"Solo nella comunità diventa dunque possibile la libertà personale" Marx-Engels

Ricevo e pubblico

L'articolo di questa pagina è tratto, per gentile concessione degli Autori, dal libro inedito di EUGENIO ORSO e COSTANZO PREVE dal titolo Global class, Pauper class e Middle class proletariat


Che ne è stato della lotta di classe e dove sono le classi sociali?

di Eugenio Orso


Se qualcuno crede ancora e fermamente nell’esistenza delle vecchie classi sociali, quali attori principali dello scontro sul terreno economico e quindi su quello politico, rischia di fare la figura di uno stregone africano d’altra epoca, la cui “magia” in Europa non poteva dispiegare i suoi effetti, perché ostacolata dall’elettrificazione di tutto, dalla nuova forma di “alimentazione” irrinunciabile, con tanto di fili della luce e tralicci …
Anzi, in alcuni casi rischia di essere non soltanto blandito o deriso, il che potrebbe essere il caso dello stregone africano, ma di fatto emarginato e sottilmente o manifestamente perseguitato – come lo furono gli ellenisti dai cristiani ormai prevalenti in Alessandria e in Roma –, in quanto percepito quale portatore di una forma postmoderna di “primitivismo”, l’epigono di una cultura sconfitta che mal si sposa con i fondamenti di questa avanzatissima società aperta, inserita in un contesto globale e le cui dinamiche rispondono, in ultima analisi, alla ferrea logica economicista del profitto nell’infernale rincorrersi di produzione e consumo, ma più di recente di moltiplicazione di una ricchezza finanziaria e fittizia, anche se la Megamachine a bordo della quale nostro malgrado ci troviamo, descritta con maestria da un Serge Latouche, sta rallentando vistosamente e le mythe du Progrès pare che sia destinato a sfumare lasciando il posto a una decrescita forzata, in conseguenza delle incalcolabili proporzioni del dissesto generato, su tutto il pianeta, dalla finanza “creativa” e di rapina. Questo perché effettivamente sembra che le classi, così come le raccontavano tre grandi tedeschi, quali furono Max Weber, Werner Sombart e Karl Marx, nella palude sociale della postmodernità in cui tutti noi stiamo vivendo – italiani, tedeschi, inglesi, americani e persino cinesi – sono soltanto un ricordo sbiadito di un passato ormai lontano e se sopravvive qualche “vestigia” della loro presenza, della loro etica più profonda, dei loro costumi, assieme all’eco delle lotte epocali che tale contrapposizione ha scatenato, è ormai diventata per i più irriconoscibile.
Inutile evocare, oggi, gli spettri del materialismo storico, i fondamenti della teoria del plusvalore, fino a spingersi a discutere dell’attualità del concetto di General Intellect di marxiana memoria, piuttosto che le caratteristiche del tipo biopsichico borghese appartenute ad un altro secolo, così come sono state descritte da Sombart nelle sue opere, oppure ricercare le basi etiche dello “spirito” di un capitalismo che non c’è più, il suo ethos, come fece il Weber dell’etica protestante e della sociologia delle religioni. Inutile cercare tracce evidenti della presenza della vecchia e coriacea classe operaia, con le sue avanguardie e le sue aristocrazie sospese fra tentazioni egemoniche e compromessi social-democratici, quando si entra in una fabbrica sopravvissuta alla delocalizzazione, alle ristrutturazioni, alla finanziarizzazione dei mercati globali e alla recente, progressiva contrazione degli stessi.
Ci si dovrebbe muovere in una vasta “cintura della ruggine”, estesa dagli Stati Uniti d’America all’Europa occidentale e ricordo di un’altra età di questa società della crescita, rischiando di non poter più essere compresi da chi vive totalmente immerso nella presente realtà e ne è prigioniero.
