui, benché non intacchino minimamente il disimpegno, tuttavia sono autenticamente rilavanti circa l’altra questione sul tappeto, e cioè se è cambiato qualcosa di sostanziale nell’approccio palestinese dopo la morte di Arafat. Inizialmente c’erano alcuni elementi che giustificavano un certo ottimismo, e alcuni di questi elementi restano validi. Primo, Abu Mazen non era Arafat, essendo quest’ultimo chiaramente un personaggio senza speranze, più interessato a distruggere lo stato degli ebrei che a costruirne uno palestinese. Secondo, Abu Mazen sembrava preoccuparsi di migliorare le condizioni di vita della sua gente; già come primo ministro sotto Arafat aveva espresso l’opinione che le decisioni di Arafat avevano messo a terra i palestinesi. Terzo, Abu Mazen respingeva il terrorismo come arma controproducente per i palestinesi; benché non fosse esattamente come condannare il terrorismo in quanto infame in se stesso, perlomeno faceva intravedere un leader disposto a ragionare in modo pragmatico.
    Ora, diversi mesi dopo, non c’è ragione per liquidare tout-court queste ragioni per un timido ottimismo. È ancora troppo presto per arrivare a conclusioni definitive sulla dirigenza palestinese e tornare tout-court al più tetro pessimismo.
    D’altra parte, vi sono sul terreno abbastanza indicatori che ricordano la miserabile storia dell’odio palestinese per Israele e delle loro politiche auto-distruttive, per cui gli avvertimenti alla cautela non sono fuori luogo. In particolare la dichiarata indisponibilità di Abu Mazen ad affrontare le strutture del terrorismo e cercare di pacificarle reclutandole nel processo politico. Una strategia votata al fallimento finché Hamas conserva la sua ideologia volta a distruggere lo stato degli ebrei e mantiene i suoi strumenti per assassinare israeliani, tendonsi strette le sue armi. E poi c’è la retorica, che suona sempre più famigliare a coloro che hanno tenuto d’occhio questi andamenti per decenni. Basta vedere i discorsi fatti da Abu Mazen e dal suo ministro degli esteri Nasser al-Kidwa al recente incontro a Brasilia fra stati arabi e stati sudamericani. Rispondendo alle preoccupazioni d’Israele circa la vittoria di Hamas alle elezioni, Abu Mazen ha detto: “Mi domando a che razza di democrazia credono gi israeliani?”. Al-Kidwa ha detto che Israele non mantiene mai i suoi impegni. Intanto in Cisgiordania si teneva un incontro fra differenti fazioni palestinesi le cui principali conclusioni non assomigliavano a nulla che potesse tendere a colmare il solco fra le due parti, quanto piuttosto alla vecchia ricetta per il disastro secondo la quale non ci può essere pace con Israele senza la piena attuazione del “diritto al ritorno” in Israele di milioni di profughi palestinesi e loro discendenti. In altre parole, il solito appello a continuare la lotta per la fine di Israele.
    Dopo alcuni segnali iniziali sull’insegnamento dell’odio nelle scuole e la promozione dell’odio nei media, vi sono segnali più recenti secondo cui le cose non sono cambiate granché. Israele è ancora il nemico, la legittimità dello stato degli ebrei non si trova facilmente, continuano ad essere disseminate teorie complottistiche su israeliani ed ebrei. Dov’è finito l’impegno a promuovere un atteggiamento positivo per un futuro di pace?
    Così, nonostante il decesso di Arafat e i segnali positivi provenienti da Abu Mazen, continuano a rullare i tamburi di quel negativismo, di quel revanscismo palestinese che ha fatto male agli israeliani per decenni, ma che ha fatto ancora più male agli stessi palestinesi.
    Speriamo che Sharon e Abu Mazen nei mesi dopo il disimpegno trovino il modo di superare questa pantano che avvelena la regione da tanto tempo. Per ora è importante che mass-media e comunità internazionale capiscano che Israele procederà, sì, con il ritiro da Gaza, ma non grazie a un qualche cambiamento dei palestinesi verso la moderazione. E dopo il disimpegno, un rinnovato processo di pace potrà partire solo se avviene quel cambiamento. In caso contrario, Israele dovrà decidere per conto suo, come ha fatto riguardo a Gaza, quale sarà la politica migliore per i suoi interessi.

