Il sorriso di Silvia Baraldini
di Barbara Sorrentini
"Ore d’aria”, il film di Antonio Bellia sulla storia di Silvia Baraldini è in cerca di una distribuzione.
Il regista aspira ad un passaggio televisivo, perché quello sarebbe il luogo più adatto per far conoscere la storia di quell’italiana emigrata da ragazzina negli Stati Uniti e poi entrata a collaborare con le Black Panters per difendere i diritti degli afro americani. Arrestata nell’82 con l’accusa di aver partecipato a diverse azioni terroristiche, dopo lunghissime ed estenuanti trattative burocratiche, la Baraldini è rientrata in Italia nell’estate del ’99 per finire di scontare la sua pena. Oggi è ancora agli arresti domiciliari per motivi di salute.
Franco Bellia, già regista del documentario “Peppino Impastato: storia di un siciliano libero” che ha ispirato la sceneggiatura de “I cento passi” di Marco Tullio Giordana, ha raccontato il percorso di lavoro di “Ore d’aria: la storia di Silvia Baraldini”.
Quando hai iniziato a pensare ad un documentario su Silvia Baraldini?
Un anno e mezzo fa, quando ho avuto i primi contatti con Silvia e sono riuscito a completare il lavoro dopo un periodo molto lungo che ha visto la collaborazione di Gianni Minà, Lucio Manisco, Gianni Troiani, Emiliano Pecis, Ersilia Salvato, Renata Talassi e Oliviero Diliberto, che hanno partecipato con le loro testimonianze. C’è stato un aiuto anche da parte dell’Archivio del Movimento Operaio e dei musicisti che mi hanno dato i loro brani gratuitamente (NEST, CSI, GoodMorningBoy, PGR).
Entriamo nel dettaglio della struttura del film: ci sono le interviste alla gente che ha incontrato e aiutato la Baraldini e poi, soprattutto, c’è lei che racconta.
Sì, è una lunga intervista anche quella con Silvia, naturalmente questo è il perno del film. Nel documentario Silvia racconta se stessa, mentre tutti gli altri contestualizzano il periodo storico che via via si va raccontando: sono 30 anni di storia, dagli anni ’60 ad oggi. Si tratta di un lungo percorso storico che passa dalle Black Panters, alle proteste contro la guerra in Vietnam, fino al suo arresto, la lunga carcerazione e finalmente al suo ritorno in Italia.
Com’è stato il rapporto con Silvia durante il lavoro?
E’ stato ottimo, ed è stato possibile realizzare questo documentario probabilmente soltanto grazie a questo rapporto di fiducia che si è instaurato quasi immediatamente con Silvia e che mi ha permesso di lavorare in tranquillità. La situazione era molto delicata, ma Silvia si è affidata totalmente al progetto. E alla fine le è piaciuto, è stata la prima a vedere il film finito.
Dove avete girato?
A casa sua, a Roma, perché lei era già agli arresti domiciliari. Io le ho fatto una serie di interviste che poi ho montato con delle sequenze negli Stati Uniti e immagini d’archivio sui movimenti delle Black Panters e contro la guerra in Vietnam.
Roma e gli Stati Uniti sono stati i due centri geografici del mio lavoro.
C’è un racconto o un momento della chiacchierata con Silvia riportata nel film che ti ha colpito particolarmente?
Beh, sono tanti, ma forse due mi hanno colpito più degli altri. Uno si riferisce al periodo in cui Silvia ha cominciato a fare politica, che ha coinciso con un momento molto drammatico per gli Stati Uniti, come il durissimo scontro tra le Black Panters e l’FBI. Nel racconto di Silvia poi è, ovviamente, molto forte la sua esperienza in carcere, soprattutto in quello di Massima Sicurezza a Lexinton, dove è stata rinchiusa per 19 anni e qualsiasi diritto umano veniva atrocemente calpestato.
Un’altra cosa che mi ha colpito è il grande coraggio, la grande dignità e coerenza con cui lei racconta questo suo periodo. E poi la cosa più commovente è il rapporto con la madre, è rimasto incompiuto, perché quando la mamma è morta Silvia non ha potuto vederla o starle vicino poco tempo prima. Questo è stato un momento molto duro da superare, per Silvia.
Nel documentario però escono anche delle cose positive: c’è il sorriso di Silvia che è stupendo. E’ la forza maggiore del film, perché buca lo schermo. E’ stupenda.
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