Certo, l’interesse per l’opera di Marx, di Weber e di Sombart vive ancora ed è in qualche misura giustificabile, se si vuole da lì partire per comprendere e analizzare i fondamenti della realtà postmoderna, ma si deve sempre aver presente che uno sconvolgimento del vecchio ordine sociale, nei rapporti economici locali e internazionali, negli stessi rapporti politici fra gli stati e all’interno delle organizzazioni statuali, nonché un grande mutamento culturale e antropologico di ancor maggiore importanza, sono in atto quanto meno dagli anni ottanta dello scorso secolo, in particolare nell’occidente del mondo.
L’avvento del neoliberismo e del nuovo mito di una benefica globalità fondata sull’estensione massima dei mercati e la tendenza alla piena libertà di circolazione dei capitali, la prevalenza dei modelli economici anglosassoni fortemente basati sulla delocalizzazione delle attività produttive a bassa intensità di capitale e sull’espansione della dimensione finanziaria, nonché il tentativo di affermazione a tutte le latitudini di quella democrazia liberale, basata su rappresentatività e delega, funzionale a gestire tali disegni per adattare al nuovo ordine gli stati nazionali e le tradizionali federazioni, ha prodotto almeno due effetti concreti a mio sommesso avviso rilevanti:
1) La limitazione dell’autonomia decisionale dei governi dei singoli stati e l’asservimento delle oligarchie politiche locali a interessi privati transnazionali, al fine di controllare ovunque le politiche economiche, fiscali e sociali, utilizzando una varietà di strumenti, che vanno dagli accordi commerciali internazionali, soggetti a regole stringenti per chi vi aderisce, a sofisticate forme di corruzione – fra le quali rientrano le consulenze pagate dalla banca d’affari Goldman Sachs, ad esempio, a V.I.P. politici temporaneamente privi di incarichi –, fino all’azione dei vecchi istituti figli di Bretton Woods, quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, rivolta sia all’interno dell’occidente industrializzato sia verso l’esterno, nei confronti di paesi appartenenti ad altre aree di civiltà e culturali, ai quali è stata imposta la “apertura al mercato” con il vero e proprio ricatto dei finanziamenti e del debito. In quest’ottica sostanzialmente rientrano quelli che lo scrivete ama definire gli “organi della mondializzazione” presenti nel nostro continente, l’Unione Europea con la più ristretta Unione Europea Monetaria e la Banca Centrale Europea, squisitamente privata e autonoma nel decidere politiche monetarie e tassi, che da tempo danno un contributo essenziale, oltre che all’allargamento dei mercati e all’internazionalizzazione dei servizi, anche alla demolizione di alcuni fra i sistemi di Welfare più avanzati nel mondo. Si richiede “moderazione salariale” in nome del controllo del debito pubblico e dell’inflazione – anche quando il pericolo può diventare la deflazione – con il reale intento di sostenere il monte profitti di alcuni privatissimi potentati.
