....come fanno certi antileghisti falsipadanisti
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Viaggio nel cattolicesimo liberale
Con Dio contro il potere
Viaggio nel cattolicesimo liberale
Tre riletture di grande attualità
di Alberto Mingardi
Riscoprire le ragioni del liberalismo cattolico è riscoprire le ragioni del liberalismo tout-court: la libertà individuale, come ideale occidentale per antonomasia, affonda le proprie radici nella cristianità. Nel Vangelo. E più ancora che nel Vangelo, nella Scolastica: San Tommaso, lo sappiamo, è stato fra i primi a legittimare la proprietà e a riconoscere quanto poi avrebbe scritto Bernard De Mandeville: cioè che vi sono vizi privati che possono essere pubbliche virtù. Da Tommaso d'Aquino, alla seconda Scolastica (soprattutto la scuola spagnola «di Salamanca») - che riecheggia nelle proprie teorizzazioni economiche quello che poi sarà l'austro-liberalismo di Menger, Bohm-Bawerk, Mises e Rothbard - fino a John Locke e Edmund Burke il passo è breve. Il merito di aver rivalutato questa tradizione di pensiero, di aver ancorato nuovamente le idee liberali alle proprie radici cristiane, va a Murray Newton Rothbard, dopo Ludwig von Mises il maggior interprete della Scuola austriaca nel Novecento, che nella sua monumentale «storia» di questo sapere dedicò grande attenzione a tutta «l'economia prima di Adam Smith». Che comprende, fra l'altro, pensatori cattolici e mediterranei. I quali sorprendentemente avevano la vista più lunga dell'autore della Ricchezza delle Nazioni. Per quanto riguarda la teoria del valore, per esempio. Ma anche per quel che concerne le dimensioni e i compiti dello Stato.
Juan de Marian ebbe parole dissacranti per i principi «che prosciugano le ricchezze degli individui e ogni giorno impongono nuove tasse». Non diversamente, Pedro Fernandez Navarrete definiva «mostri del mondo» i governanti che «succhiano come arpie» la prosperità dei popoli, tramite le tasse. Proprio per questo Diego de Saavedra Fajardo ammoniva che «il potere è pazzo e deve essere controllato con la prudenza economica». La Scuola di Salamanca, insomma, non giustificò l'arbitrio dei governi con la favola del «bene comune» («è regola generale che il bene comune debba essere anteposto al bene privato, ma è difficile sapere qual è il bene comune», annotava a proposito Bartolomé de Albornoz), anzi mise in guardia anzitempo dall'arbitrio del Potere (Pedro de Navarra: «le tasse possono essere tiranniche... in casi di estrema necessità, il popolo non è, in coscienza, obbligato a pagarle»).
Rileggere la Scolastica cristiana è di estrema attualità: aiuta a comprendere i vizi (di forma e non solo) da cui è affetta la Modernità, intesa non come progresso tecnologico ma come culla dello Stato, che infatti è «moderno» per definizione. Tale critica al «moderno» si ritrova facilmente nei tre autori, nei tre pilastri del liberalismo cattolico che qui presentiamo al lettore: si tratta di Lord Acton (visto da Padre Robert Sirico), di Frédéric Bastiat (riletto da Carlo Lottieri) e di Wilhelm Roepke (raccontato da Gerhard Schwartz). Acton è dichiaratamente anti-moderno, negli stessi termini in cui poi lo sarà Rothbard: egli coglie nell'affermazione della statualità i primi vagiti del totalitarismo, un affronto dichiarato alla libertà dell'individuo che invece è più garantita in istituzioni, sì, d'impianto «medioevale». Di qui l'elogio del federalismo americano (prima di Lincoln), e della Confederazione elvetica. Posizione condivisa da Frédéric Bastiat, pensatore dimenticato (alla stregua di Acton), forse perché declassato da Joseph Scumpeter a «giornalista economico» (quand'anche «il più brillante di sempre»). Eppure non solo polemista micidiale, ma teorico sul cui lascito vale la pena riflettere. Più moderato nella proposta politica, ma non certo con velleità compromissorie per quanto attiene i principi, fu Wilhelm Roepke l'ispiratore silenzioso della rinascita della Germania di Adenauer. Roepke seppe prevedere il carattere autoritario della nascente Europa unita, e mettere in guardia da un approccio «freddo e utilitarista» alle scienze sociali. Ebbe parole di fuoco contro il Welfare State. Perché, intuiva, avrebbe spazzato via le famiglie e le istituzioni di mutua protezione «spontanee». E, con esse, la solidarietà vera.
