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Discussione: Appunti per riflettere

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    Perchè non esiste una cultura di destra
    di Adriano Romualdi
    PERCHE NON ESISTE UNA CULTURA DI DESTRA
    Uno dei motivi che più ricorrono sulla nostra stampa e nelle conversazioni del nostro ambiente è la condanna del massiccio allineamento a sinistra della cultura italiana. Questa condanna viene formulata in tono un po' addolorato, un po' sorpreso, quasi fosse innaturale che la cultura si trovi ormai schierata da quella parte mentre a destra si incontra un vuoto quasi completo.

    Di solito si cerca di rendersi ragione di questo stato di cose con spiegazioni a buon mercato, quel tipo di spiegazioni che servono a tranquillizzare sé stessi e permettono di restare alla superficie delle cose.

    Si dice - ad esempio - che la cultura è a sinistra perché là si trova la maggior quantità di danaro, di case editrici, di mezzi di propaganda. Si dice anche che basterebbe che il vento cambiasse perché molti "impegnati a sinistra" rivedessero il loro engagement.

    In tutto questo c'è del vero. Una cultura, o meglio, la base di lancio di cui una cultura ha bisogno, è anche organizzazione, danaro, propaganda. È indubbio che lo schiacciante predominio delle edizioni d'indirizzo marxista, del cinema socialcomunista, invita ali'engagement anche molti che - in clima diverso - sarebbero rimasti neutrali.

    Ma ciò non deve farci dimenticare la vera causa del predominio dell'egemonìa ideologica della Sinistra. Esso risiede nel fatto che là esistono le condizioni per una cultura, esiste una concezione unitaria della vita materialistica, democratica, umanitaria, progressista. Questa visione del mondo e della vita può assumere sfumature diverse, può diventare radicalismo e comunismo, neoilluminismo e scientismo a sfondo psicoanalizzante, marxismo militante e cristianesimo positivo d'estrazione "sociale". Ma sempre ci si trova di fronte ad una visione unitaria dell'uomo, dei fini della storia e della società.

    Da questa comune concezione trae origine una massiccia produzione saggistica, storica, letteraria che può essere meschina e scadente, ma ha una sua logica, una sua intima coerenza. Questa logica, questa coerenza esercitano un fascino sempre crescente sulle persone colte. Non è un mistero per nessuno il fatto che un gran numero di docenti medii ed universitari è comunistizzato, e che la comunistizzazione del corpo insegnante dilaga con impressionante rapidità. E, tra i giovani che hanno l'abitudine di leggere, gli orientamenti di sinistra guadagnano terreno a vista d'occhio.

    Dalla parte della Destra nulla di questo. Ci si aggira in un'atmosfera deprimente fatta di conservatorismo spicciolo e di perbenismo borghese. Si leggono articoli in cui si chiede che la cultura tenga maggior conto dei "valori patriottici", della "morale" il tutto in una pittoresca confusione delle idee e dei linguaggi.

    A sinistra si sa bene quel che si vuole. Sia che si parli della nazionalizzazione dell'energia elettrica o dell'urbanistica, della storia d'Italia o della psicoanalisi, sempre si lavora a un fine determinato, alla diffusione di una certa mentalità, di una certa concezione della vita.

    A destra si brancola nell'incertezza, nell'imprecisione ideologica. Si è "patriottico-risorgimentali" e si ignorano i foschi aspetti democratici e massonici che coesistettero nel Risorgimento con l'idea unitaria. Oppure si è per un "liberalismo nazionale" e si dimentica che il mercantilismo liberale e il nazionalismo libertario hanno contribuito potentemente a distruggere l'ordine europeo. O, ancora, si parla di "Stato nazionale del lavoro" e si dimentica che una repubblica italiana fondata sul lavoro l'abbiamo già - purtroppo - e che ridurre in questi termini la nostra alternativa significa soltanto abbassarsi al rango di socialdemocratici di complemento. Forse gli uomini colti non sono meno numerosi a destra che a sinistra. Se si considera che la maggior parte dell'elettorato di destra è borghese, se ne deve dedurre che vi abbondano quelli che han fatto gli studi superiori e dovrebbero aver contratto una certa "abitudine a leggere".

    Ma, mentre l'uomo di sinistra ha anche degli elementi di cultura di sinistra, e orecchia Marx, Freud, Salvemini, l'uomo di destra difficilmente possiede una coscienza culturale di destra. Egli non sospetta l'importanza di un Nietzsche nella critica della civiltà, non ha mai letto un romanzo di Jiinger o di Drieu La Rochelle, ignora il "Tramonto dell'Occidente" né dubita che la rivoluzione francese sia stata una grande pagina nella storia del progresso umano. Fin che si rimane nella cultura egli è un bravo liberale, magari un po' nazionalista e patriota. È solo quando incomincia a parlare di politica che si differenzia: trova che Mussolini era un brav'uomo e non voleva la guerra, e che i films di Pasolini sono "sporchi".

    Basta poco ad accorgersi che se a destra non c'è una cultura ciò accade perché manca una vera idea della Destra, una visione del mondo qualitativa, aristocratica, agonistica, antidemocratica; una visione coerente al di sopra di certi interessi, di certe nostalgie e di certe oleografie politiche.

    Che cosa significa essere di destra

    Con queste affermazioni che, come tutte le affermazioni veritiere, scandalizzeranno più d'uno, crediamo di aver posto il dito sulla piaga.

    Che cosa dovrebbe propriamente significare "esser di destra"?

    Esser di destra significa, in primo luogo, riconoscere il carattere sovvertitore dei movimenti scaturiti dalla rivoluzione francese, siano essi il liberalismo, o la democrazia o il socialismo.

    Esser di destra significa, in secondo luogo, vedere la natura decadente dei miti razionalistici, progressistici, materialistici che preparano l'avvento della civiltà plebea, il regno della quantità, la tirannia delle masse anonime e mostruose.

    Esser di destra significa in terzo luogo concepire lo Stato come una totalità organica dove i valori politici predominano sulle strutture economiche e dove il detto "a ciascuno il suo" non significa uguaglianza, ma equa disuguaglianza qualitativa.

    Infine, esser di destra significa accettare come propria quella spiritualità aristocratica, religiosa e guerriera che ha improntato di sé la civiltà europea, e - in nome di questa spiritualità e dei suoi valori - accettare la lotta contro la decadenza dell'Europa.

    È interessante vedere in che misura questa coscienza di destra sia affiorata nel pensiero europeo contemporaneo. Esiste una tradizione antidemocratica che corre per tutto il secolo XIX e che - nelle formulazioni del primo decennio del XX - prepara da vicino il fascismo. La si può far cominciare con le Reflexions on thè revolution in France in cui Burke, per primo, smascherava la tragica farsa giacobina e ammoniva che "nessun paese può sopravvivere a lungo senza un corpo aristocratico d'una specie o d'un'altra".

    In seguito, questa pubblicistica cercò di sostenere la Restaurazione con gli scritti dei romantici tedeschi e dei reazio-nari francesi.