2) Lo scardinamento pianificato dei vecchi equilibri sociali, che concretamente deriva dal mutamento culturale in atto oltre che dalla demolizione dei sistemi di protezione sociale esistenti e dallo spostamento di quote sempre più rilevanti del prodotto sociale dal lavoro al capitale, con la progressiva frantumazione e atomizzazione delle società e delle comunità locali alla quale abbiamo assistito, in buona misura impotenti se non inconsapevoli, in questi ultimi due o tre decenni. Ciò ha significato, nella sostanza, l’impoverimento di vaste fasce di popolazione con conseguente riduzione delle risorse da destinare all’istruzione del singolo e alla sua crescita sul piano della conoscenza, la diffusione di modelli culturali ad hoc [o sottoculture?] utilizzando vari strumenti per veicolarli – si va dalla penna mercenaria di molti intellettuali e giornalisti alle piacevolezze offerte dalla così detta televisione generalista a chi non ha altre fonti d’informazione –, la cooptazione nel sistema di gruppi o forze politiche e sociali che rivelano tratti antagonisti, al fine di neutralizzarle, com’è avvenuto di recente in Italia, paese in cui pressoché tutti i sindacati – tutti meno uno, in verità: l’indomita CGIL – hanno mostrato di accettare misure aberranti sul piano sociale proposte dalla politica di sistema, come lo svuotamento di contenuti del contratto nazionale di lavoro, garanzia prima dei lavoratori dipendenti, e l’introduzione dello sciopero “virtuale”. Dopo aver preparato il terreno culturalmente e politicamente, si passa all’offensiva sul piano normativo, azzerando conquiste sociali essenziali e peggiorando le condizioni di vita di ampie fasce della popolazione. Una popolazione indebolita economicamente, espropriata di fondamentali certezze quali la stabilità del posto di lavoro o la possibilità di assicurare futuro decente ai figli, soggetta a forti condizionamenti mediatico-culturali che favoriscono la competizione a scapito della solidarietà, l’effimero a scapito dell’indispensabile, l’egoismo a scapito della generosità, priva di quel che un tempo si chiamava “coscienza di classe”, oltre che di una vera scala valoriale, ed anche della consapevolezza della propria forza nella società e dei propri inalienabili diritti, risulta più facilmente gestibile a basso costo – dai poteri esterni attraverso le comparse della politica liberaldemocratica e le strutture dei sottopoteri locali – e tende sempre più ad assomigliare a coloro che ingrossano i flussi migratori verso l’Europa e verso il nostro paese, o ai poveri contadini cinesi urbanizzati a forza, impiegati nelle produzioni industriali e poi rapidamente espulsi a milioni dal sogno “di un futuro migliore” nelle aree costiere di quel grande paese, in conseguenza del rapido estendersi della crisi sistemica globale.
L’imposizione di un nuovo ordine mondiale, a partire dagli Stati Uniti d’America, ha voluto dire anche imposizione di un nuovo ordine sociale, per consentire lo spostamento di ingenti risorse, prima destinate al ceto medio e agli strati inferiori di popolazione, nelle tasche di una classe emergente peggiore di tutti i dominanti che l’hanno preceduta, infedele nei confronti del paese d’origine quanto le imprese che possiede nell’epoca della delocalizzazione, nomade quanto i capitali finanziari che sposta da un capo all’altro del pianeta, priva di qualsiasi scrupolo nell’usare sia il resto dell’umanità, ridotta a mera risorsa intercambiabile, a fattore della produzione disumanizzato, sia le risorse ambientali – comprese quelle non rinnovabili – degradate al rango di capitale: il così detto capitale naturale che sarebbe possibile quantificare e ricostituire per le generazioni future. La Global Class, erede degenere dei vecchi padroni delle ferriere e dei grandi banchieri del passato, è la vera depositaria del potere e il primo centro decisionale nell’età della globalizzazione e del turbocapitalismo.
Sono i suoi interessi particolari – contrari all’interesse generale che pur esiste in ogni comunità umana – che hanno pilotato gli andamenti dei prezzi delle materie prime in questi ultimi anni, che hanno imposto la riduzione dei redditi di buona parte del ceto medio e dei lavoratori, che hanno rubato posti di lavoro e know-how ai paesi di vecchia industrializzazione per alimentare il mostro antiecologico, iperproduttivista, nutrito di lavoro sottopagato e coatto che va sotto il nome di “economia socialista di mercato” cinese, che hanno creato l’organizzazione mondiale del commercio e le sue regole, che hanno privatizzato i sistemi bancari, nonché le grandi aziende pubbliche e moltiplicato i prodotti finanziari in circolazione, speculando anche sull’indigenza, fino a raggiungere volumi dodici volte superiori al prodotto mondiale, che hanno informato le sciagurate politiche fiscali, sociali, commerciali e le disastrose avventure militari dell’amministrazione Bush. L’intero impianto della globalizzazione è stato costruito per soddisfare questi interessi. La stessa obsolescenza degli stati nazionali è un effetto della realizzazione dei loro disegni strategici e persino i confini dei futuri “blocchi di civiltà”, ipotizzati da Samuel P. Huntington in un suo inquietante saggio, sembrano troppo angusti in rapporto alle mire dei Signori della mondializzazione.