Alberto Mingardi
Con Dio contro il potere
di padre Robert Sirico
Lord Acton. Il pensiero di un grande dell'ottocento a lungo dimenticato
Mezzo secolo fa, nella prima e più articolata biografia intellettuale di Lord Acton, Gertrude Himmelfarb scriveva che «egli fa parte del suo tempo, più di quel che ha scritto ma è, ancora, uno dei nostri grandi contemporanei». Oggi, la stessa biografa, considerando il clima intellettuale e in particolare la cultura politica, non rivendica più per Acton nessuna «attualità». Secondo lei, anzi, Acton, che era fuori dai canoni dei suoi tempi ancor di più lo è rispetto ai nostri. Che abbia ragione oppure torto, la visione di Acton tuttavia possiede la più potente lente attraverso la quale si possono leggere gli ultimi giorni del nostro secolo, in cui l'evento politico più cospicuo è stato senz'altro l'ascesa e la caduta del totalitarismo secolarizzato. Il manifesto fallimento dello statalismo dimostra l'esigenza di una nuova prospettiva che integri un rinnovato apprezzamento della dignità della persona umana nella vita politica con uno spazio crescente per i motivi trascendenti che danno senso alla nostra esistenza - questi sono temi che hanno trovato spazio negli scritti di alcuni grandi pensatori contemporanei, come Giovanni Paolo II.
I contemporanei di Acton potranno averlo ritenuto brillante ma eccentrico, e potranno aver creduto che il suo entusiasmo per una fede vigorosa e assieme un ideale libertario fossero la bizzarria di uno studioso solitario. La sua visione della società libera sarà parsa loro come qualcosa di già realizzato, e preso per garantito, e i suoi oscuri presentimenti riguardo ai danni delle ideologie dispotiche saranno sembrate premonizioni senza senso. Erano gli anni infatti dell'Inghilterra vittoriana, tempi di prosperità e di una relativa stabilità politica. Le depressioni, le guerre mondiali e la pianificazione economica erano sconosciute in quel periodo. Gli Stati non possedevano armi di distruzione di massa come noi le conosciamo oggi. E non c'erano gulag, né migrazioni forzate. Il libero scambio e la cooperazione internazionale erano la norma, e le antiche famiglie d'Europa e d'America erano le forze trainanti della diplomazia. A differenza dei suoi contemporanei, Acton vedeva nei suoi tempi i germi del totalitarismo e intuiva quale pericolo le ideologie dispotiche avrebbero rappresentato per l'ideale della libertà. E cercò di sensibilizzare l'opinione pubblica su questi temi. Oggi, il suo approccio alla comprensione di storia, cultura, politica e sviluppi sociali svetta come esemplare e profetico, e il suo amore per la libertà unita alla fede, ben lontano dall'essere una bizza, ha ancora qualcosa da dire ai nostri tempi, a ogni livello di analisi. Certamente Rufus Fears ha ragione quando scrive che «la sua potente, originale analisi della natura della libertà individuale e politica e di quelle forze che rafforzano o mettono in pericolo la libertà, ha qualcosa da dire sui problemi più complessi della fine del Ventesimo secolo».
Lord Acton (1834-1902) nacque John Emerich Edward Dalberg-Acton, battezzato, cattolico di famiglia aristocratica, una famiglia con importanti lasciti nella storia europea da parte di entrambi i rami. Nato in Italia, cresciuto in Germania, allievo prediletto di uno dei più importanti teologi tedeschi, Ignaz von Döllinger, era un uomo d'incredibile erudizione, vista la sua immensa biblioteca, impreziosita da manoscritti estremamente rari. Era naturalmente portato per le lingue, non solo conosceva il latino e il greco ma parlava inglese con i suoi figli, tedesco con sua moglie, francese con la cognata e italiano con la suocera. Non ebbe mai una posizione accademica se non negli ultimi anni della sua vita, quando fu nominato Regius Professor of Modern History a Cambridge, e non ha mai completato un trattato sistematico, malgrado l'ambizione della sua vita fosse scrivere una «Storia della libertà» (non vi riuscì). Anche come esponente politico non esercitò mai un potere reale. Tuttavia, attraverso la sua vita, le sue lettere e le sue lezioni, esercitò un'incredibile influenza su alcuni dei più grandi intellettuali e statisti della sua epoca. In particolar modo, fu uno dei più ascoltati consiglieri di William Gladstone e contribuì in vario modo alle sorti del Partito liberale inglese. Tenne alta la fiaccola della libertà, sia in ambienti ecclestiastici sia nei circoli politici, incurante del fuoco incrociato dei suoi nemici. Fu al contempo un cattolico devoto, che non dubitò mai delle verità della fede, e un liberale sincero che si batté con ardore per la libertà di coscienza (la voce della religione, non il suo sostituto) e per il diritto di scegliere ciascuno il proprio dovere al di là di ogni imposizione politica. Aveva cominciato la sua carriera su posizioni simili a quelle di Edmund Burke, ma ben presto s'era allontanato dal conservatorismo inglese, approdando su posizioni più radicali. Gli calza a pennello quanto detto una volta da Russel Kirk: «alcuni di noi tendono a essere più moderati in gioventù che una volta cresciuti».