    Si pensi agli aforismi di Novalis, col loro reazionarismo scintillante di novità e di rivoluzione ("Burke hatein revolu-tionàres Buch gegen die Revolution geschrieben"), alle suggestive e profetiche anticipazioni: "Ein grosses Fehler unse-rer Staaten ist, dass man den Staat zu wenig sieht... Liessen sich nicht Abzeichen und Uniformen durchaus einfùhren?". Si pensi ad un Adam Mtiller, alla sua polemica contro l'atomismo liberale di Adam Smith, la contrapposizione di una economia nazionale all'economia liberale. Ad un Gentz, consigliere di Metternich e segretario del Congresso di Vienna, ad un Gòrres, a un Baader, allo stesso Schelling. Accanto a loro sta Federico Schlegel con i suoi molteplici interessi, la rivista Europa, manifesto del reazionarismo europeo, l'esaltazione del Medioevo, i primi studi sulle origini indoeuropee, la polemica coi liberali italiani sul patriottismo di Dante, patriota dell'"Impero" e non piccolo-nazionalista.

    Si pensi a un De Maistre, questo maestro della controrivoluzione che esaltava il boia come simbolo dell'ordine virile e positivo, al visconte De Bonald, a Chateaubriand, grande scrittore e politico reazionario, al radicalismo di un Donoso Cortes: "Vedo giungere il tempo delle negazioni assolute e delle affermazioni sovrane". Peraltro, la critica puramente reazionaria aveva dei limiti ben evidenti nella chiusura a quelle forze nazionali e borghesi che ambivano a fondare una nuova solidarietà di là dalle negazioni illuministiche. Arndt, Jahn, Fichte, ma anche l'Hegel de La filosofia del diritto appartengono all'orizzonte controrivoluzionario per la concezione nazional-solidaristica dello Stato, anche se non ne condividono il dogmatismo legittimistico. La chiusura alle forze nazionali (anche là dove, come in Germania, si trovano su posizioni antiliberali) è il limite della politica della Santa Alleanza. Crollato il sistema di Metternich, per la miopìa della concezione di fondo (combattere la rivoluzione con la polizia e restaurando una legalità settecentesca), la controrivoluzione si divide in due rami: l'uno si attarda su posizioni meramente legittimistiche, confessionali, destinate ad esser travolte; l'altro cerca nuove vie e una nuova logica.

    Carlyle polemizza contro lo spirito dei tempi, l'utilitarismo manchesteriano ("non è che la città di Manchester sia divenuta più ricca, è che sono diventati più ricchi alcuni degli individui meno simpatici della città di Manchester"), l'umanitarismo di Giuseppe Mazzini ("cosa sono tutte queste sciocchezze color di rosa?"). Egli cerca negli Eroi la chiave della storia e vede nella democrazia un'eclissi temporanea dello spirito eroico.

    Gobineau pubblica nel 1853 il memorabile Essai sur l'ine-galité des races humaines fondando l'idea di aristocrazia sui suoi fondamenti razziali. L'opera di Gobineau troverà una continuazione negli scritti dei tedeschi Clauss, Gùnther, Rosenberg, del francese Vacher de Lapouge, dell'inglese H.S. Chamberlain. Attraverso di essa il concetto di "stirpe", fondamentale per il nazionalismo, viene strappato all'arbitrarietà dei diversi miti nazionali e ricondotto all'ideale nordico-indoeuropeo come misura oggettiva dell'ideale europeo.

    Alla fine del secolo, la punta avanzata della Destra è nella polemica di Federico Nietzsche contro la civilizzazione democratica. Nietzsche, ancor più di Carlyle e Gobineau, è il creatore di una Destra modernamente "fascista", cui ha donato un linguaggio scintillante di negazioni rivoluzionarie. Nietzschiano è lo scherno dell'avversario, la prontezza dell'attacco, la rivoluzionaria temerità ("was fàllt, das soli man auch stossen"). La parola di Nietzsche sarà raccolta in Italia da Mussolini e d'Annunzio, in Germania da Jiinger e Spengler, in Spagna da Ortega y Gasset.

    Intanto, anche all'interno del nazionalismo si è operato un "cambiamento di segno". Già nelle formulazioni dei romantici tedeschi la nazione non era più la massa disarticolata, la giacobina nation, ma la società stàndisch, coi suoi corpi sociali, le sue tradizioni, la sua nobiltà. Una società - insegnava Federico Schlegel - è tanto più nazionale quanto più legata ai suoi costumi, al suo sangue, alle sue classi dirigenti, che ne rappresentano la continuità nella storia.

    Alla fine del secolo, una rielaborazione del nazionalismo nello spirito del conservatorismo è compiuta. Maurras e Barrés in Francia, Oriani e Corredini in Italia, i pangermanisti e il "movimento giovanile" in Germania, Kipling e Rho-des in Inghilterra, han conferito all'idea nazionale una impronta tradizionalistica e autoritaria. Il nuovo nazionalismo è essenzialmente un elemento dell'ordine.

    Fascismo, Nazismo e cultura di destra

    Essenzialmente si è detto. Infatti, il mito imprecisato del "popolo" serve ancora a contrabbandare una quantità di idee che di destra non sono. Di qui la scarsa capacità di presa dei regimi fascisti d'Italia e Germania nel campo della cultura. Fascismo e Nazismo, se ebbero chiara la loro contrapposizione ai movimenti scaturiti dalla rivoluzione francese, se osarono far fronte contro il mito borghese e quello proletario, contro capitalismo anglosassone e bolscevismo russo, non riuscirono a creare all'interno dello Stato una cittadella ideologica che potesse sopravvivere alla catastrofe politica.

    Basti pensare che in Italia la leadership culturale fu affidata a Gentile, un uomo che seppe pagare di persona, ma -ideologicamente-solo un patriota di spirito risorgimentale, legato a filo doppio col mondo della cultura liberale. Non a caso, tutti i discepoli di Gentile (quelli intelligenti, che contano qualcosa nella cultura), militano oggi in campo antifascista e persino comunista. Chi legga Genesi e struttura della società non può non rimanere perplesso di fronte allo spirito democratico-sociale di quest'opera che, degnamente, culmina nell'ideale bolscevico dell'umanesimo del lavoro. Così, non può meravigliare che un gentiliano come Ugo Spirito si atteggi, di volta in volta, ora a "corporativista", ora a "comunista", senza bisogno di cambiare un rigo di ciò che ha scritto.

    In Italia durante il ventennio si parlò molto di patria, di nazione, ma non ci si preoccupò mai di far circolare le idee della più moderna cultura di destra. // tramonto dell'Occidente di Spengler (che pure Mussolini conosceva nell'originale), Der Arbeiter di Jiinger, Der wahreStaat di Spann non furono mai tradotti; romanzi come Gilles di Drieu La Ro-chelle o I proscritti di von Salomon furono completamente ignorati dalla cultura fascista ufficiale.

    In queste condizioni, era naturale che l'opera d'un Julius Evola venisse ignorata. Un libro come Rivolta contro il mondo moderno che, tradotto in Germania, destò grande interesse (Gottfried Benn scrisse di esso: "Un'opera la cui importanza eccezionale apparirà chiara negli anni che vengono. Chi la legge si sentirà trasformato e guarderà l'Europa con sguardo diverso") in Italia valse come non scritto.