Quando si pensa agli esponenti della classe globale, per dargli un volto, il pensiero corre a quei baroni Rotschild impegnati in molti settori, dalla finanza all’agroalimentare, agli uomini che stanno ai vertici delle grandi banche d’affari americane, a Bill Gates di Microsoft con sogni monopolitistici in campo informatico, ai grandi percettori di stock options dalla piazza di Londra fino alle maggiori capitali finanziarie dell’Europa continentale. Americani, ebrei, europei occidentali, dunque, ma non soltanto.
Ne fanno parte, a pieno titolo e a detta di chi scrive, anche i principi della tribù degli al-Saud che dominano dagli anni venti dello scorso secolo l’Arabia Saudita, con le sue preziose riserve di petrolio, e sono una colonna portante dell’OPEC fin dai tempi di Yamani e del grande shock petrolifero degli anni settanta, nonché i mafiosi russi della satrapia putiniana, che fondano il loro potere sul gas naturale di Gazprom, sul petrolio di Lukoil e, in subordine, sull’acciaio di Severstal, sui ricatti energetici e sulle scorribande militari nel territorio di piccoli paesi, ma, soprattutto, la classe dirigente cinese del locale partito comunista, dal “riformatore” Deng Xiaoping a Hu Jintao dei “tempi d’oro” dell’industrializzazione della fascia costiera del paese e dell’adesione alla O.M.C., con i nuovi ricchi del calibro di Huang Guangyu, recentemente travolto dagli scandali, che hanno acquisito tutti i tratti peggiori dei loro omologhi occidentali.
Questo ultimo gruppo di Signori della mondializzazione – nato dalla degenerazione del comunismo maoista cinese e dalla trasformazione dei territori e della società dell’antico impero di mezzo in un grande laboratorio del capitalismo ultimo e crepuscolare, con elementi residui di economia socialista – si rivelerà nel prossimo futuro il principale alfiere dei processi di mondializzazione economica, difendendo a spada tratta gli accordi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio per impedire che si affermino, a partire dal partner americano, pericolose tendenze protezionistiche volte a “chiudere” i mercati e a delocalizzare a rovescio, oggi ben riassunte nella clausola buy american.
Si ha quindi l’impressione che i nuovi feudatari globali non rappresentino un gruppo omogeneo, in termini di interessi e prospettive, come testimoniano anche le diversità di vedute e la presenza di autentiche fazioni – dai “globalizzanti” agli “europei” – all’interno del Bilderberg Club nell’ultima riunione annuale risalente alla primavera del 2008, e che gli attori orientali, direttamente insediati nei gangli vitali del potere pubblico e dello stato a differenza dei loro “colleghi” occidentali, i quali prediligono forme di controllo indirette delle risorse pubbliche e del prodotto sociale, avranno una parte sempre più rilevante nel quadro di un ipotetico, futuro governo mondiale … effetti della crisi sistemica globale permettendo, naturalmente.
Se dal lato occidentale il controllo delle risorse e delle politiche degli stati si è esplicato soprattutto in via indiretta, attraverso l’imposizione di regole da parte degli “organi della mondializzazione” e l’ammaestramento dei gruppi politici di governo e opposizione sistemica, nonché dei vertici delle istituzioni finanziarie locali – come è accaduto anche in Italia in occasione delle privatizzazioni, o meglio delle svendite di patrimonio pubblico, orchestrate da uomini di Goldman Sachs del calibro di Romano Prodi e Mario Draghi – in oriente, e segnatamente in Cina, mantenendo in vita il simulacro del partito comunista svuotato di “contenuti” maoisti, si è scelta la via del controllo diretto sull’economia e sulla società, visto che, come a tutti è ormai noto, statalizzazione non significa vera e propria socializzazione, obiettivo sul quale possono sinceramente puntare, semmai, il ribelle Hugo Chavez e l’idealista Evo Morales in America latina.