Per Lord Acton, «la libertà è il fine politico più alto» e l'esercizio dei propri doveri verso Dio e verso gli altri è il più alto fine della fede. Per quanto riguarda il mondo fisico, che sta a metà fra queste due forze, Acton ha scritto che «nessun Paese può essere libero senza religione. Essa crea e rafforza il concetto di dovere. Se non contribuisce l'idea di un "dovere" morale a mantenere un ordine fra gli uomini, sarà la paura a farlo». Acton credeva che le ragioni e il più alto fine dell'ordine politico fossero la protezione della santità della vita umana e la libertà dell'individuo, che ha descritto come «l'assicurazione che ogni uomo potrà essere protetto nel fare ciò che ritiene essere il suo dovere contro l'influenza dell'autorità e delle maggioranze, del costume e dell'opinione pubblica»; per questo di gran lunga il peggior pericolo per la libertà è rappresentato dallo Stato «che ritiene di poter tracciare la linea di demarcazione fra bene e male facendo affidamento sulla sua sola esperienza». La libertà invece è «il frutto delicato di una civilizzazione matura: in ogni epoca, il suo progresso è stato ostacolato dai suoi nemici naturali, l'ignoranza e la superstizione, dalla sete di conquista e dall'amore per le cose facili, dal fatto che l'uomo forte agognasse il potere, dal fatto che il povero brigasse per il cibo. Durante lunghi intervalli il cammino della libertà s'è drammaticamente arrestato... E in tutti i tempi gli amici sinceri della libertà sono stati rari...».
A differenza di molti filosofi di oggi, Acton rintracciava nell'avvento della cristianità la molla scatenante per l'affermazione della ricerca della libertà come tema centrale della cultura occidentale. Dal punto di vista della storia politica, il culmine di questo processo si ha con la rivoluzione americana. Sin dai suoi primi viaggi in America passando per i diari tenuti durante la guerra civile, Acton è arrivato ad ammirare l'originalità del federalismo americano - unità fra Stati governati separatamente - come il più efficace sistema di protezione della libertà dallo Stato Massimo. Non solo approvava le ragioni della rivoluzione, pur essendo inglese, ma riconosceva a pensatori come Thomas Jefferson, Alexander Hamilton, Daniel Webster e John C. Calhoun di essere «più validi» di parecchi pensatori europei. Sostenne la causa del sud secessionista contro quel nord che vedeva come un esempio di centralismo incipiente. Il generale Robert E. Lee scrisse ad Acton: «Come cittadino del sud, mi sento fortemente in debito con lei per la simpatia che ha mostrato per la nostra causa». Vi erano molte ragioni per la scelta di Acton, ma su tutte la più importante era la paura che il nuovo Stato, una volta centralizzato e consolidato, avrebbe tradito i principi di libertà che animavano originariamente l'ideale americano. Non solo. Egli, per primo, temeva quelle ambizioni militari che avrebbero portato alla nascita di un nuovo impero, stavolta a stelle e strisce: «Sarà impossibile in tempo di pace placare il potere dittatoriale che questa guerra ha conferito al presidente».
Il Potere è stato la bête-noire contro cui Acton ha combattuto per la durata di tutta la sua vita. «La storia non è una ragnatela tessuta da mani innocenti» scrisse, «fra tutte le cause che degradano e de-moralizzano gli uomini, il Potere è la più costante e attiva». «Il Potere dispotico è stato sempre accompagnato dalla corruzione della moralità». «Il Potere corrompe e il Potere assoluto corrompe assolutamente. I grandi uomini sono quasi sempre uomini cattivi». Sempre nell'opera actoniana l'antidoto all'accumulazione e all'abuso di potere è data dal diffonderlo, dal decentralizzarlo, dal confrontarlo con la pubblica opinione, e dal combatterlo con l'arma più potente mai forgiata contro il dispotismo: la fede religiosa. Il Potere può apparire in molte forme: lo Stato è soltanto la più cospicua e nefasta fonte del suo abuso. Su queste basi, si batté con passione contro i poteri temporali della Chiesa e ciò che vedeva come l'accumulazione di esagerate pretese da parte del Papato.