    All'ombra del Littorio, dietro la facciata delle aquile e delle divise, continuò a prosperare una cultura neutra, insipida, talvolta fedele al regime per un intimo patriottismo piccolo-borghese, più spesso in celato atteggiamento polemico e sobillatoria. Oggi sono di moda i memoriali alla Zangrandi in cui alcuni mediocri personaggi della politica e del giornalismo si vantano di aver fatto carriera come fascisti senza esserlo in realtà. È evidente la malafede di questi squallidi figuri ma, tra tante menzogne, una verità rimane: la "cultura fascista", quella ufficiale dei Littoriali della gioventù, dietro a una facciata di omaggi adulatori al Duce, al Regime, all'Impero, restava un miscuglio di socialismo "patriottico", di liberalismo "nazionale" e di cattolicesimo "italiano".

    Caduta l'identità Italia-Fascismo, crollato nel 1943 il concetto tradizionale di patria, i socialisti "patriottici" sono diventati socialcomunisti, i liberali "nazionali" soltanto nazionali e i cattolici "italiani" democratici cristiani.

    È indubbio che l'opportunismo ha contribuito a questa fuga generale, ma è certo che se il Fascismo avesse fatto qualcosa per creare una cultura di destra, un'imprendibile cittadella ideologica, qualcosa ne sarebbe rimasto in piedi. II Nazismo si trovò a lavorare su di una base migliore. La cultura di destra tedesca aveva dietro di sé una prestigiosa serie di nomi, a cominciare dai primi romantici fino a un Nietzsche. Lo stesso Goethe ha lasciato non equivoche parole di sfiducia per l'infatuazione liberale dei suoi tempi. Inoltre, tra il ' 18 e il '33, in Germania era fiorita la cosiddetta "rivoluzione conservatrice" con autori di fama europea: Oswald Spengler ed Ernst Junger, Othmar Spann e Moeller van den Bruck, Ernst von Salomon ed Hans Grimm sono nomi noti anche fuori dai confini tedeschi. Lo stesso Thomas Mann aveva dato con le Considerazioni di un impolitico un contributo fondamentale alla causa della Destra tedesca.

    Anche qui però il mito del "popolo" prese la mano ai governanti e la Gleichschaltung fece ammutolire ogni critica, anche quella costruttiva. Ma, nei confronti del Fascismo, il Nazismo ebbe il merito di costringere la cultura neutra a una resa dei conti. Esso, molto più del regime italiano, ebbe la coscienza di rappresentare un'autentica visione del mondo, violentemente ostile a tutte le putrefazioni e le storture dell'Europa contemporanea. La mostra dell'arte degenerata, il rogo dei libri ebbero, se non altro, un significato ideale rivoluzionario, un carattere di aperta rivolta contro i feticci di un mondo in decomposizione.

    Ma anche qui si esagerò; ci si accanì contro personaggi che potevano anche esser lasciati in pace come un Benn, e un Wiechert, mentre a loro volta gli epuratori mostravano tare populiste e giacobine. C'è un libretto intitolato An die Dun-kelmànner unserer Zeit ("Agli oscurantisti del nostro tempo") in cui Rosenberg risponde ai critici cattolici del suo Mythus con una volgarità che non ha nulla da invidiare a Voltaire o ad Anatole France.

    Comunque, fu in ambiente nazista che si concepì l'ambizioso progetto di creare un weltanschaulicher Stosstrupp, una "truppa di rottura nel campo della visione del mondo" per aprire un varco nel grigio orizzonte della cultura neutra e borghese.

    E la stessa concezione delle SS, il loro superamento del semplice patriottismo tedesco nel mito della razza ariana, la concezione dello Stato come Ordine virile (Ordenstaatsge-danke), l'idea d'un impero europeo di nazione germanica, pongono il Nazismo all'avanguardia nella formulazione dei contenuti ideologici d'una pura Destra.

    (............)
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  2. #12
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    Mondialismo


    Indice:

    - Il mondialismo e la fine della storia dei popoli. Note a: "Mondialismo e resistenza etnica", di Alberto Lembo.

    - Attacco mondialista e de-psichizzazione della comunità.

    - Mondialismo e resitenza etnica.

    - Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione

    ------------------------------------



    Il mondialismo e la fine della storia dei popoli.
    Note a: "Mondialismo e resistenza etnica", di Alberto Lembo,
    Edizioni di Ar.

    Massimo Pacilio, in "Margini" n. 27, luglio 1999.