Si deve riconoscere, quindi, una certa validità al discorso lagrassiano del conflitto fra gruppi dominanti e della sua preminente importanza, rispetto a sub-conflitti fra dominanti e dominati – da studiare, però, all’interno delle dinamiche della Global Class e dei suoi variegati centri di potere – i cui esiti dovrebbero orientare tutto il sistema-mondo, determinandone le sorti.
Policentrismo e multipolarismo, tornati in auge di recente per effetto della crisi finanziaria, economica e sociale che ha investito il pianeta e ridotto la preminenza americana, in conseguenza del vistoso fallimento della finanziarizzazione selvaggia dell’economia e dell’incauto spostamento delle attività produttive lontano dal loro alveo d’origine, andrebbero propriamente riferiti alla lotta fra gruppi di potere all’interno della classe globale – che rappresenta i veri dominanti – il cui ethos sarà oggetto, si spera, di organici studi in futuro.
L’affermarsi di questa tutto sommato composita classe – destinata, nelle sue intenzioni, a occupare assieme ai suoi servitori e paggi i quartieri buoni della città illimitata di domani, lasciando al resto dell’umanità una sterminata periferia da incubo – è almeno in parte il prodotto dell’esportazione del modello dell’american way of life, dell’affermarsi dell’economia dei servizi di matrice anglosassone e di una società che il filosofo Costanzo Preve ha definito “senza classi”, mettendo in evidenza l’obolescenza della vecchia dicotomia borghesia-proletariato, in cui la principale divisione sembra essere quella, più fluida e meno caratterizzante sul piano dell’etica, fra poveri e ricchi, fra chi controlla direttamente o indirettamente le risorse e le grandi masse, mi sento di aggiungere, le moltitudini che da tale controllo sono escluse.
Infatti, queste masse sempre più numerose e sempre più depauperate, non possono oggi godere appieno del prodotto sociale che è frutto del loro lavoro, hanno ben poche possibilità di influire sulle scelte politiche degli stati e dei governi che direttamente le riguardano, in verità decise altrove, e sono state progressivamente espropriate anche del controllo sul così detto “capitale naturale”, che oltre alle fonti dell’energia comprende risorse indispensabili alla vita come l’acqua, per la quale – voglio ricordarlo – è in corso un processo di “privatizzazione” anche in Italia.
Si va delineando, dunque, da occidente a oriente un’estesa e composita Pauper Class – che comprende i poveri di Preve e i dominati di La Grassa, nonché la moltitudine di Hardt e Negri – costituita da tutte le vittime della mondializzazione economica, dell’estensione di quel sistema di razionamento ed esclusione, socialmente criminale, che è rappresentato dal libero mercato, dei tentativi di omologazione culturale e politica che hanno interessato intere aree del mondo, differenti per sviluppo storico, religioso e culturale, e dell’azione complessiva, sino ad ora vincente, dei gruppi di potere emersi nel contesto globale.