Fu il più sincero e profetico fra i nemici del nazionalismo e del razzismo di tutto il Diciannovesimo sceolo. Con il suo rintracciare in queste due patologie sociali i germi di un Potere illimitato fu uno dei pochi ad avvertire sin dai suoi tempi quei pericoli con cui l'Europa avrebbe fatto i conti nelle due guerre mondiali. Per Acton, il nazionalismo, inteso nel senso di un'identità di gruppo organizzato secondo linee geografiche o storiche, non era da deprecarsi in sé: il pericolo arriva quando questo sentimento viene usato dal Potere per organizzare il monopolio della violenza in una società. Durante le cosiddette «unificazioni nazionali», i sudditi di un governo vengono costretti a trasferire le proprie competenze a un'autorità verso la quale non hanno alcun attaccamento, sia naturale o storico. Questo fenomeno necessita di una manipolazione artificiale dell'opinione pubblica, e dell'invenzione dell'ideologia nazionalista e razzista come copertura per l'espansione del Potere. Ma Acton non biasimò solamente l'immoralità di alcune dottrine politiche; quello che attaccava era il tentativo di dirigere lo Stato verso un singolo, ben definito obiettivo, come l'unificazione di una nazione, o l'esclusione delle minoranze, o i vantaggi di una particolare classe sociale, la salvaguardia di un Paese o del Potere. Egli ci mise anzitempo in guardia: l'eliminazione della proprietà privata avrebbe portato alla tirannia, e non c'è sistema che tenda a imporre il Potere come una prigione permanente per la società tanto quanto il socialismo: «Il Diciannovesimo secolo ha visto la crescita del peggior nemico che la libertà abbia mai incontrato: il socialismo».
Ciò che rende estremamente interessante la posizione di Acton in merito sono i suoi argomenti: egli non sosteneva che il socialismo non avrebbe mai potuto funzionare, semmai che se l'avesse fatto, esso avrebbe definitivamente spazzato via la libertà individuale. E di questo Acton si rese conto prima dell'avvento del comunismo in Russia, del socialismo in Inghilterra, del fascismo in Italia, del nazismo in Germania, o del New Deal in America - cioè di tutte le varie forme di socialismo. E tuttavia non è solo lo «Stato totalitario» che dobbiamo temere e prevenire. Gli amici della libertà debbono opporsi anche a quello che oggi viene chiamato «lo Stato interventista», il governo che gioca con la burocrazia. «Non ha senso la pretesa per la quale, con l'obiettivo di mantenere l'equilibrio fra domanda e produzione, dobbiamo impiegare un esercito di amministratori e supervisori». Il suo buon amico Richard Simpson scrisse così, esprimendo sentimenti che Acton condivideva: «la burocrazia è senza dubbio l'arma e il tratto distintivo di un governo autoritario, in quanto consegna al governo che essa serve il Potere del dispotismo».
Siamo nel mezzo di una importante riscoperta, anche a livello internazionale, del pensiero di Acton. Il che potrà, dapprima, apparire sorprendente. Per decenni dopo la sua morte nel 1902, a eccezione della sua famosa citazione sulla corruzione e il potere, il suo pensiero veniva ignorato o dimenticato dagli storici e dagli studiosi di storia delle religioni. Comunque, dal 1989 e dal collasso della pianificazione economica e sociale nell'Europa dell'est, ha acquisito una nuova evidenza l'importanza morale e pratica del liberalismo. La maturazione e il crescente vigore dell'economia di mercato hanno reso possibile una prosperità senza precedenti in tutto il mondo, mentre la marcia delle istituzioni democratiche seguita a fare passi avanti dappertutto, abbattendo sistemi autoritari in Asia e in America Latina e sostituendoli con forme di governo più pacifiche. Nello stesso tempo, il mondo della politica e l'accademia hanno incominciato ad accettare l'inevitabilità della fede religiosa come forza propulsiva per importanti mutamenti culturali e politici. A differenza del periodo in cui il liberalismo classico nacque come teoria politica, tempo in cui era universalmente assunto che la fede religiosa fosse un anacronismo medioevale che sarebbe stato soppiantato dalla fede nella ragione e nella scienza, stiamo arrivando a comprendere che la religione è qualcosa di più di una moda o di un istinto primordiale che svanisce con il progresso sociale. Il desiderio di conoscere e amare Dio, come il creatore della moralità e della chiave epistemologica per trovare il significato ultimo del vivere, è quasi un tratto universalmente distintivo della razza umana, e non può essere eliminato senza eliminare l'essenza più profonda della persona.
