INTERVISTA
A colloquio con il sociologo francese che vuole rilanciare i concetti-chiave della teologia cattolica. A cominciare dall'«agape»

Boltanski: l'amore è adesso

«Il dono gratuito di sé sta nel presente, senza alcuna pianificazione del futuro Anche per una nuova vita»


Da Milano Edoardo Castagna

La sociologia, come disciplina accademica, non è mai andata molto d'accordo con la religione. Fortemente influenzati dal marxismo, i sociologi hanno a lungo lavorato più sulla critica che sulla comprensione della tradizione cristiana. Una situazione sbilanciata, che il francese Luc Boltanski cerca di correggere attraverso un recupero laico di alcune nozioni elaborate dalla teologia cristiana e ricche di implicazioni, ancora in gran parte da sfruttare, per le scienze umane contemporanee. Come l'idea di agape, di dono, che indaga nel saggio Stati di pace. Una sociologia dell'amore (Vita&Pensiero, pagine 168, euro 16,00) illustrato ieri in un convegno all'università Cattolica di Milano. Agape è la versione concettuale di quelle azioni umane che non appartengono né alle situazioni di conflitto, le più analizzate dalla sociologia, né alla passiva routine, ma che invece vedono gli uomini agire in modo consapevole e attivo senza porsi fini di utilità: il dono, appunto, la gratuità. Professor Boltanski, che cosa differenzia l'agire umano nelle situazioni pacifiche rispetto a quelle conflittuali? «Il livello di riflessività è più basso, le azioni sono immediate e incidono meno sulla memoria. Nella logica del dono gratuito l'uomo sta nel presente: non condizionato dal passato né, soprattutto, sbilanciato nel futuro. Nell'amore ciò che conta è l'adesso. Non il futuro, che porta alla pianificazione e al calcolo». Tuttavia spesso i sociologi hanno privilegiato, nella comprensione del presente, un'impostazione critica. Qual è il limite di questo approccio? «Il problema principale è trovare un punto d'equilibrio tra la critica e il suo opposto, cioè quello che chiamo "celebrazione". Poca critica e troppa celebrazione caratterizzano le società fasciste, integraliste o staliniste. Quando invece domina la critica, senza occasioni di celebrazione, la vita umana perde ogni attrattiva e diventa arida. In Francia come in Italia la tradizione comunista, principale portabandiera dell' atteggiamento critico nei confronti della società, aveva a lungo cercato di bilanciarlo attraverso la celebrazione del risveglio proletario nella lotta al nazismo. Era un equilibrio, condiviso anche dalla sinistra cattolica e dai socialdemocratici. Ma poi l'aspetto celebrativo è venuto meno: tra i comunisti a causa dei crimini dei Paesi a socialismo reale, tra i socialdemocratici e la sinistra cattolica per l'insuccesso del loro modello di Stato sociale. Oggi la situazione è squilibrata e siamo nell'impossibilità di ricreare una situazione di celebrazione». Lei crede che la sociologia possa uscire da questa difficoltà attraverso il recupero di alcuni concetti propri della teologia cattolica? «Sì, anche se storicamente le scienze sociali sono state costruite contro la tradizione cristiana, criticando le religioni in generale e il cristianesimo in particolare. Un'antipatia (talvolta reciproca: anche la Chiesa cattolica ha spesso criticato gli studi sociali che dimenticavano l'individualità delle persone) che credo vada superata. La teologia è una risorsa per la sociologia, come ho tentato di dimostrare attraverso l'uso di alcuni suoi concetti nell'elaborazione di una sociologia della morale, che non può pretendere di ignorare ogni tradizione di riflessione sulla condizione umana. E poi è bene ricordare che la maggior parte degli strumenti della sociologia vengono dalla filosofia, e a loro volta molti strumenti della filosofia vengono dalla teologia. Ma questo recupero diretto è ancora osteggiato. Io sono stato criticato perché, parlando di aborto, ho fatto riferimento al concetto patristico di "generazione dalla carne"». C'è forse un nesso tra la logica del dono gratuito e la scelta di generare una nuova vita? «Non direttamente con la scelta, che porterebbe a ragionare in termini di colpa. Tenendo presente ciò che la donna sente nel momento dell'interruzione della gravidanza, io credo che quello dell'aborto non sia tanto un problema di colpevolezza quanto un prob lema di lutto. Mentalmente, si tratta dell'interruzione di un progetto, perché è parte importante della moderna ideologia sulla riproduzione l'idea di progetto, che vede la vita non come una cosa contingente ma come uno specifico programma. Per quanto riguarda la scelta di generare un bambino, però, non credo siano necessarie spiegazioni. Il rapporto tra genitore e figlio non ricade sotto la sfera razionale delle relazioni di giustizia, è una cosa completamente differente. Avere un bambino è un impegno serio, lungo e difficile, e presuppone uno stato mentale molto vicino all'agape, al dono gratuito».


Avvenire - 29 aprile 2005