di Carlo Stagnaro - Indipendente
19/05/2005

“Quella sull’inquinamento atmosferico è una partita che l’Italia non vuole proprio giocare”: così Roberto Della Seta, presidente nazionale di Legambiente, di fronte alle perplessità della Commissione sul Piano Nazionale di Allocazione (PNA) delle quote di emissione di gas serra. Il PNA è lo strumento di cui ogni Stato membro si deve dotare secondo la direttiva “Emission Trading”, che dà attuazione in Europa al protocollo di Kyoto. Il PNA assegna agli impianti industriali la quantità di anidride carbonica (CO2) che potranno emettere nei prossimi anni. Se il limite verrà sorpassato, essi dovranno acquistare quote o pagare sanzioni. Di segno opposto la reazione degli industriali. Emma Marcegaglia, vicepresidente di Confindustria, ha chiesto al governo di intervenire “in modo deciso con Bruxelles in difesa” del PNA. Un giro di vite sulle emissioni porterebbe a un incremento del prezzo dell’energia: prospettiva contro la quale aveva messo in guardia, mesi fa, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas. “Un incremento della bolletta, che in Italia è già superiore del 30% rispetto a quella degli altri paesi europei, o un taglio delle emissioni assegnate ai diversi comparti produttivi – sottolinea Marcegaglia – avrebbero conseguenze assolutamente insopportabili per i settori industriali coinvolti che, peraltro, hanno già raggiunto un’elevata efficienza energetica in confronto agli analoghi concorrenti europei”. Sulla stessa linea l’Unione Petrolifera, che in una nota osserva come “una riduzione delle quote assegnate al settore, pari a 26,06 milioni di tonnellate di CO2 creerebbe gravi problemi di competitività per le aziende”. Intervenire sui trasporti è molto difficile. Il prezzo dei combustibili è già molto elevato. L’inasprimento della tassazione non è percorribile. D’altronde, non si può far fronte alle esigenze della società moderna ricorrendo a un potenziamento dei mezzi pubblici: autobus e treni non offrono quella flessibilità di orario e percorso che l’auto garantisce. E in ogni caso ci vorrebbe tempo, mentre la prima fase di applicazione di Kyoto (su cui sono calibrati gli interventi presenti) è nel quinquennio 2008-2012, cioè dopodomani. Il tempo è anche la variabile chiave su altri fronti, quali il miglioramento infrastrutturale e il turnover dei veicoli (il progresso incide molto sul livello degli inquinanti immessi in atmosfera). Altre misure possibili hanno a che fare col mix delle fonti energetiche adottate: che possono essere a tasso di emissioni ridotto (gas naturale) o addirittura nullo (nucleare e rinnovabili). Ma, ancora una volta, è il tempo a tirare un cappio attorno agli interventi necessari. Senza contare che le fonti rinnovabili (se si esclude l’idroelettrico) hanno costi molto superiori ai combustibili tradizionali, mentre il nucleare è attualmente fuori portata dal punto di vista politico. Il petrolio resta irrinunciabile, il carbone pure. Restano due vie, entrambe strette e tortuose, per andare verso Kyoto. Una è quella invocata da molti ecologisti radicali. Essi parlano di “risparmio energetico” ma, in pratica, intendono un taglio dei consumi. Purtroppo, o per fortuna, il mondo cammina nella direzione opposta: tutte le proiezioni indicano una crescita della domanda di energia. E’ una chimera sperare che la gente accetti spontaneamente di tenere la luce meno accesa, o rinunci al riscaldamento d’inverno o al condizionamento dell’aria d’estate. In realtà l’unico modo di spingere i cittadini a essere più parsimoniosi nei consumi energetici è un aumento dei costi, cioè della tassazione. L’ultima scappatoia è quella offerta dalla direttiva “Emission Trading” e consiste nell’acquisto di quote di emissione da paesi in linea con gli obbiettivi di Kyoto. Il protocollo mette a disposizione anche i cosiddetti meccanismi flessibili, che possono in alcune situazioni essere convenienti. Ve ne sono di due tipi: la “joint implementation” (che consiste nell’avvio di progetti poco inquinanti assieme ad altri Stati membri) e il “clean development mechanism” (che crea un incentivo al trasferimento tecnologico verso i paesi in via di sviluppo). Per essere in regola con Kyoto l’Italia dovrà adottare un mix di queste strategie – e probabilmente ciò non basterà. Secondo le proiezioni dell’Agenzia Europea per l’Ambiente, l’Italia mancherà l’obbiettivo di oltre il 10%. Anche in presenza di misure aggiuntive non riuscirà a raggiungere la riduzione negoziata con Bruxelles del 6,5% rispetto al 1990. In compenso, i costi di tali provvedimenti sono salati. Secondo una stima dell’UNICE (la Confederazione delle associazioni degli imprenditori europei) l’UE dovrà pagare complessivamente una perdita di mezzo punto percentuale del prodotto interno lordo all’anno. L’International Council for Capital Formation ha studiato il caso italiano, e ha trovato una cifra analoga: lo 0,5%. Questo significa che a causa di Kyoto ogni anno andranno persi, o non saranno creati, 51 mila posti di lavoro. “Il rispetto del Protocollo di Kyoto – spiega Corrado Clini, direttore generale del Ministero dell’Ambiente – dovrebbe comportare per l’Italia un costo, al netto dei benefici secondari, pari a circa 3,5-4 miliardi di Euro. Si tratta di un costo comunque rilevante, se si considera che la riduzione delle emissioni dell’Italia corrisponde a meno dello 0,5% della riduzione delle emissioni globali di anidride carbonica”.