Anche questa super classe – che si contrappone alla Global Class – è molto variegata al suo interno, nascendo all’un tempo dal magma prodotto dalla dissoluzione delle classi o ceti tradizionali in occidente e dalla disperazione delle popolazioni del terzo e del quarto mondo, a partire da quelle africane, sospinte ben oltre la soglia della povertà da forme di nuovo colonialismo e dall’appropriazione delle risorse, attraverso compagnie multinazionali, nelle aree in cui vivono, e indotte ad ingrossare i flussi migratori verso il nord del mondo. Se da un lato lo spostamento di risorse dal lavoro al capitale, nonché lo spostamento di unità produttive fuori dai confini dei paesi di antica industrializzazione nella ricerca del costo di produzione più basso, hanno penalizzato impiegati, piccoli imprenditori, artigiani e aristocrazie operaie, riducendo da noi l’area del benessere materiale, dall’altro l’invasivo interesse del “socialismo di mercato” cinese – ultima frontiera del capitalismo del terzo millennio – per l’acquisizione delle risorse del Sudan e la recente svendita delle ricchezze del Madagascar, ecosistema con caratteristiche di unicità che non sarà più tutelato, hanno contribuito a mettere in saldo il terzo mondo, come di recente ha ben rilevato l’amico Manuel Zanarini in un suo articolo dal titolo, appunto, Il terzo mondo in saldo.
L’ampio spettro della Pauper Class va dai ceti medi declassati in Europa e negli Stati Uniti d’America – che rappresentano sul piano sociale il prodotto più evidente dell’affermarsi dei sistemi di Welfare, del compromesso fordista e di una timida giustizia distributiva, in quella fase in cui il capitalismo è sembrato per la prima volta rivelare un “volto umano”, ed anche il risultato dell’assunzione di una comune responsabilità, da parte dello stato e del capitale, nei confronti della società tutta – agli immigrati clandestini che spesso vivono ai margini non soltanto giuridici delle nostre società, occupando spazi urbani da noi dimessi e alimentando il lavoro nero oppure, in qualche caso, vere e proprie attività criminali, passando attraverso i così detti “nuovi poveri” che da noi, in Italia, sono già da tempo rappresentati dagli anziani pensionati e dai giovani precari.
Se ampliamo la visuale sul mondo – ben oltre il marciapiede sotto casa, dove incontriamo il sorridente vu cumprà africano che cerca di venderci accendini e libretti – possiamo arrivare fino ai contadini cinesi urbanizzati e costretti a lavorare per un salario di cento dollari mensili, a fronte di un lungo e prodigioso “sviluppo”, e agli agricoltori indiani oberati dai debiti e spesso portati alla disperazione.
Appare chiaro, quanto meno a chi scrive, che una storia rimessasi prepotentemente in movimento, dopo l’ubriacatura di liberismo, mercato senza limiti e democrazia per tutti, ci rivelerà nei mesi e negli anni venturi se la Global Class e la Pauper Class, emerse dallo sconfinato oceano della mondializzazione, si affronteranno in un duro scontro epocale, favorito dalle prevedibili asprezze della crisi sistemica e forse peggiore di quello che oppose per lunghi decenni la vecchia borghesia al proletariato industriale e se, fra subalterni di così diversa origine, potrà nascere una sorta di solidarietà o un’alleanza, almeno di natura tattica, contro lo strapotere dei Signori della mondializzazione. Avranno le due classi globali i loro Marx, i loro Weber e i loro Sombart, in grado non soltanto di produrre una vasta e illuminante letteratura sull’argomento, ma anche di anticipare i futuri cambiamenti economici e sociali e di influire su di loro? Ci sono ancora grandi personalità, nel campo delle scienze politiche e sociali, in grado di produrre analisi di ampio respiro e di spiegarci questa realtà, indicando una via d’uscita praticabile davanti al fallimento della globalizzazione?
Intanto, possiamo notare che alcuni accadimenti dei mesi precedenti testimoniano che lo scontro sociale è già ai primi inizi e rischia di aggravarsi e proseguire a tutte le latitudini, dalla breve occupazione fisica di Wall Street negli U.S.A. lo scorso anno, ai disordini provocati dagli operai cinesi rimasti senza lavoro nel Guandong, fino alla rivolta greca, che non è stata soltanto un sommovimento di giovani alternativi come qualcuno avrebbe voluto far credere, e al recente sciopero dei lavoratori inglesi contro le “esternalizzazioni” che sottraggono lavoro in loco.