    (Abraham H. Foxman, direttore nazionale della Anti-Defamation League, su YnetNews, 24.05.05)
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  4. #4
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    “Tel Aviv sarà come Sderot”

    Il capo di stato maggiore uscente israeliano Moshe Yaalon si dichiara pessimista circa le future relazioni fra Israele e palestinesi.
    Un giorno dopo aver detto che, nel quadro di un serio accordo di pace con i siriani, Israele potrebbe garantire la propria sicurezza anche senza le alture del Golan, Yaalon ha affermato, in un’intervista mercoledì al quotidiano israeliano Ha’aretz: “Se Israele non farà seguire al disimpegno ulteriori azioni, se non si impegnerà in ulteriori mosse, vi sarà un’altra esplosione di violenze. Il terrorismo tornerà in tutte le sue forme: sparatorie, autobombe, attentati suicidi, tiri di mortaio e lanci di missili Qassam”.
    Secondo Yaalon, le prime violenze potrebbero scoppiare in Cisgiordania per poi estendersi rapidamente all’interno di Israele, dentro città come Tel Aviv, Kfar Saba e Gerusalemme. “Tel Aviv e Gerusalemme saranno come Sderot – ha detto Yaalon, con riferimento alla cittadina meridionale israeliana bersagliata da missili palestinesi nei mesi scorsi – Faranno attentati suicidi dovunque riusciranno. E’ altamente probabile che vi sia una seconda guerra terroristica”.
    Secondo l’ex capo di stato maggiore israeliano, sostituito mercoledì da Dan Halutz, la creazione di uno stato palestinese condurrebbe ad una guerra che potrebbe essere assai pericolosa per Israele. “L’idea che possa esservi uno stato palestinese entro il 2008 è semplicemente avulsa dalla realtà e pericolosa – ha spiegato – Un tale stato si adopererebbe per minare lo stato di Israele, e prima o poi vi sarebbe una guerra, una guerra che potrebbe essere pericolosa per Israele”.
    Yaalon ha aggiunto che le recenti dichiarazioni del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) indicano che i palestinesi non hanno rinunciato a quello che chiamano il “diritto al ritorno” (di tutti i profughi palestinesi e loro discendenti all’interno di Israele anche dopo la nascita di uno stato palestinese). “Non chiedono un gesto simbolico, chiedono un vero e proprio ritorno nelle case e nei villaggi. È chiaro quali sarebbero le conseguenze: non vi sarebbe più uno stato per gli ebrei”.
    “Ai palestinesi – ha aggiunto Yaalon – conviene ancora l’attuale situazione basata su bande, anziché sulle fondamenta di un vero stato. Quando l’Autorità Palestinese lascia che Hamas partecipi alle elezioni senza cedere le armi, cosa fa? Uno stato per bande, bande armate che fingono di giocare alla democrazia. E se Fatah continua a comportarsi come fa ora, Hamas finirà con l’impadronirsi della striscia di Gaza”.
    Nell’intervista Yaalon ha anche sostenuto che la cosiddetta soluzione “due popoli-due stati” non porterebbe affatto alla stabilità nella regione: “Allo stato attuale – ha spiegato – mi pare difficile creare una situazione stabile, da fine del conflitto, all’interno di questo schema. E’ uno schema che qui semplicemente non è rilevante, sostenuto dall’occidente che guarda al conflitto con occhi da occidente. Ma è uno schema che non tiene conto del divario e delle reali dimensioni del problema. Persino noi israeliani preferiamo non vederlo. Israele è pronto a dare ai palestinesi uno stato palestinesi, ma i palestinesi non sono disposti a riconoscerci il diritto di uno stato per gli ebrei”.
    Alla domanda se abbia timori per la sopravvivenza di Israele, Yaalon ha risposto: “Una combinazione di terrorismo e demografia, con interrogativi fra noi sulla giustezza della nostra causa, sono una formula che può portare a una situazione in cui alla fine può non esservi più, qui, uno stato per gli ebrei”.

    (Da: Ha’aretz, YnetNews, 1.06.05)
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    " Sondaggio: sotto la metà il favore degli israeliani al ritiro da Gaza

