INTERVISTA
Parla l'urbanista Peter Hall, vincitore del Balzan 2005: «Parigi ha sbagliato a sospingere i ceti popolari in enclaves etniche»
Se la periferia diventa ghetto
«I mega-progetti di recupero,come La Défense o Canary Wharf, vanno bene per le aree degradate del centro città, ma i sobborghi si recuperano spezzando l’isolamento delle minoranze»
Di Edoardo Castagna
Forse Chirac ha taciuto tanto a lungo perché ha la coscienza sporca. Ha destato perplessità il ritardo del presidente francese a parlare alla nazione sugli incidenti nei sobborghi di Parigi. Ma secondo l'urbanista e geografo inglese Peter Hall, che oggi a Berna ritirerà il premio Balzan per la Storia sociale e culturale delle città, «ciò che sta accadendo in questi giorni è diretta responsabilità di Jacques Chirac nella sua precedente incarnazione come sindaco di Parigi. Negli anni Settanta aveva sistematicamente trasformato i vecchi quartieri popolari della città storica in aree residenziali signorili: così le classi popolari si sono ritrovate trapiantate nei nuovi complessi suburbani, nelle vicinanze del dipartimento della Senna-St.-Denis. Ha esportato i problemi del futuro verso le periferie». Da decenni il geografo e urbanista inglese studia le città ed elabora progetti di pianificazione urbana, analizzando il rapporto tra creatività culturale ed epoca d'oro delle città dall'Atene classica alla Londra di fine Novecento, e anche per questo è in grado di inquadrare i fatti di questi giorni in una prospettiva storica ampia.
Allora, professor Hall, erano problemi obbligati a venir fuori?
«Certo. Basti rivedere i classici studi sociologici condotti a Chicago negli anni Venti. Già allora Robert Park e Ernest Burgess osservavano che le seconde e le terze generazioni di immigrati, nati ed educati interamente nel nuovo ambiente, rigettavano le usanze tradizionali dei loro genitori. Il risultato, sessant'anni più tardi, fu evidenziato da William J. Wilson: gli stessi afro-americani dei ghetti di Chicago, due generazioni dopo l'immigrazione dal Sud, si erano spaccati in due. Qualcuno era entrato a far parte della classe media tradizionale ed era uscita dal ghetto; gli altri erano andati a fondo, generando un sottoproletariato urbano. Allora un altro sociologo, il francese Loïc Wacquant, comparò il ghetto di Chicago con La Corneuve, uno dei sobborghi d i Parigi ora devastati dalla sommossa, e concluse che al confronto La Corneuve era quasi idilliaca. Sarebbe altrettanto contento oggi?».
Il suo concetto di "Zona d'impresa" - che mostra come il declino urbano possa essere prevenuto demarcando le aree fatiscenti delle città e aprendole all'iniziativa imprenditoriale, con impieghi direzionali, commerciali e residenziali - potrebbe essere d'aiuto anche nelle attuali condizioni di disagio di alcuni sobborghi europei?
«No, in casi come Parigi la soluzione può consistere solo nello spezzare la mentalità del ghetto, tirando fuori tutte le minoranze dai quartieri dove si sono isolate. Questo richiederà tempo e pazienza. Ma, se non lo facciamo, le conseguenze potrebbero essere disastrose. L'idea di Zona d'impresa, al contrario, si è rivelata quella di maggior successo in aree come il Canary Wharf, nell'area portuale di Londra, dove il totale declino del tessuto edilizio urbano era accompagnato da un grandissimo potenziale di riqualificazione. E qui, infatti, Londra ha creato un quartiere centrale d'affari, totalmente nuovo, che si è affiancato alla City e al West End. Ma si tratta di aree centrali di una città globale unica: la maggior parte dei centri urbani o suburbani non possiede un potenziale simile».
Oggi si punta molto a grandi interventi di vetrina: al posto delle Twin Towers sorgerà la Freedom Tower; la Cina e il Sudest asiatico fanno a gara nella corsa verso edifici sempre più alti e spettacolari: i grattacieli restano proprio indispensabili per la città moderna?
«Macché, non sono altro che simboli di virilità urbana, sterili tentativi di affermare che tu sei la prima città nella tua parte del mondo. Sarebbe meglio essere conosciuti per i propri buoni edifici, alti, medi o bassi che siano. Le nuove costruzioni dovrebbero mostrare un comportamento civile verso i propri vicini, adottando la scala di grandezza urbana ereditata dai secoli passati».
Perché a volte anche gli interventi di r iqualificazione più riusciti, pregevoli sia funzionalmente sia esteticamente, rimangono isole non comunicanti, quasi estranee alla città?
«Certamente c'è un problema quando i mega-progetti di sviluppo, come la Postdamer Platz a Berlino, La Défense a Parigi o la stessa Canary Wharf a Londra, appaiono come strutture chiuse in se stesse, completamente separate dalla vita degli abitanti e isolate dal tessuto storico della città. Ricordano un po' l'impressione che fa vedere una balena spiaggiata, e questo non deve accadere. I progettisti dovrebbero avere un miglior senso della struttura profonda della città per cui stanno lavorando, e soltanto dopo dar forma ai propri interventi».
È possibile evitare i rischi che a volte comportano le pianificazioni dall'alto, come alienazione o disaffezione della popolazione? Si possono includere i residenti nel progetto urbano?
«Ovviamente possono e devono essere coinvolti, attraverso una loro rappresentanza al tavolo dell'ente che promuove lo sviluppo, quale che sia. Ma c'è sempre il rischio che i residenti vogliano semplicemente mantenere invariate quell'area e il suo aspetto, magari senza rendersi conto che il mondo cambia».
Tuttavia da diversi anni la popolazione delle città europee si mantiene stabile. Hanno smesso di crescere?
«No, continuano a farlo, ma al di fuori dei loro confini amministrativi, nelle aree suburbane o, nei casi più estremi, in vaste e policentriche regioni metropolitane come l'Inghilterra sud-orientale, il Randstad olandese o la Lombardia. Aree ancora in crescita, che si espandono e che a volte si coagulano l'una con l'altra in megalopoli europee transnazionali. Oggi la sfida principale per l'urbanistica sta proprio nel pianificare e guidare la crescita di tali regioni».
Avvenire - 11 novembre 2005