di Enrico Colombatto

Esponenti di governo, con toni compiaciuti, hanno annunciato che in settimana sarà rinnovato il contratto dei dipendenti della Pubblica Amministrazione, una vicenda che si gioca sul filo di circa cinque euro mensili medi (300 milioni di euro all’anno in meno nelle tasche dei contribuenti), oltre i 95 già promessi e ‘prenotati’. Probabilmente sarà così, tanto più che alla fine pagano i contribuenti, non i ministri coinvolti nella trattativa. Anzi, il ministro dell’economia, Domenico Siniscalco, spalleggiato da quello del Lavoro, Roberto Maroni, ha dovuto ricordare, con toni tra il preoccupato e il vagamente minaccioso, che i cinque euro in più (meglio ancora quattro) rappresentano una soglia invalicabile, non soltanto per non insidiare l’equilibrio dei conti pubblici, quanto per non generare disparità con gli aumenti concessi dai rinnovi nel settore privato, innescando ulteriori rivendicazioni con temibili effetti inflattivi.



Invece di perdersi dietro i cinque euro, sarebbe stato forse più utile se si avesse approfittato della questione-contratti per riesaminare qualche elemento di fondo. In sintesi, è lecito immaginare due configurazioni contrattuali distinte. La prima prevede una situazione in cui un contratto è scaduto da molti mesi, ma tutto procede come se niente fosse: il lavoratore continua a lavorare e il datore di lavoro continua a corrispondere la remunerazione pattuita in precedenza. Normalmente questo indica che le parti hanno tacitamente inteso proseguire il rapporto di lavoro alle vecchie condizioni. Altrimenti il lavoratore avrebbe venduto i propri servizi altrove, dove essi sarebbero stati più apprezzati e quindi meglio pagati. Parimenti, se non più soddisfatto, il datore di lavoro avrebbe potuto porre fine al rapporto e, se necessario, assumere un lavoratore con caratteristiche più vicine alle proprie necessità. Questo non è successo, il che lascerebbe intendere che finora entrambe le parti hanno giudicato adeguati i termini del rapporto.



Nella seconda ipotesi si può invece pensare che il contratto originariamente stipulato prevedesse un’assunzione “a vita”, di fatto slegata dal contenuto della prestazione lavorativa, con una remunerazione concordata al momento dell’assunzione ed eventualmente ri-negoziata a scadenze fisse.



Quale che sia l’ipotesi più vicina alla realtà, sembra che ora il venditore dei servizi (il lavoratore attraverso i suoi rappresentanti) ritenga la remunerazione attuale inaccettabile. Il buon senso suggerisce allora che, per prima di accettare le nuove condizioni richieste dal lavoratore, l’acquirente – cioè il ministro Baccini per conto del cittadino – sia persuaso (a) che i servizi lavorativi acquistati valgano effettivamente più di quanto corrisposto in passato, (b) che la quantità di servizi lavorativi acquistata sia effettivamente almeno pari a quella necessaria, (c) di non riuscire ad acquistare quei servizi presso altri venditori a prezzi più convenienti.



Non risulta che alcuna delle tre condizioni sopra menzionate sia stata molto considerata dal ministro Baccini (o da altri esponenti di governo). Eppure, non occorrono sondaggi per scoprire che il cittadino-contribuente è convinto che le sacche di inefficienza nella pubblica amministrazione sono enormi. Benché sia indubbio che vi sono molti dipendenti pubblici che svolgono il proprio lavoro con un impegno che va ben oltre il dovuto, è altrettanto certo che vi sono centinaia di migliaia di dipendenti che considerano il proprio contratto, almeno in parte, come una rendita perpetua, la conquista di un diritto sociale, più che una cessione di prestazioni lavorative a fronte di uno stipendio.



Il cittadino-contribuente è altresì persuaso che ingenti risorse umane, anche preziose, siano sprecate in mansioni assolutamente inutili, se non dannose; che non sia necessario assumere funzionari pubblici di un altro pianeta per avere un’amministrazione efficiente, poiché vi sono risorse umane disponibili, ma non utilizzate, anche in Italia; o che, comunque, le risorse attualmente utilizzate avrebbero stimoli ben diversi se fossero chiamate a confrontarsi periodicamente sul mercato del lavoro. E invece no. Si preferisce rinnovare i contratti in modo automatico, facendo finta di misurare il proprio rigore e il proprio senso del mercato giocando a tira e molla su cinque euro. Come se quei cinque euro decidessero le sorti delle elezioni. Peccato.



Una riflessione sui contenuti del contratto, quanto meno per gli enti centrali, avrebbe indotto numerosi dipendenti pubblici a smettere di bollare la cartolina. Valutando tale comportamento alla luce delle due configurazioni sopra menzionate, si sarebbe trattato della fine di un rapporto di lavoro o della rottura dei termini contrattuali: quel che, in un paese normale, corrisponde in entrambi i casi alla fine di un rapporto contrattuale. Ci saremmo trovati con migliaia di dipendenti pubblici in meno. E allora? Forse si sarebbero inceppati i congegni di regolamentazione statale. Ma, al tempo stesso, la maggioranza avrebbe avuto un’eccellente occasione per alleggerire la macchina statale, ridurne le competenze, aumentare le remunerazioni di coloro che davvero producono servizi dei quali il cittadino ha effettivamente bisogno. Non era appunto questo che, tempo fa, si proponeva agli Italiani?



Enrico Colombatto è Ordinario di Politica Economica presso la Facoltà di Economia, Università di Torino

Da Finanza e Mercati, 11 maggio 2005