    Il sostegno dell’opinione pubblica israeliana al piano di disimpegno unilaterale dalla striscia di Gaza sarebbe sceso per la prima volta sotto il 50%, secondo i risultati di un sondaggio Maagar Muhot diffusi mercoledì sera dall’emittente tv Canale 2.
    Solo il 48% degli intervistati si è detto favorevole al ritiro, contro il 33% che si è detto contrario; 19% gli indecisi. L’appoggio allo sgombero da Gaza sarebbe dunque significativamente diminuito rispetto al 65% rilevato nel febbraio scorso.
    I collaboratori del primo ministro israeliano Ariel Sharon hanno sdrammatizzato i dati, facendo notare che altri sondaggi danno risultati diversi e mettendo in dubbio la metodologia utilizzata da Maagar Muhot. Lo stesso Sharon ha commentato la notizia davanti alle telecamere dicendo: “Non mi sono esaltato quando i sondaggi erano nettamente a mio favore, non mi deprimo adesso che danno risultati differenti”.
    Secondo gli avversari del ritiro, il sondaggio dimostrerebbe che la popolazione israeliana sta prendendo consapevolezza del fatto che il piano non farà che aumentare il terrorismo e che la sua attuazione è mal gestita. Fonti vicine al ministro delle finanze Binyamin Netanyahu affermano che l’opinione pubblica sta cambiando a causa dei missili Qassam palestinesi sparati dalla striscia di Gaza su Sderot e Gush Katif, e a causa delle recenti critiche al piano di disimpegno avanzate dall’ex capo di stato maggiore Moshe Ya'alon e dall’ex capo dei servizi di sicurezza Avi Dichter.

    (Da: Jerusalem Post, 8.06.05)
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  6. #6
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    Dal sito di IDEAZIONE


    " Su Israele l’ombra della terza Intifada
    di Stefano Magni
    [15 giu 05]

    “Il futuro ritiro è un coltello a due lame puntato al basso ventre di Israele. Qualsiasi cosa accada, non sembra che vi sia fine al lancio di razzi Qassam, che vi sia o meno il disimpegno”. Così scrive al quotidiano Haaretz un lettore di Bat Chefer. Un altro lettore precisa che: “La recente dichiarazione di Abu Mazen che i Palestinesi non rinunceranno al “diritto al ritorno” è un chiaro segnale che la soluzione dei due popoli in due Stati, per ora non è percorribile. D’altra parte non c’è nulla, nelle azioni e nei fatti dei Palestinesi, che possa suggerire il contrario”. E non sono casi isolati. Nonostante, il 9 giugno scorso, la Corte Suprema israeliana abbia respinto il ricorso dei coloni e sancito la piena legalità del piano di disimpegno dalle colonie di Gaza, stando al sondaggio effettuato dal centro di ricerca Maagar Muhot, meno del 50% degli Israeliani è d’accordo con il programma di disimpegno. Il sostegno popolare al piano di Sharon è crollato rispetto all’abbondante 70% dell’anno scorso. Sebbene risultati del sondaggio non siano certi, Sharon rimane ottimista e non ha intenzione di rinunciare al suo piano di disimpegno. È comprensibile, però, che si sia diffuso un certo malcontento, non solo tra i coloni che dovranno lasciare le loro case.

    Fra questi ultimi la disperazione è palpabile: prova ne è il tentato suicidio per protesta di due coloni, che volevano darsi fuoco sulla loro auto e le ripetute minacce alla vita del premier Sharon. I coloni alzano il tono e qualcuno inizia a volte anche ad adottare la tattica del suicidio-omicidio, anche se finora non è mai avvenuto nulla di simile. Ma a parte i coloni, è comprensibile il malcontento anche nel resto di Israele, per una ragione di fondo: i palestinesi non rinunciano alla violenza, nonostante Abu Mazen e nonostante le prime elezioni. Hamas ha già annunciato di non voler deporre le armi: il nuovo leader politico, Khaled Mashaal lo ha dichiarato pubblicamente alla fine di maggio. E i fatti lo dimostrano: una pioggia di razzi Qassam si è abbattuta sugli insediamenti israeliani nei dintorni di Gaza e sulle cittadine meridionali in territorio israeliano, tanto che il capo del Consiglio di Sicurezza Giora Eiland ha dichiarato che l’esercito israeliano deve essere pronto a rioccupare, se necessario, i centri abitati palestinesi a ridosso degli insediamenti.