Di eguale importanza è che queste tendenze si verificano alla fine di un secolo in cui il sangue è stato fatto scorrere a fiumi dagli Stati mentre, paradossalmente, si è diffusa con la libertà di mercato più prosperità che in qualsiasi altro periodo della storia umana. Non possiamo sbagliare notando, ancora, che i più mostruosi ed efferati omicidi i governi non li hanno compiuti in nome della fede religiosa tradizionale ma in virtù di nuove ideologie politiche, o di religioni «civili» e artificiali, come il comunismo, il nazismo e il fascismo. Vittime - e numerosissime - di questi governi furono coloro che restarono aderenti alle loro fedi tradizionali: i cristiani per quel che riguarda il comunismo, gli ebrei per quanto attiene il nazismo. Quei regimi ostili alle tradizioni religiose sono stati per la libertà individuale più pericolosi dei più intolleranti governi teocratici del passato (che sono comunemente biasimati per il loro, ancorché blando, abuso dei diritti umani). Ancora, coloro che continuano a mettere in guardia da una libertà che sorga da convinzioni religiose dovrebbero ricordarsi i pericoli di una convinzione religiosa che sorge dal fallimento nel mantenere la libertà come la priorità politica preminente.
Noi siamo giustificati nella speranza che queste enormi forze culturali - la domanda di libertà e la continua presenza e bisogno di fede religiosa - stiano emergendo da un nuovo consenso internazionale, sia culturale sia politico, in cui dipendono l'una dall'altra. Questa nuova comprensione dovrà riconoscere che queste due grandi forze sociali devono riconciliarsi e integrarsi. Potremmo metterla in questo modo: abbiamo provato la libertà senza la fede e abbiamo visto che conduce all'anomia sociale e culturale; abbiamo provato la fede senza religione e abbiamo visto che essa crea fanatismo e corruzione; quello per cui stiamo lottando oggi sono ordini sociali che siano consapevoli della verità religiosa e allo stesso tempo abbraccino i diritti dell'individuo, la produttività dell'economia libera, e il rispetto per le differenze individuali e di gruppo, il pluralismo di una società libera.
Ciascuno di questi temi era centrale - ciascuno unicamente centrale - al mondo di Lord Acton. Dunque, non è impossibile capire perché in questo particolare momento c'è una riscoperta dello storico inglese. Egli fu lo storico della modernità e il teorico della religione e della libertà la cui vivificante prospettiva morale rinvigorì quanti erano stati resi perplessi dagli illuministi che vedevano un inconciliabile antagonismo fra fede e progresso, così come coloro che erano preoccupati dall'inevitabilità di una politica che fosse arbitrio del Potere. Per loro, per tutti noi, Acton contempla la possibilità di una nuova comprensione, di un nuovo modo di pensare, un nuovo inizio dove si concettualizza un ordine sociale in cui fede e libertà vivono un'esistenza armoniosa, dove ciascuna vigila sugli estremi dell'altra e nessuna delle due scende a compromessi sui propri principi e sulle proprie fondamenta filosofiche. Non possiamo sbagliare nel vedere la potenza concettuale di queste idee, dopo un secolo in cui gli ammonimenti di Acton riguardo al potere e ai pericoli del relativismo hanno dimostrato di essere terribilmente attuali. Se anche Gertrude Himmelfarb è nel giusto dicendo che Acton è ancor meno un uomo dei nostri tempi che dei suoi, non deve mai affievolirsi la speranza che egli possa diventare un uomo del nostro futuro. Qual è del resto la più importante eredità che ci ha lasciato? Su tutto, l'amore per la libertà e il sapere, il rispetto per la vita e la coscienza individuale, la centralità del dovere nel compiere il bene morale, e la convinzione che una società più è avanzata meno può essere tutelata da una sola istituzione, ma piuttosto da una molteplicità di realtà cui va lasciata la libertà di crescere e svilupparsi indipendentemente dalle manipolazioni e dalle corruzioni del Potere.