http://www.corriere.it/Primo_Piano/P...1/stella.shtml

Basi americane e contratti, il conto piange

Ci vorrebbe Renato Carosone, il mitico autore di «Tu vuo¹ fa¹ l¹Americano».
Solo lui potrebbe raccontare la storia del conto in banca del governo Usa in
Italia presso Bnl: «Tu vuo¹ fa¹ ¹o napulitano / ¹pulitano, ¹pulitano...».
Con un colpo di genio estraneo ai cari vecchi valori di James Stewart ma
emulo piuttosto di «Totò truffa», il conto viene tenuto infatti sempre in
rosso, per sbertucciare i pignoramenti per le cause di lavoro perdute.
Un trucchetto che non fa molto onore allo Zio Sam. E che la dice lunga, in
questi giorni di tensione sull¹inchiesta per la morte di Nicola Calipari,
sul rispetto che certe volte gli amici americani hanno per le nostre leggi.
Punto di partenza per capire l¹inghippo è Vicenza. Che ospita, nella famosa
«caserma Ederle», una base militare statunitense che fa capo al Comando
Setaf (Southern european task force) ed è tra le più importanti non solo
d¹Italia ma d¹Europa. Al punto che, nei momenti di massimo allarme sul
fronte del terrorismo islamico, la città berica fu tra quelle considerate ad
alto rischio.
E¹ così grande, la base americana, che oltre alle migliaia di militari e a
circa 500 civili statunitensi, dà lavoro a oltre 700 persone con passaporto
tricolore, dipendenti formalmente del governo Usa ma regolate, nel loro
rapporto, dalla legge italiana e dal contratto collettivo valido su tutto il
territorio nazionale.
Territorio del quale la base, comandata (sulla carta, almeno) dall¹italiano
Salvatore Bordonaro, fa parte a tutti gli effetti. Tanto che le controversie
di lavoro dei nostri connazionali sono sotto la giurisdizione del Tribunale
del lavoro di Vicenza. Tutte cose in teoria pacifiche: la Convenzione di
Londra del 1951 firmata anche da Washington e resa esecutiva in Italia con
legge del 30 novembre ¹55 (e confermata da un accordo fatto a Parigi nel
¹61) dice infatti all¹articolo 2 che «le condizioni di impiego e di lavoro
e, in particolare, i salari e gli accessori, nonché le condizioni per la
protezione dei lavoratori, saranno regolate conformemente alla legislazione
in vigore nello Stato di soggiorno».
Tutto chiaro? Almeno in queste materie, a casa nostra e con i concittadini
nostri (precisazione indispensabile, dato ciò che si è visto dopo la bravata
omicida del Cermis o lo stupro di una ragazzina violentata da un soldato Usa
ad Aviano) valgono le regole nostre. E la cosa è stata riaffermata un paio
di volte anche dalla Cassazione a Sezioni Unite nel ¹96 e nel 2001. Gli
americani, però, non sono d¹accordo. E, anche se non hanno mai denunciato la
Convenzione di Londra, si regolano a modo loro.
Punto primo: nonostante la legge dica che ogni causa di lavoro dev¹essere
gratuita e non deve pesare manco per un euro sul dipendente che si rivolge
al giudice dato che tutti i passaggi sono «esenti, senza limite di valore o
di competenza, dall¹imposta di bollo, di registro e da ogni spesa, tassa o
diritto di qualsiasi specie e natura», loro esigono un pedaggio iniziale di
91 dollari. Da versare con bonifico a una società privata alla quale il
governo Usa ha dato l¹incarico di procedere alle notificazioni previste
dalla Convenzione dell¹Aja sul territorio statunitense, la Process
Forwardiung International di Seattle. La quale, oltre al balzello, esige una
traduzione di tutti gli atti. Traduzione che spesso contesta, dicono gli
italiani, con motivazioni non sempre limpidissime.
Punto secondo: durissimi su alcune cose, per le quali mettono la gente in
galera senza tante storie dopo la prima sentenza o condannano gli avvocati
difensori che la tirano in lungo a estrarre seduta stante gli assegni per
pagare una multa, come ha mostrato giorni fa Milena Gabanelli a «Reporter»,
gli americani sono assai meno rigidi con se stessi in materia di lavoro. La
legge italiana dice all¹articolo 431 che «le sentenze che pronunciano
condanna a favore del lavoratore per crediti derivanti dal rapporto di cui
all¹articolo 409 sono provvisoriamente esecutive »? Cioè che il datore di
lavoro condannato deve subito sganciare i soldi senza aspettare l¹appello e
la Cassazione, dalle quali eventualmente si vedrà restituire ciò che ha dato
ingiustamente? Il governo di Washington contesta. E non solo si appella
sempre fino all¹ultima istanza, cosa che ovviamente è suo diritto, ma
nell¹attesa non tira fuori un centesimo.
E' lì che lo scontro si fa duro. Il solo studio associato Mondin Campesan,
per fare un esempio, ha vinto sei cause per le quali non è mai riuscito a
strappare quanto fissato. Perfino per le due definitive ha dovuto
accontentarsi dell¹80%. Per le altre, ciao. Inutili le diffide, inutili le
ingiunzioni, inutili i tentativi dell¹ufficiale giudiziario di entrare nella
Caserma Ederle e pignorare qualche bene americano: sono tutti
«impignorabili» perché considerati «strategici». Compresi i vestiti o le
radioline hi-fi venduti negli spacci interni. In un memorandum firmato dal
colonnello Donald Drummer, il Department of the Army lo dice ufficialmente:
non ha intenzione di dare esecuzione alle sentenze dei tribunali italiani
finché non siano passate in giudicato.
E per tagliar corto sono arrivati a escogitare quel trucchetto che,
l¹avessero inventato a Forcella, sarebbe stato bollato come un gioco delle
tre tavolette alla napoletana: ogni volta che un ufficiale giudiziario
chiede di pignorare i soldi del governo Usa depositati alla Banca Nazionale
del Lavoro, gli viene risposto che non c¹è niente da pignorare: il conto è
in rosso. Sempre: 365 giorni l¹anno. Ogni sera infatti, accusano i legali
dei lavoratori, la banca segnala al governo di Washington, un attimo prima
di chiudere, di quanto è scoperto. E volta per volta il buco è ripianato con
l¹arrivo contestuale del necessario. Meglio: un po¹ meno del necessario,
così che il conto resti sempre in rosso.
Sulla faccenda, qualche tempo fa, è stata presentata una interrogazione
parlamentare firmata per primo dal senatore Antonio Iovene. Palazzo Chigi e
il ministero della Difesa non hanno mai dato risposta.
Gian Antonio Stella
02 maggio 2005