    La paura è che il disimpegno, già di per sé difficile, venga ostacolato da una pioggia di razzi e granate. L’incapacità delle forze di sicurezza palestinesi di mantenere il controllo del territorio di Gaza è dimostrata anche dalla crescita di violenza fra i palestinesi. La città, una delle aree più densamente popolate nel mondo, è in balia delle bande armate già da settimane. L’ultimo episodio di violenza è l’assalto (condotto anche con armi pesanti) contro il quartier generale della Sicurezza Preventiva. Ma solo dall’inizio di giugno si sono registrati molti altri gravi episodi di violenza, motivati da regolamenti di conti e faide: venerdì 3 l’alto funzionario Ali Faraj è stato assassinato assieme a suo fratello, molto probabilmente per una vendetta politica e familiare; lo stesso giorno, uomini armati di Al Fatah si sono scontrati con reparti della polizia e la sparatoria si è conclusa solo in seguito ad una difficile mediazione. Il giorno successivo, un diplomatico palestinese è stato sequestrato dai “Falchi” di Al Fatah al confine con l’Egitto. Estremisti e bande armate, insomma, imperversano nella città. Per lanciare un segnale forte, Abu Mazen ha ricominciato ad eseguire sentenze capitali, a partire dall’impiccagione di tre prigionieri e dalla fucilazione di un quarto, tutti condannati a morte per omicidio anni fa.

    Ma il pieno ripristino della pena capitale fa temere il peggio, perché tra i condannati ci sono ancora prigionieri che sono stati processati in modo sommario, anche con accuse di tipo politico. In questo scenario da incubo, è comprensibile che tutti abbiano letto, con attenzione e apprensione, quanto dichiarato dal capo di Stato Maggiore uscente, Moshe Yaalon, il quale teme che il disimpegno da Gaza non possa far altro che estendere il conflitto al resto di Israele: “Tel Aviv e Gerusalemme saranno come Sderot. Faranno attentati suicidi ovunque potranno. È altamente probabile che vi sia una seconda guerra terroristica (…) L’idea che possa esservi uno Stato palestinese entro il 2008 è semplicemente avulsa dalla realtà e pericolosa. Un tale Stato si adopererebbe per minare lo Stato di Israele e prima o poi vi sarebbe una guerra, una guerra che potrebbe essere pericolosa per Israele”. Cioè una terza Intifada, forse ancora peggiore rispetto alla seconda. E d’altra parte, al primo processo di pace e al ritiro dal Libano meridionale, la guerriglia palestinese aveva risposto lanciando la seconda Intifada. Perché escludere che al ritiro da Gaza segua una terza Intifada?

    15 giugno 2005

    stefano.magni@fastwebnet.it
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  7. #7
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    " 17-06-2005
    La terra promessa degli investimenti High-Tech, e non solo

    Si è tenuto giovedì a Milano un convegno, promosso dall’associazione Israele.net - Notizie e Stampa, sulle nuove opportunità di investimento in Israele. All’incontro hanno partecipato, tra gli altri: Roger Abravanel e Yoram Gutgeld, Direttori McKinsey Milano; Andrew Viterbi, fondatore e direttore di Qualcomm; Dani Schaumann, manager di Pioneer Investments; Alessandro Corsi, Area manager del Gruppo Generali, Vered Dar di Psagot Ofek e Shouky Oren, CEO della Bank Leumi Svizzera.

    “Israele, dopo tre anni molto turbati, è tornata a crescere al ritmo di 4-5% all’anno. Il trend è quindi in netto miglioramento e il governo israeliano sta attuando una politica economica chiaramente orientata a stimolare la crescita e a ridurre la spesa pubblica.
    "Grazie all'avvio di una politica di privatizzazioni, le grandi società pubbliche stanno raggiungendo ottimi livelli di reddittività e rappresentano interessantissime opportunità di investimento. Queste nuove opportunità si aggiungono al ben noto High Tech israeliano, da anni considerato un settore di punta che sta vivendo una crescita ancora più forte dopo la crisi del 2000, soprattutto rispetto all'Europa, e che ha premiato con ottimi ritorni gli investitori". Cosi riassume Roger Abravanel, Direttore Mckinsey Milano, alcuni dei punti chiave emersi nel convegno odierno "Investire in Israele", promosso dall’associazione Israele.net - Notizie e Stampa (www.israele.net), focalizzato ad approfondire le nuove particolari opportunità di investimento realizzabili in Israele.

    All’incontro, ospitato dalla Camera di Commercio di Milano, hanno partecipato, tra gli altri, oltre a Abravanel e Yoram Gutgeld, Direttori McKinsey Milano, Andrew Viterbi, fondatore e direttore di Qualcomm; Dani Schaumann, manager di Pioneer Investments; Alessandro Corsi, Area manager del Gruppo Generali; Vered Dar di Psagot Ofek e Shouky Oren, CEO della Bank Leumi Svizzera. Al convegno si è discusso in concreto delle possibili aree di investimento, quali venture capital, mercato finanziario, mercato immobiliare, start-up e fondi comuni israeliani. Il pubblico, che ben rappresentava le varie categorie del mondo finanziario italiano, ha seguito con grande interesse il convegno, dimostrando l'importanza dell'iniziativa che avrà sicuramente interessanti sviluppi futuri.