    Tra le poche certezze che definiscono il nostro senso della vita c'è il sicuro convincimento che la "società" multietnica rappresenti il capitolo terminale della storia dei popoli. Nella indistinzione delle molteplici etnie che vengono riversate sull'Italia e sull'Europa, risulterà infatti progressivamente smarrita la differenza tra i popoli che ne costituiscono l'essenza: quel complesso irripetibile di qualità che rendono visibile e riconoscibile l'appartenenza, e da cui prende forma l'impianto del carattere individuale in sintonia con la cultura etnica di ciascuno. Quest'ultimo elemento genera la differenza, , senza la quale gli attributi del singolo verrebbero ridotti ad uno soltanto: la quantità. Se ancora non siamo entità semplicemente quantificabili ci è dovuto alla persistenza delle differenze etniche. Queste, seppure col loro inevitabile carico di luoghi comuni alla superficie, ma con il vigore delle loro radici in profondità, sono l'ultima forma, l'ultima qualità, oltre la quale, abolite le distinzioni di sesso, di razza , di lingua, di religione, di opinioni politiche e di nazionalità, rimarrà la produttività come unica differenza tra gli individui.La fine della storia dei popoli, le cui forme si delineano in questa fase di passaggio tra due millenni, rappresenta il segno inequivocabile della fine del concetto di progresso. Dalle stesse categorie della modernità possibile comprendere, infatti, la portata nichilistica del moderno, il suo inevitabile destino: quello di essere una fase finale. Punto conclusivo della storia, la modernità, impedendo la dialettica tra i popoli mediante la loro omologazione, impedisce che il confronto tra le diversità arricchisca reciprocamente le differenti culture.Non è un caso, quindi, che l'assioma fondante dell'attuale civiltà sia quello dell'integrazione. Esso implica, necessariamente, un presupposto meramente ideologico, ma che in seguito, grazie ad un processo indefinito di integrazione costante, non potrà che trasformarsi nell'unico valore esistente. Si realizza, per questa via, la creazione di un'umanità senza distinzioni culturali, linguistiche, religiose, in una parola: etniche. Ma se proprio dal confronto tra i popoli si è reso possibile quel fertile scambio da cui, secondo gli stessi principi della modernità, prende l'avvio ogni fase del progresso, azzerare le differenze vuol dire porre termine a questo progresso. La dialettica tra le culture, con l'apertura alle differenze che tale confronto richiede, non potrà che essere sepolta sotto una umanità amorfa e inerte, isolata dal resto, sospesa nel nulla, ricurva sulla propria sostanza materiale, in perenne contrapposizione col tutto. Lo scritto di Alberto Lembo rappresenta un contributo pregevole sulla questione fondamentale della difesa delle differenti culture europee. Per quanto il trattato di Maastricht venga considerato l'evento risolutore di tutti i problemi nazionali da una Amministrazione euro-occidentale che si è assunta l'onere di stravolgere la fisionomia delle culture esistenti in Europa, nonostante questo desolato panorama crepuscolare vi è ancora, tra i politici di 'professione', chi riesce a conservare la capacità di discernere, per restituire al discorso politico temi davvero centrali.La questione etnica doveva essere forse l'ultima delle questioni da porsi in un contesto globalmente "evoluto" come quello europeo, ma a buon diritto l'Autore ne ha fatto l'argomento portante di Mondialismo e resistenza etnica, pubblicato dalle Edizioni di Ar (impegnate su questo fronte fin dalla loro stessa fondazione). Com'è evidente dalla lettura del testo, l'Autore non prende l'avvio dalla "mozione dei sentimenti", ma circoscrive la sua rappresentazione in un ambito ben definito: quello della difesa del patrimonio culturale, la cui perdita ha sempre un carattere di definitività. Il binomio cultura-intellettualità, che esprime in s¦ la pretesa della mediazione necessaria degli 'intellettuali' per la configurazione 'della' cultura, viene nel libro validamente sostituito dal binomio cultura-tradizione, che indica la necessità della mediazione degli Autori tradizionali di una comunità etnica per la continuità della 'sua' cultura. Proprio contro l'omologazione dei concreti caratteri europei agli astratti parametri di Maastricht, contro l'uniformità di pensiero e il conformismo moralistico, lo scritto di Lembo intende condurre il discorso sul piano tradizionale ed etnico, con la comprensibile difficoltà di chi sa quanto pochi siano gli interlocutori che ne comprendano le caratteristiche oggettive. I più infatti sviano di fronte all'imbarazzo di doversi porre la questione sulle proprie origini etniche, dal momento che il nostro 'stampo' sembra ridotto ad un incubo da rimuovere, un peso da scrollarsi di dosso, una colpa da espiare. Colpevoli di non essere kurdi o kossovari, ancora più colpevoli di non essere asiatici o africani, puniamo chi di noi rivendichi un'appartenenza ad una delle nostre comunità euro-occidentali. E il senso di colpa per essere bianchi si è gi trasformato in un'insana voluttà di suicidio etnico...Il parlare della nostra necessaria appartenenza di natura e di cultura genera dunque un sentimento, se non altro, di 'rimorso': di disagio, di imbarazzo; ci ricorda un tempo in cui, nella dinamica della nostra storia, tutte le azioni erano riprovevoli, le idee false, le guerre ingiuste... Adesso che le idee sono tutte corrette, è tempo di guerre giuste e di azioni lodevoli... E si comprende meglio la smorfia implorante perdono che contrae il viso di un europeo odierno quando gli viene ricordato di 'essere un bianco: è solo un caso se sono nato in Italia nel XX secolo. Invece, sarebbe non un caso, ma la suprema delle colpe, se non condividessi la ricchezza che ingiustamente possiedo con qualsiasi straniero che intenda stanziarsi nella 'mia' terra.Come non riflettere, quindi, sull'azzeramento della natalità nelle comunità etniche della Penisola, che si manifesta quale conseguenza non di un normale processo di riequilibrio, ma di un desiderio diffuso di non-essere più? Un pragmatismo assurdo induce taluni a ritenere questo fenomeno della morte di un popolo non un evento terribile, ma un fatto meccanico di ordinaria sostituzione di esseri individuali, fungibili nel tempo e nello spazio. Un'ipotesi che verrebbe rigettata come forma latente di genocidio, se fatta valere presso altre etnie, è invece valutata addirittura come l'unica possibilità, in Italia, per fronteggiare la scarsa natalità. Fa da sfondo a questa aberrante idea l'accelerazione dei mutamenti economici, dai quali si determinano, nell'attuale contesto, quelli sociali. Processi irreversibili che conducono allo sfiguramento delle nazioni per rendere più velocemente disponibile una forza-lavoro flessibile e a basso costo. Lembo avverte chiaramente quanto risulti artificiale la sostituzione di un popolo ad un altro, e come, nonostante l'innaturalità di questo progetto, molti lo accettino in beata incoscienza, vittime delle sostanze ideologiche 'psicotrope' diffuse dal mondialismo.Dovremmo accettare il mercato globale, il villaggio globale, la "società" multietnica... ma da dove nasce questo nuovo "imperativo categorico"? La nostra risposta è: dalla mentalità materialistica, a cui nemmeno è estraneo il mondo cristiano modernista, ossessionato dal sentimento della 'rimozione delle frontiere' e dell'accoglienza/inclusione, nello spazio occupato dalla propria comunità di sangue e di vita storica, di altre comunità. L'Amministrazione euro-occidentale ha oramai deciso di porre fine all'esistenza delle nostre identità culturali, ha deciso che nel futuro non debbano più esistere culture etniche, ovvero culture dei popoli. Al posto di questa essa sta costruendo un allevamento di individui 'a disposizione', flessibili, esterni a qualsiasi perimetro etnico, estranei al circuito di qualsiasi appartenenza, atomi di una umanità disaggregata. Per alcuni si sarà finalmente realizzato quel proletariato internazionale il cui avvento viene profetizzato nei testi sacri del marxismo. Per altri non sarà poi cambiato molto, visto lo stato di alienazione in cui trascorrono la propria esistenza. Per il 'centro' finanziario internazionale, infine, saranno risolti i problemi di squilibrio dei mercati locali e, sopra tutto, si sarà delineata l'oligarchia mondiale, con le sue regole di conservazione. In una sorta di rinnovato determinismo storico l'omologazione etnica viene imposta come l'unica via da percorrere. L'Autore del libro "Mondialismo e resistenza etnica", mette in risalto questa falsa necessità secondo cui dovremmo supinamente accettare la nuova "società" multietnica. Intrisa del più vetusto determinismo, la mentalità materialistica vede ancora gli sviluppi economici come rispondenti ad una legge immutabile (laddove sarebbe più "moderno" dedurre che le scelte economiche non sono che l'espressione della volontà di chi, a diversi livelli, detiene il potere finanziario reale). Ma si tratta di un 'principio' in s¦ ingiustificato, che proprio per questo viene continuamente ripetuto come il verbo salvifico di una rivelazione apocalittica. L'Europa è un complesso originario di significati che ha attraversato diverse epoche; la nostra epoca ha la possibilità di dissolvere i tratti di questa idea generale di 'Europa' a colpi di ondate migratorie. Viviamo in una fase in cui ogni riferimento culturale profondo si sta sgretolando sotto il peso di faglie etniche estranee slittate sulla piattaforma continentale europea. Disegnando il panorama che caratterizzerà il prossimo quarto di secolo, la preoccupazione dell'Autore è la stessa del Lettore. In chi scrive, la consapevolezza della decisione è perciò avvertita con tale intensità da riflettersi con eguale impressione in chi comprende questo interrogativo così essenziale nella sua crucialità: continuare a trasmettere le forme etniche delle nostre culture o deciderne la soppressione disperdendole in una massa di culture-amebe che si confonderanno le une nelle altre, ciascuna smarrendosi per sempre? Il dubbio amletico tra il continuare ad essere e il non-essere, riguardando questa volta il destino delle generazioni si fa sentire in questa opposizione: o sostenere la parte affidataci dall in Italia, per fronteggiare la scarsa natalità. Fa da sfondo a questa aberrante idea l'accelerazione dei mutamenti economici, dai quali si determinano, nell'attuale contesto, quelli sociali. Processi irreversibili che conducono allo sfiguramento delle nazioni per rendere più velocemente disponibile una forza-lavoro flessibile e a basso costo.Lembo avverte chiaramente quanto risulti artificiale la sostituzione di un popolo ad un altro, e come, nonostante l'innaturalità di questo progetto, molti lo accettino in beata incoscienza, vittime delle sostanze ideologiche 'psicotrope' diffuse dal mondialismo.Dovremmo accettare il mercato globale, il villaggio globale, la "società" multietnica... ma da dove nasce questo nuovo "imperativo categorico"? La nostra risposta è: dalla mentalità materialistica, a cui nemmeno è estraneo il mondo cristiano modernista, ossessionato dal sentimento della 'rimozione delle frontiere' e dell'accoglienza/inclusione, nello spazio occupato dalla propria comunità di sangue e di vita storica, di altre comunità. L'Amministrazione euro-occidentale ha oramai deciso di porre fine all'esistenza delle nostre identità culturali, ha deciso che nel futuro non debbano più esistere culture etniche, ovvero culture dei popoli. Al posto di questa essa sta costruendo un allevamento di individui 'a disposizione', flessibili, esterni a qualsiasi perimetro etnico, estranei al circuito di qualsiasi appartenenza, atomi di una umanità disaggregata. Per alcuni si sarà finalmente realizzato quel proletariato internazionale il cui avvento viene profetizzato nei testi sacri del marxismo. Per altri non sarà poi cambiato molto, visto lo stato di alienazione in cui trascorrono la propria esistenza. Per il 'centro' finanziario internazionale, infine, saranno risolti i problemi di squilibrio dei mercati locali e, sopra tutto, si sarà delineata l'oligarchia mondiale, con le sue regole di conservazione. In una sorta di rinnovato determinismo storico l'omologazione etnica viene imposta come l'unica via da percorrere. L'Autore del libro Mondialismo e resistenza etnica, mette in risalto questa falsa necessità secondo cui dovremmo supinamente accettare la nuova "società" multietnica. Intrisa del più vetusto determinismo, la mentalità materialistica vede ancora gli sviluppi economici come rispondenti ad una legge immutabile (laddove sarebbe più "moderno" dedurre che le scelte economiche non sono che l'espressione della volontà di chi, a diversi livelli, detiene il potere finanziario reale). Ma si tratta di un 'principio' in s¦ ingiustificato, che proprio per questo viene continuamente ripetuto come il verbo salvifico di una rivelazione apocalittica. L'Europa è un complesso originario di significati che ha attraversato diverse epoche; la nostra epoca ha la possibilità di dissolvere i tratti di questa idea generale di 'Europa' a colpi di ondate migratorie. Viviamo in una fase in cui ogni riferimento culturale profondo si sta sgretolando sotto il peso di faglie etniche estranee slittate sulla piattaforma continentale europea. Disegnando il panorama che caratterizzerà il prossimo quarto di secolo, la preoccupazione dell'Autore è la stessa del Lettore. In chi scrive, la consapevolezza della decisione è perciò avvertita con tale intensità da riflettersi con eguale impressione in chi comprende questo interrogativo così essenziale nella sua crucialità: continuare a trasmettere le forme etniche delle nostre culture o deciderne la soppressione disperdendole in una massa di culture-amebe che si confonderanno le une nelle altre, ciascuna smarrendosi per sempre? Il dubbio amletico tra il continuare ad essere e il non-essere, riguardando questa volta il destino delle generazioni si fa sentire in questa opposizione: o sostenere la parte affidataci dalla nostra migliore tradizione, e imparata dalla nostra natura originaria e dalla nostra cultura storica, o calare il sipario, una volta e per tutte, sulla nostra rappresentazione. Alla nostra generazione è data questa decisione, i cui connotati prefigurano la nostra vita o la nostra morte in quanto organismi etnici nel dramma della storia mondiale.