Basti pensare che uno squalo dell’alta finanza del calibro di George Soros ha parlato di disintegrazione del sistema finanziario ed ha previsto disordini e turbolenze più gravi di quelle che si sono verificate durante la Grande Depressione, mentre i disordini arrivano fino in Lettonia e in Irlanda e in Gran Bretagna – il grande paese dell’Europa occidentale più finanziarizzato e più esposto al crollo, con il pessimo governo di Gordon Brown che è arrivato a detassare i banchieri – si prevede una calda primavera e una caldissima estate, in conseguenza delle proteste della Middle Class Proletariat, che della Pauper Class sicuramente costituirà l’inquieta avanguardia.
Infatti, i ceti medi ri-proletarizzati – pur essendo ben altra cosa rispetto al borghese ottocentesco – hanno nel loro DNA elementi sia della vecchia borghesia, nei suoi strati più bassi, sia del proletariato nei suoi strati più alti e, in particolare, della sua avanguardia operaia più colta e più specializzata.
La classe media ha rappresentato almeno in parte, estendendosi a tutto l’occidente “avanzato”, la realizzazione del sogno di una società comunque capitalista, ma caratterizzata dall’emancipazione dei lavoratori e dal progressivo prevalere dai “colletti bianchi” – espressione di un raggiunto benessere materiale e portatori della prospettiva futura di ulteriori miglioramenti, primi depositari delle ormai defunte aspettative crescenti – ed ha storicamente acquisito un’indubbia importanza, non soltanto numerica, sul piano sociale. Un potere finanziario nomade e internazionalizzato, liberticida e privo di scrupoli, quale è quello di cui è investita la classe globale, nell’era della delocalizzazione della produzione, della contrazione dell’occupazione nei settori più tradizionali e della diffusione dell’economia immateriale, non ha più necessità di servirsi di una numerosa e ben pagata burocrazia, costituita da “colletti bianchi” e capaci tecnici idealmente eredi delle vecchie aristocrazie operaie, che anzi può rappresentare un pericolo, essendo tali soggetti ben acculturati, con elevati livelli di scolarizzazione che consentono di comprendere e affrontare le complessità del presente e, almeno in parte, in grado di gestire autonomamente sistemi complessi, sostituendosi ai loro remoti padroni.
D’altra parte, va rilevato che fino a ora le rivolte delle sotto classi urbane – l’under class che genera, per dirla con degli esotismi, black or white riots e che rappresenta nel nostro mondo una sorta di epigono dell’inaffidabile Lumpenproletariat, costituito da ladri e delinquenti secondo lo stesso Marx – da Los Angeles, alla banlieue francese e a Londra, pur avendo prodotto significativi danni e vittime, nonché un certo allarme nei poteri locali e nel resto della popolazione, si sono rivelate inconcludenti, quanto lo sono le esplosioni di pura violenza, costellate di aggressioni, atti vandalici e saccheggi ma destinate ad affievolirsi e a spegnersi in tempi brevi.
Un ben altro significato e una ben maggiore pericolosità per il potere avranno, però, diffuse proteste promosse e guidate dal ceto medio declassato, consapevole di ciò che ha perduto e di ciò che potrebbe ancora perdere, tanto e vero che i governi già da un po’ di tempo si stanno preparando al peggio, dagli Stati Uniti d’America all’Europa, con stanziamenti di aliquote di truppe nelle grandi città e nelle “aree urbane sensibili”, com’è accaduto di recente in Italia, o con un aumento delle attività d’addestramento per fronteggiare situazioni di guerriglia.
Dovendo dare una risposta alla domanda posta nel titolo del presente scritto – Che ne è stato della lotta di classe e dove sono le classi sociali? – posso concludere dicendo che le nuove classi sono già presenti nelle formazioni sociali prodotte dalla globalizzazione e un’inedita lotta di classe, fra i Signori della mondializzazione e il ceto medio che teme di scomparire, sta per incominciare.