    Durante il convegno, alcuni esponenti del mondo economico italiano hanno raccontato le loro esperienze di investimento in Israele. Da quella "storica" delle Generali iniziata nel 1934, prima ancora della costituzione dello Stato, fino ai recenti investimenti nelle start-up tecnologiche di punta. È stata illustrata l'importanza dei forti incentivi varati dal Governo sin dagli anni '90, il contributo dell'immigrazione di ingegneri dalla Russia e il passaggio di tecnologie dall'ambito militare a quello civile: alcuni dei fattori chiave del miracolo tecnologico israeliano.
    Israele è al primo posto nel mondo per la spesa per ricerca e sviluppo civile (R&S) in proporzione al Pil, con una spesa R&S pari al 4,8%. Al secondo posto la Svezia (4,1%), seguita dalla Finlandia con il 3,4%. L’Italia figura al 15° posto (1%). Israele inoltre partecipa al sesto programma quadro di ricerca e sviluppo dell’Unione Europa ed è l’unico Stato Associato non europeo a prendere parte a pieno titolo al programma.

    (Da: www.israele.net, 16.06.05)
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  8. #8
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    " Il minimo che Israele si aspetta

    Da un editoriale del Jerusalem Post

    Dicendo ai palestinesi che gli Stati Uniti “saranno al loro fianco” quando faranno un sacco di cose che non hanno nemmeno iniziato a fare, il segretario di stato Condoleezza Rice lascia intendere che Washington non sarà al loro fianco se quelle cose non le faranno. Ma questo avvertimento così accuratamente velato, alla luce oltretutto della tradizionale indulgenza verso il rifiuto dei palestinesi di porre fine una volte per tutte alla loro jihad, semplicemente non è credibile.
    Ciò che manca, qui, è il riconoscimento che Israele sta già attraversando l’equivalente democratico di una guerra civile, e si sta imbarcando in un’altra tappa, che potrebbe essere anche violenta, mentre i palestinesi non hanno nemmeno iniziato la loro. Gli israeliani hanno attraversato il lacerante processo necessario per fare propria l’idea di uno stato palestinese, hanno perso un primo ministro e lungo il tragitto hanno completamente trasformato la loro politica. Ci vorrà ben più di qualche velata allusione alla possibilità di ritirare la “carota” per indurre i palestinesi a rivoluzionare almeno allo stesso modo il loro pensiero e le loro azioni.
    Occorre che gli Stati Uniti dicano chiaramente ai palestinesi che devono accettare i diritti nazionali del popolo ebraico in questa terra esattamente come Israele ha accettato i loro. Questo riconoscimento deve manifestarsi sul piano politico con l’abbandono del cosiddetto “diritto al ritorno” (dei profughi palestinesi e dei loro discendenti all’interno di Israele anche dopo la nascita dello stato palestinese), e sul piano concreto con l’abbandono permanente e definitivo del terrorismo, e il disarmo dei gruppi che si rifiutano di cessare la guerra. Ciò che bisogna mettere in chiaro in fin dei conti è che i massicci aiuti finanziari e diplomatici alla causa palestinese verranno ritirati se non verranno intrapresi questi passi, insieme alla democratizzazione necessaria per dare radici a questa rivoluzione.

    (Da: Jerusalem Post, 20.06.05)
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  9. #9
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    " 28-06-2010
    La lunga guerra interna del settimo giorno