    L'Autore di questo scritto, Massimo Pacilio, ha pubblicato per le Edizioni di Ar
    "Conoscenza tradizionale e sapere profano. René Guénon crititco delle scienze moderne."

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    Attacco mondialista e de-psichizzazione della comunità

    Adriano Segatori, in 'Margini' n. 33, Gennaio 2001

    E’ da tempo che le forze non omologate, antagoniste ad una idea per ora vincente del mondo e contrastanti l’imperante ideologia di un benessere indefinito e di una visione ottimistica in un progresso appagante, si occupano di quel problema emergente etichettato correntemente come <<globalizzazione>>.
    L’opposizione, però, appare sfrangiata e per molti versi confusa: da un lato, una puntualizzazione ed un approfondimento costante di alcune tematiche particolarmente evidenti e per molti versi scontate (politica sovranazionale, economia <<turbocapitalistica>>, manipolazione umana e ambientale, ecc.) e dall’altro, la totale assenza di un impianto dottrinale che possa chiarire le linee di partenza di questa operazione globalizzatrice e, con ciò, suggerire spunti di discussione e di convergenza di intervento per le opposizioni. Fa eccezione il lavoro di G. Damiano, Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione, Edizioni di Ar, Padova, 1999, testo che, con ricchezza argomentativa, coglie la complessa multidimensionalità della dinamica globale.
    Resta il fatto che, in generale, senza una lunga, subliminale, minuziosa operazione preparatoria di vasta e capillare portata, che ha portato l’uomo a diventare un docile suddito e un malleabile fantoccio attraverso un’ammaliante anestesia, tutto ciò non sarebbe accaduto e ogni manovra si sarebbe sfaldata di fronte ad una consapevole e decisa resistenza. Invece la trasformazione è avvenuta e la caduta è tuttora precipitosamente in atto. Pertanto, pur essendo impossibile ridurre in poche righe l’analisi di questo processo, tanto complesso nel suo sviluppo quanto subliminale e anestetizzante nella sua progressione, è però possibile definirne gli indirizzi attraverso l’indicazione delle tracce.
    Con Francesco Bacone (1561-1626) e i suoi studi sul rimaneggiamento della natura attraverso l’uso di mezzi tecnici sempre più sofisticati, la scienza passa dal versante della comprensione a quello della manipolazione. L’uomo, e lo scienziato in particolare, non è più colui che attraverso l’umile studio dei segni naturali tende alla comprensione della grandezza del cosmo e della sua stessa trascendenza, ma diventa, con arroganza prometeica, il manipolatore della natura per piegarla alla sua volontà e ai suoi inesauribili desideri. La scienza diventa profana, scade a tecnologia, e nella caduta si trascina anche colui che della sua degenerazione ne era stato l’artefice e il propugnatore.
    Per mia competenza professionale è dell’uomo che mi occupo, ed è proprio a lui che intendo riferirmi quale esempio eclatante di degradazione; quella degradazione che ha permesso, e tuttora permette, e che senza un adeguato esame di realtà ed un conseguente slancio di ribellione interiore continuerà a permettere, l’operazione di livellamento omologante e di sedazione globalizzata. Innanzitutto, la prima mossa è consistita nel ridurre l’uomo da creazione divina, con l’innata tendenza a trascendere le limitazioni oggettive dell’umano, a semplice animale naturale e nell’esaltarne, conseguentemente, proprio le attitudini troppo umane, le esigenze più terrene, i bisogni più profani. Mistificando il concetto di libertà e sostituendolo con quello di liberazione, si è fatto credere all’uomo di essersi riscattato da legami che lo coartavano, quando invece quegli stessi legami erano i supporti che lo sorreggevano: con una operazione anestetizzante si è creato una suggestione esilarante, un’atmosfera psicologica che Evola definisce <<euforia da naufraghi>>. Subito dopo, c’è stato un ulteriore attacco dottrinale e pratico all’uomo come essere vivente: il Leib, corpo essenziale, con le specificità proprie date dalla biografia, dalle peculiarità familiari, dalle prerogative etniche, dal sentimento dell’essere, dall’intenzionalità dell’agire, dalla praxis in vista di uno scopo, dallo slancio progettuale, dalla memoria archetipica, è stato ridotto a Korper, corpo meccanico, strumento esistenziale, senza storia, senza biografia, senza differenziazione, senza memoria di passato né slancio al futuro, pulsionato al fare indifferente ad ogni obiettivo, senza il senso della forma dato dall’ Io sono e soltanto con l’impressione dell’ Io devo, al massimo dell’Io voglio.
    Questa impostazione è nata senza dubbio all’interno del contesto e della prassi medica e delle discipline cosiddette scientifiche (secondo la pianificazione profana) ma ha influenzato ed inquinato lo stesso concetto di <<uomo>> negli insegnamenti più disparati. L’apoteosi si è raggiunta con l’impianto teorico della psicoanalisi freudiana che ha portato all’invenzione, e al succube quanto mistificatorio accoglimento, di un inesistente uomo universale: “Il concetto di essere umano <<universale>>, certamente in grado di acquisire una cultura, considerata però come un semplice vestito – o addirittura come un ornamento – è evidentemente una pura astrazione”(Tobie Nathan). Se già da un punto di vista strettamente sanitario, organicistico, considerare l’uomo da questa prospettiva iatromeccanica è una aberrazione che si ripercuote in maniera fallimentare nel rapporto medico-paziente, immaginiamo il potere devastante che tale impostazione ha quando l’oggetto dell’analisi è la componente psichica della persona. La Psiche è sempre stata considerata l’essenza dell’uomo, quella componente non materiale che lo rende peculiare, unico, irripetibile, nei suoi rapporti con la Divinità e con la Natura; Psiche come rappresentazione immanente dello Spirito che, invece, porta alla distanza e alla trascendenza; Psiche come esperienza esclusiva del mito e dei simboli archetipici.
    Ad un certo momento, questa specificità, questa differenziazione, non erano più tollerabili per la manovra universalista; si doveva, in qualunque modo, ridurre in basso ogni diversità, ogni singolarità: l’unico modo per intervenire era, con un stratagemma particolarmente astuto, intromettersi in maniera insensibile a livello del costume e dell’idea totale della vita. L’attacco è stato concentrico: contenimento della cultura ad istruzione, abbassamento della Tradizione a folklore, semplificazione della Psiche a cervello. Sono state soffocate, in altre parole, le fonti di vita della Psiche stessa: la cultura vera e superiore è stata ridotta a semplice istruzione profana dei mezzi utili ad una produzione lavorativa finalizzata, la Tradizione quale trasmissione essenziale delle valenze di appartenenza a rappresentazione di costume da sagra paesana, la comprensione psichica a semplicistica modalità per capire i meccanismi cerebrali. Ed è lo stesso Tobie Nathan a denunciare in maniera inequivocabile questa manovra indifferenzialista quando afferma: “(...) nessuno ha mai incontrato questo ipotetico <<uomo universale>> che ci è mostrato dal pensiero psicoanalitico”, e in una nota dichiara anche: “Non sono lontano dal pensare che tutte le istituzioni che concepiscono l’altro come un <<soggetto universale>> - in Francia: la Scuola e la Medicina – siano autentiche macchine da guerra contro le culture tradizionali”.
    Una delle macchine da guerra è stata proprio la psichiatria nordamericana attraverso un Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali. Attraverso il varco creato dalle problematiche psichiatriche, essa è riuscita, con una manovra tanto abile quanto seduttiva, ad intervenire fino al limite più avanzato della cosiddetta normalità: è riuscita a far passare nell’immaginario e nella coscienza(?) collettiva il sentimento di normalità di ogni pensiero catalogato, condiviso, universalizzato; in altre parole, tutto ciò che è diverso dal sentire comune e costituito assume, ora, la dignità di un giudizio criminale oppure l’onta della considerazione psicopatologica, pansorveglianza e panpunizione, secondo l’accusa di Foucault. Con metodo e costanza, si è creata, e in una qualche misura si è diffusa, quella che Evola ha profeticamente definito razza dell’uomo sfuggente. Una componente grandemente estesa e profondamente indifferenziata, una etnia informe e elusiva che ha rivendicato i disvalori più eclatanti: senso di irresponsabilità, scadente o nulla coscienza di Sé, passività di azione sotto la copertura dei distinguo <<a chi giova?>>, <<a che pro?>>, <<mi conviene?>>, delega ad altri della soluzione dei propri problemi, superficialità e fuga costante di fronte al minimo approfondimento, attitudine all’assorbimento di ogni novità per incapacità di leggere tra le righe delle proposte, indisponibilità al minimo sacrificio e spontanea auto-offerta alla sedazione. In una parola, per rubare una definizione di Ouspensky, un <<uomo-macchina>> che anodinamente rappresenta una società senza essenza, senza stile e senza forma e, con ciò, disponibile ad ogni aberrazione e ad ogni influenza negativa.
    La manovra della psichiatria nordamericana, per giungere ad una uguaglianza di patologia, e con essa ad una altrettanto paradossale uniformità di linguaggio nella normalità, ha dovuto necessariamente partire dal presupposto che tutti gli uomini sono psichicamente uguali; contemporaneamente ha cortocircuitato il concetto di psiche a quello di cervello, a quello di un meccanismo il quale, nel momento in cui non funziona secondo una norma statistica condivisa, necessita di una manutenzione specialistica. Linguaggio, tecnica, uguaglianza: tre strumenti e tre obiettivi. Opportunamente si chiede Hillman: “Che cosa è accaduto al linguaggio della psicologia in questa epoca di superbe tecnologie della comunicazione e di istruzione democratica?”. E’ accaduto che per una omologazione completa e un sentire collettivo – la comprensione comune è tutt’altra cosa! – il linguaggio è stato ridotto a basso attrezzo di informazione, castrato della sua potenza e funzione evocativa. E l’Anima, sia essa individuale che quella che permea i destini di una comunità, parallelamente a questa caduta, ha subìto una trasformazione degenerata proprio come conseguenza del fatto che: “Quando l’anima cade sotto il controllo delle università, dello spirito laico illuministico, essa perde ogni realtà, ogni sostanza e qualsiasi rilevanza per la vita”(Hillman).