    Di Amotz Asa-El

    Il salutare giorno in cui finalmente uscimmo dai rifugi, nel giugno 1967, non fu un giorno normale.
    Sopraffatto dalla vittoria, che fu tanto netta quanto inaspettata, e ispirato dal fatto che la calamità – che molti avevamo silenziosamente paventato – aveva improvvisamente lasciato il posto a un riscatto di dimensioni bibliche, l’intero Stato di Israele respirò a pieni polmoni l’aria frizzante di quella domenica mattina di primavera, crogiolandosi in un inebriante mix fatto di solidarietà nazionale, prestigio universale e cruda forza.
    Con i danni provocati dall’artiglieria giordana ancora ben visibili sugli edifici e nei cortili attorno a noi, procedevamo alla scoperta di ciò che per diciannove anni ci era stato precluso. Unendoci al corteo colorato e festoso di duecentomila israeliani, giovani e vecchi, ricchi e poveri, religiosi e laici, tutti in delirio, che sciamavano attorno al Monte Sion verso la Città Vecchia di Gerusalemme, in quella festa di Shavuot del 1967 ci parve che la panacea d’ogni male fosse a portata di mano, lì davanti a noi, e che tutte le sofferenze della storia ebraica fossero ormai alle nostre spalle.
    In realtà eravamo soltanto all’inizio di un altro arduo cammino destinato a durare decenni, giungendo quasi a stremare lo stato ebraico. Giacché la mattina dopo la fine della guerra dei sei giorni era già iniziata una nuova battaglia, una diatriba interamente ebraica destinata a spaccare in due Israele e gran parte della diaspora, lacerando pensatori, partiti, famiglie e persino singoli individui. Fu la guerra delle utopie ebraiche.
    Le scuole di pensiero che si sarebbero fronteggiate in questo confronto – “tutta la terra d’Israele” o grande Israele, da una parte, e “terra in cambio di pace”, dall’altra – non persero tempo nel prendere posizione. Entro l’estate 1967 era già chiaro, per esempio, che i due più acclamati scrittori israeliani, S.Y. Agnon e Amos Oz, erano su fronti opposti del dibattito che avrebbe dominato il discorso pubblico israeliano per la maggior parte dei decenni successivi.
    I fautori di “tutta Israele” furono più rapidi a organizzarsi. Nel settembre avevano già pubblicato una petizione sui principali quotidiani del paese: Vi si leggeva: “La Terra d’Israele è ora integralmente nelle mani del popolo ebraico, e così come è proibito perdere lo Stato di Israele, alle stesso modo ci viene comandato di mantenere ciò che ci è stato dato: la Terra d’Israele. Dobbiamo essere leali all’integrità del nostro paese, considerando sia il passato che il futuro della nazione; e nessun governo d’Israele ha il diritto di compromettere tale integrità”.
    Oggi un documento come quello non raccoglierebbe la firma di nessuno che sia appena un po’ a sinistra del Moledet di Benny Elon. Ma si era nell’euforico 1967 e la petizione venne entusiasticamente sottoscritta da icone del laburismo come Avraham Tabenkin e Eliezer Livneh, poeti come Haim Guri e Natan Alterman, scrittori come Moshe Shamir, Haim Hazaz e Yehuda Burla.
    Il campo opposto, benché messo in difficoltà dal generale senso di onnipotenza che prevaleva allora in Israele e dall’intransigente atteggiamento pan-arabo del tutto-o-nulla, raccolse rapidamente la sua propria schiera di notabili, dal filosofo Yeshayahu Leibowitz al generale Mattityahu Peled. Gli occupanti, avvertiva Amos Oz già nell’agosto di quell’anno, storicamente si ritrovano seduti “su spine e scorpioni finché non vengono rovesciati, per non dire della completa rovina morale che una prolungata occupazione determina nell’occupante”. Le occupazioni, aggiungeva, corrompono anche quando sono scaturite da guerre giuste.
    Persino l’ottantunenne David Ben-Gurion si schierò nella guerra delle utopie quando dichiarò, quello steso giugno ’67, che avrebbe preferito dare indietro tutto, tranne Gerusalemme.