    Un uomo universale, per altri versi un uomo indifferenziato, non può che essere un uomo- macchina: tre sinonimi che indicano l’uomo della caduta, colui che ha rinnegato la propria storia, che ha delegato il proprio destino, e che vive all’insegna dell’immanente e della gestione del quotidiano. Nella negazione della propria storia, l’uomo della caduta ha demolito la propria memoria di appartenenza, memoria che non è semplice ricordo di fatti di vita o di eventi di cronaca, ma thesaurus inscrutabilis secondo l’indicazione di Sant’Agostino, vestigia dell’anima in rapporto alle divinità; molto più prosaicamente, se vogliamo, segni indelebili del proprio percorso nella scia del tempo e del fato. All’uomo-macchina non sono rimaste che date, profani segni cronologici di avvenimenti opportunamente manipolati e distorti, abilmente alterati con la finalità di spogliarlo di ogni retaggio antico e renderlo più permeabile alle influenze moderne. Con la delega della propria sorte, l’uomo della caduta ha ceduto ad altre mani e ad altri luoghi le scelte e le decisioni del proprio futuro: nessun passato lo lega alla Tradizione e nessun futuro lo lega ad un Destino; per lui rimane solo una presentificazione di bisogni indotti e di modalità per gratificarli: la ricerca di un soddisfacimento strenuamente più pressante e sofisticato all’insegna del naturalismo biologico, ancora meno – sempre che ciò sia possibile – dello scontato darwinismo.
    Psiche e Spirito, le due essenze dell’uomo: la prima che abbraccia il sovramateriale, il secondo che anela al trascendente. Cacciati dalla natura dall’umanizzazione del giudeo-cristianesimo, soffocati nell’uomo dalle istanze terrene e meccanicistiche, hanno lasciato alla realtà concreta il nucleo vuoto di quello che è stato il vir delle comunità organiche. Un nucleo vuoto genericamente definibile come homo: homo faber, homo oeconomicus, homo consumans, ecc.; un essere vivente in balia degli eventi e delle circostanze, trascinato dalle pulsioni e dalle necessità spesso inconsce, agito dai desideri e dalle insoddisfazioni.
    Questo è l’uomo globalizzato: servo dell’economia parassitaria, succube del mercato del lavoro, plagiato dalle induzioni pubblicitarie, dominato da necessità incontrollate, prigioniero di volontà estranee, anestetizzato per la genuflessione e addestrato allo sguardo basso. Un uomo che dopo lunghi anni di ammaestramento – del quale, per altro, è stato complice e compiacente – ha rifiutato il platonico signore dentro di sé, per diventare schiavo di altri liberti frustrati.
    Il massimo – sempre che un massimo possa esistere - di questa degenerazione si è manifestato negli ultimi anni e negli ultimi fatti di cronaca. Un inutile vociare, una afinalistica convulsione, una farsesca alzata di tono da parte dei tenutari del potere, una serietà tragicamente ridicola da parte degli intellettuali del sistema: tutti a commentare fatti di cronaca quotidiana e a trovare soluzioni estemporanee in nome, e sotto gli auspici, di quella <<stupidità intelligente>> così definita da Schuon ed efficacemente commentata da Evola.
    Aumento delle morti sul lavoro, espansione del fenomeno detto burn-out, disgregazione della famiglia, crescita delle nascite indesiderate, salita degli aborti clandestini e non, espansione dell’uso di sostanze psicotrope, diffusione del consumo di psicofarmaci, allargamento della patologia psichiatrica, dilatazione del fenomeno suicidario, esplosione dell’aberrazione della pedofilia, emergenza del problema della violenza sessuale e non, e molti altri quadri di deformità sociale, vengono passati al vaglio dei tecnici del sistema.
    Tutto ciò, secondo la stretta logica dell’impostazione psichiatrica e politica nordamericana nell’affrontare il disturbo psichico individuale, non viene compreso e affrontato nei termini simbolici di un significato da decodificare, ma come una disfunzione meccanica da correggere con mezzi e modalità altrettanto meccaniche. Niente di più inutile e penoso nella sua teorizzazione e nella sua pratica.
    Quello che quotidianamente accade altro non è che la manifestazione concreta, visibile, tangibile, di un decadimento complessivo: un uomo-macchina, facente parte di una <<megamacchina>> definita società, non può che comportarsi in maniera meccanicistica. Senza idea di sacralità, senza rispetto di sé, senza un nucleo interiore, senza una dirittura esistenziale, senza un <<al di sopra>> e un <<altrove>>, non può che comportarsi in modo naturale. Per decenni, gli <<stupidi intelligenti>> hanno fatto leva sugli istinti inferiori dell’uomo in nome di una libertà da ogni sovrastruttura tradizionale, incentivando una libertà per soddisfacimenti e tolleranze: il vaso di Pandora è stato scoperchiato! Ciò che è davanti agli occhi di tutti non può essere inteso e concepito come una disfunzione dalla norma declamata, ma è il risultato della norma declamata.
    Il mondialismo nelle sue varie sfaccettature altro non è che il risultato di una indifferenziazione mondiale: è stato creato un uomo nuovo, un essere privo di ogni regola e di ogni controllo che fosse minimamente sovraumano, un individuo aperto ad ogni istinto e ad ogni compulsione. Il male è la stessa condizione degenerata.
    Naturalmente, è impossibile per una macchina, e per una megamacchina di appartenenza, avere coscienza di sé e di ciò che avviene: “Di quale psicologia (...) si può parlare quando non si tratta che di macchine? E’ la meccanica che è necessaria per lo studio delle macchine e non la psicologia. Ecco perché noi cominciamo con la meccanica. Siamo molto lontani dalla psicologia” (Ouspensky).
    Questo si è voluto, questo si è ottenuto. Il sistema e le sue organizzazioni di appartenenza e di supporto (sociologia, magistratura, medicina, psicologia, educazione, ecc.) agiscono in termini meccanici: di fronte ad un guasto è indispensabile una riparazione, senza curarsi delle cause profonde e della prognosi futura. Domina il contingente e con esso l’approccio tecnico ai problemi.
    Del resto l’opinione pubblica, le “ululanti orde della civiltà”(J. Améry), viene assalita dai convulsi forcaioli o psicogiustificazionisti quando si sente urtata nella sua sensibilità da episodi di cronaca nera, da fatti di abiezioni sessuali e non, da fenomeni di abbandono o di maltrattamento, da casi macabri e politicamente scorretti, ma sempre risulta mancante della minima analisi di ciò che viene passata per norma.
    La norma è che il bambino viene, dai primi momenti, delegato ad altri nella cura e nell’educazione; la famiglia è un guscio vuoto contenitore di disagio e fruitore di correttivi consultoriali; la nascita, atto naturale e spontaneo, rientra nelle disposizioni di tempo e di modalità legate a fattori esterni (denaro, lavoro, tempo libero) e quando essa è naturalmente impossibile si affittano gli uteri con improponibili e immondi legami di parentela o scelte di carattere estetico-pratico; la morte, avvenimento ineluttabile ed essenziale della vita, evento di trasformazione con ogni possibile implicazione di carattere etico, religioso, psicologico, affettivo, storico, trascendente, è stata delegata ai tanatocrati, con l’elevata specializzazione di stabilire il momento cruciale in base a parametri tecnico-scientifici e medico legali: solo perché il corpo deve essere rottamato e i suoi componenti immediatamente riutilizzati in altre macchine malfunzionanti; il lavoro, mezzo di sostentamento, è stato reso mistico dall’efficientismo, dalla produttività, dal consumo.
    Questa è la norma globalizzante e da questa norma tutti gli avvenimenti che seguono non possono essere considerati come abominevoli, ma come conseguenza logica e corretta di uno stile di vita e di una visione del mondo che sono spregevoli e indegni.
    L’uomo è diventato quello che un progetto di generale e diffusa degenerazione aveva stabilito che diventasse: un essere de-sacralizzato, de-psichizzato, de-spiritualizzato, un marchingegno vivente che può essere trattato da macchina e che di conseguenza si comporta con il suo prossimo de-sacralizzato, de-psichizzato, de-spiritualizzato come tratta se stesso, come una semplice macchina, come un essere de-forme.
    Da un ordine platonico che si rifà alla cosmogonia iperuranica, eterna, trascendente, immutabile, ad una organizzazione profana, mutevole, mondana: l’uomo un essere malleabile, influenzabile, suggestionabile. Siamo al fondo, forse non ancora visibile, della ulteriore degenerazione della massa, concetto descritto in maniera pregnante da Galimberti: “(...) la sua atomizzazione e disarticolazione in singolarità individuali che, foggiate da prodotti di massa, rendono obsoleto il concetto di massa come concentrazione di molti, e attuale quello di massificazione come qualità di milioni di singoli (...) Nascono da qui quei processi di deindividuazione e deprivatizzazione che sono alla base delle condotte di massa tipiche delle società omologate e conformiste”.
    Di fronte a questo spettacolo non resta, almeno per quanto mi riguarda e per quanto è riferito alla mia attività, che affrontare in termini molto pragmatici i problemi individuali e collettivi che quotidianamente si presentano nella istituzione in cui opero, fermo restando il criterio evoliano di agire all’interno dello modernità cercando di mantenersi il più saldamente possibile – fosse solo per testimonianza – nei canoni e negli indirizzi prescritti dalla Tradizione.