    I politici attivi ci misero solo poche settimane per schierarsi. Inizialmente, quando tutti ancora si aspettavano che le superpotenze costringessero Israele a ritirarsi come avevano fatto dopo la Campagna del Sinai del 1956, la maggior parte dei partiti pensava in termini di “terra in cambio di pace”. Il 19 giugno il governo, che in quel momento comprendeva anche Menachem Begin e il Partito Nazionale Religioso – affermò ufficialmente la propria disponibilità a ritirarsi su confini internazionali in cambio della pace. Purtroppo i leader del mondo arabo respinsero l’offerta, permettendo così che la guerra fra utopie ebraiche si trascinasse e si infiammasse, fino a coinvolgere quasi tutti noi.
    All’inizio, in linea con la dottrina di Yigal Allon, gli insediamenti vennero costruiti per lo più su zone quasi prive di popolazione araba nella valle del Giordano, sulle alture del Golan, nel deserto del Sinai. Alla fine, dopo l’aavvento al potere del Likud nel 1977, ebbe la meglio la dottrina Sharon volta a creare insediamenti praticamente dovunque, in qualunque momento e a qualunque costo: col risultato di generare ciò che egli stesso oggi sta cercando disperatamente di disfare.
    La guerra delle utopie, intanto, diventava più acuta giorno dopo giorno.
    Da una parte la visita del presidente egiziano Anwar Sadat a Gerusalemme diede forte impulso alla scuola di pensiero “terra in cambio di pace”, il che spiega come mai Pace Adesso sia nata proprio nel 1977. Dall’altra, la perdita del potere da parte del partito laburista infuse nuova fiducia nella fattibilità degli insediamenti in tutte le terre al di là della Linea Verde.
    Ecco come arrivò Israele alla guerra in Libano del 1982, durante la quale la guerra delle utopie iniziò a sfuggire di mano. Benché provocate dal fallito tentativo di Ariel Sharon di ridisegnare il Libano, le manifestazioni di massa che ebbero luogo in quei giorni pro e contro Sharon vertevano in gran parte attorno alle visioni contrapposte sul destino dei territori. Così, ciò che era iniziato con i pamphlet per poi proseguire con controverse costruzioni, ora portava nelle piazze centinaia di migliaia di persone. Lo scoppio di violenze era solo questione di tempo.
    L’uccisione l’anno seguente dell’attivista di Pace Adesso Emil Gruenzweig durante una manifestazione politica davanti all’ufficio del primo ministro a Gerusalemme rese chiaro agli occhi di tutti che ciò che nel 1967 aveva generato un senso di euforia, in realtà aveva gettato i semi di una potenziale guerra civile. Nel decennio successivo, coloro che ancora si illudevano che la situazione fosse effettivamente gestibile restarono sconcertati ancora una volta e definitivamente dall’assassinio di Yitzhak Rabin.
    Ma la guerra delle utopie rischiava di rovinare lo stato ebraico anche in un altro modo. Essa infatti stremava tutte le energie del sistema politico, dedicate in modo sproporzionato al dibattito territoriale mentre venivano trascurati o evitati del tutto altri fondamentali dibattiti sulle forme dell’economia, sul sistema scolastico, sull’assistenza sanitaria, sulle infrastrutture per lo sviluppo.
    Per fortuna a quel punto l’israeliano medio era ormai disilluso da entrambe le scuole di pensiero. A suoi occhi, la guerra in Libano e l’intifada avevano dimostrato che la mentalità da “grande Israele” non era realistica, mentre la disavventura di Oslo aveva mostrato come altrettanto illusoria l’idea della “terra in cambio di pace”. In quel momento, più o meno quando divenne primo ministro, Sharon capì che ripristinare il consenso fra gli israeliani – quel consenso che lui più di altri aveva contribuito a infrangere – era strategicamente più imperativo della “grande Israele”. Non è un caso se proprio allora, nel momento in cui uno dei principali protagonisti della guerra delle utopie finalmente rinunciava a vincerla, per la prima volta dopo decenni il discorso pubblico israeliano cambiava rotta, incentrandosi su questioni interne ben più utili, come le riforme introdotte da Netanyahu e Dovrat.
    Tra poche settimane Sharon, quando porrà fine alla presenza israeliana nella striscia di Gaza fissando il nuovo, tacito obiettivo strategico d’Israele – ottenere confini internazionalmente tollerati che comprendano più terra e meno palestinesi possibile – in pratica porrà fine anche alla vana guerra delle utopie fra israeliani. Ed era ora.

    (Da: Jerusalem Post, 23.06.05)
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    " 29-06-2005
    ''Aliyah, istruzione, confini appropriati''

    Dal discorso del primo ministro israeliano Ariel Sharon martedì davani all’Assemblea dell’Agenzia Ebraica, riunita a Gerusalemme:

    In un articolo del 1923 intitolato “Maggioranza”, Ze'ev Jabotinsky definiva in questi termini lo scopo del sionismo: “La creazione di una maggioranza ebraica – scriveva – era, è e sarà sempre l’obiettivo primario del sionismo, di tutto il sionismo”. Nei tempi successivi alla pubblicazione di quell’articolo, siamo riusciti a realizzare l’obiettivo di creare una maggioranza ebraica nello stato di Israele. Tuttavia, l’esistenza di questa maggioranza non è ancora garantita. Oggi, l’obiettivo del sionismo è quello di garantire la maggioranza ebraica nello stato di Israele attivamente e con determinazione.
    Il primo passo per garantire la maggioranza ebraica è la aliyah, l’immigrazione da tutti gli angoli della diaspora, in particolare dal nord America. La aliyah garantisce non solo il futuro dello stato di Israele, ma anche il futuro del popolo ebraico. […] Per questo la aliyah è il primo obiettivo del mio governo.
    Parallela alla aliyah è la necessità di garantire la continuità delle comunità ebraiche nella diaspora. Il principale strumento per garantire tale continuità è attraverso l’educazione ebraico-sionista, unita all’educazione generarle più avanzata: scuole ebraiche, movimenti giovanili, centri comunitari per impartire valori ebraici alle giovani generazioni, e rafforzare i loro legami con il popolo ebraico e con lo stato di Israele. […]
    Quest’anno affrontiamo una sfida particolarmente difficile nel campo della aliyah. Il governo ha deciso di portare dall’Etiopia in Israele migliaia di Falash Mura. Ne favorivamo l’immigrazione di trecento al mese, ma ho sottoposto al governo una risoluzione volta a raddoppiare a seicento al mese. Nei campi in Etiopia vi sono ancora circa 17.000 Falash Mura. Intendiamo portarli in Israele entro tre anni. A quel punto i campi saranno chiusi e le attività degli ebrei etiopi si svolgeranno in Israele. Come assorbirli e integrarli e il vero test, che richiede enormi sforzi da parte nostra. Il popolo ebraico deve affrontare unito questa sfida perché abbia buon esito.
    Un altro passo essenziale per la maggioranza ebraica nello stato di Israele è definire dei confini che garantiscano una maggioranza consolidata, assicurando nello stesso tempo la sicurezza dei nostri cittadini. Non intendo tornare sulle discussioni statistiche fra demografi circa le dimensioni delle varie comunità nella Terra d’Israele. Quello che è evidente è che non possiamo garantire una maggioranza ebraica in ogni sua parte, e che non abbiamo nessun desiderio di governare su milioni di palestinesi, dovendo fornire igiene pubblica a Rafah, servizi sanitari a Gaza, presidi veterinari a Khan Yunis eccetera. Sognavamo uno stato per gli ebrei su tutte le parti della Terra d’Israele. Purtroppo non possiamo realizzare interamente questo sogno. Quello che possiamo fare è realizzare parti considerevoli e importanti di quel sogno, e concentrarci su questo sforzo.
    È sulla base di questo ragionamento che ho avviato il piano di disimpegno, approvato dal governo e dal parlamento israeliani. Ci stiamo ritirando dalla striscia di Gaza, un’area nella quale non c’è la possibilità di creare una maggioranza ebraica e che, come è chiaro a tutti, non farà mai parte dello stato di Israele in nessun accordo finale. Nello stesso tempo stiamo impiegando la maggior parte dei nostri sforzi per garantire la nostra esistenza nelle aree più importanti: la Galilea, il Negev, l’area di Gerusalemme, i blocchi di insediamenti, le zone di sicurezza strategica.
    Il futuro immediato non sarà per noi un periodo facile. Ritirarsi dalla striscia di Gaza è difficile e doloroso per tutti. Ecco perché è particolarmente importante affrontare uniti questo periodo. Sono molto vigile di fronte ai tentativi da parte di una piccola minoranza che infrange la legge e intende usare la forza contro i nostri soldati e le nostre forze di sicurezza. Questa minoranza non rappresenta tutti i coloni. Dobbiamo tutti ricordare che gli appelli alla disobbedienza dei soldati e i tentatavi di stravolgere la vita degli israeliani sono atti che mettono a repentaglio l’esistenza di Israele come paese ebraico e democratico. Tutti noi, indipendentemente della nostre opinioni personali, dobbiamo opporci a questo, e sono certo che le autorità legali del paese adotteranno le misure necessarie per fermare questi comportamenti incivili.
    Le divergenze politiche esistono, e anzi fanno parte integrante della democrazia israeliana. Ma non possiamo permettere che le divergenze ci facciano dimenticare ciò che abbiamo in comune e ciò che ci unisce.
    Alla fine del suo articolo, Ze'ev Jabotinsky scriveva: “Il termine ‘stato ebraico’ è chiarissimo: significa maggioranza ebraica. Il sionismo inizia con questo, in questo consiste la base della sua esistenza, e su questo continuerà ad agire fino alla sua realizzazione o sarà perduto”.
    Sono parole valide oggi come le erano il giorno in cui furono scritte. Siamo tenuti a continuare a batterci per una maggioranza ebraica in Terra d’Israele. Se lo faremo insieme, uniti, se sapremo centrare gli sforzi sulle cose più importanti, potremo non solo evitare che il sionismo sia perduto, ma anzi garantirgli prosperità e successo. Sono certo che ce la faremo.

    (Da: MFA Information Department, 28.06.05)
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    www.israele.net


    Shalom

 

 
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