    L’Autore, Adriano Segatori, svolge la professione di psichiatra. Ha pubblicato per Le Edizioni di Ar: 'La comunità vivente. Organismo comunitario e organizzazione sociale'.
    Ha scritto diversi articoli sul problema del controllo sociale, dell’abuso farmacologico, della liberalizzazione della droga come volontà di sedazione da parte del Sistema; ha pubblicato, insieme ad altri due colleghi, Marco Bertali e Fabrizio Bertini, Il Manifesto di Psiche. Per una psichiatria ed una società senza psicofarmaci e, da solo, Il suicidio. Eventi e comportamenti entrambi per “Sensibili alle foglie”.



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    Alberto Lembo, Mondialismo e resitenza etnica, presentazione di Carlo Taormina, Edizioni di Ar.
    Libri come questo di Alberto Lembo contengono, da quella prospettiva chiaramente antimodernista che è la prospettiva etnica, il tentativo di rappresentare forme politiche che non si possono certo collocare tra le figure dell'ordinario, labile paesaggio politico odierno, perché ne rimangono per loro essenza estranee. La loro estraneità essenziale significa che quelle forme sono indipendenti da queste figure che si rivelano invasive e petulanti, ma rimangono in realtà sterili e improduttive. Da qui l'Autore delinea senza incertezze l'antitesi fondamentale: da una parte il mondialismo, le oligarchie dell'alta finanza internazionale che, mediante la riduzione del mondo a mercato totale, mirano al controllo totalitario del “villaggio globale” attraverso un governo unico planetario; dall'altra l'etnicità, la tradizione etnica, le forze della natura e della storia dei popoli, che intendono custodire e sviluppare le identità, le particolarità, le libertà dei loro organismi. Ossia: da una parte il compimento del processo di alienazione e dissoluzione —la morte della comunità etnica—; dall'altra il compimento di reintegrazione e di riconnessione —la vita della comunità etnica.
    I due tipi dell'homo ideologicus e dell'homo ethnicus — considerati, per semplicità espositiva, allo stato ‘puro’—debbono ritenersi incarnazione di questa antitesi. Il primo —scrive Lembo— permeato di “mediazione, derivazione, soggettività, individualità, apertura (quindi inclusione di ciò che è eterogeneo), perfezionamento, integrazione”; il secondo —che non rinnega la propria forma razziale e la cultura dei padri— animato da “immediatezza, originarietà, oggettività, tipicità, conclusione (quindi esclusione di ciò che è eterogeneo), compiutezza, integrità”. L'homo ethnicus riassume il mondo stabile e disteso dell'essere; l'homo ideologicus quello del divenire, della febbre e del dubbio —in altri termini, quest'ultimo si manifesta nelle sembianze progressiste e nell'ideologia dello sviluppo razionale ed emancipativo della “Storia”.
    Lembo denuncia con chiarezza l'impiego, da parte del mondialismo, dell'arma dell'immigrazione, ossia di una sorta di deportazione di schiavi, complici spesso inconsapevoli e vittime di un fatto disgregativo della nostra e della loro identità: la cosiddetta “società” multirazziale (o, forzatamente, unirazziale?). E prefigura “un universo in cui, protetti da eserciti privati, i megaricchi —il denaro come valore assoluto, equivalente astratto di qualsiasi concreta valenza etnica...— condurranno l'esistenza in clausure lussuose, circondate da bidonville sterminate in cui individui senza razza, senza religione, senza famiglia, senza lavoro, si riveleranno troppo ottusi e troppo incapaci per sapersi ribellare”.
    Lo spostamento di enormi masse umane, la destituzione della distanza e la rimozione del ‘distante’ dalle loro funzioni, la conseguente contrazione del mondo sono fattori di quella ‘messa in forma’ del mercato unico globale, in cui non esistono più nature e culture di uomini bianchi, neri, gialli, rossi ma solo mode di consumo e consumatori. Ed è in questa prospettiva — afferma l'Autore— che va considerata, in una strategia di resistenza opposta da tutte le comunità etniche, la necessità di omogenee forme territoriali, di spazi etnici sicuri e capaci di difendersi dalla aggregazione nello spazio mondiale.
    “In questo ‘tempo della decisione’ —conclude Lembo— occorre ascoltare il proprio dèmone etnico e ‘decidersi a decidere’: tra le libertà etniche delle diverse comunità e i ‘diritti umani’degli individui, tra la terra delle tribù e l'asfalto della citta mondiale”.
    Il volume, arricchito da numerosi disegni e piantine di carattere documentale (insediamenti etnici, lingue e dialetti, migrazioni storiche ecc.), comprende una pregevole presentazione introduttiva del prof. Carlo Taormina: una lettura, la sua, ‘illuministicamente’ostile alle tesi esposte da Lembo, ma attenta a fissarne con precisione semantica i lineamenti essenziali. (In 'Margini' n. 31)

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    Giovanni Damiano, Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione, Edizioni di Ar.
    Elogio delle differenze è un autentico manifesto del differenzialismo o –comunque la si voglia chiamare- dell’unica concezione metapolitica radicalmente alternativa nei confronti della globalizzazione. I (dis)valori della modernità occidentale, i suoi presupposti ideologici e giuridici, la sua prepotenza assimilatrice sono analizzati e presentati in relazione alla effettive e concrete risposte che una comunità organica tradizionale -o quanto ne rimane- deve dare in termini di difesa della propria (e altrui) identità. Damiano osserva giustamente che la modernità “si fonda su un cumulo di macerie”, perché non può sopportare la compresenza di differenze che prescindano da mode di massa, da aspettative effimere e da diktàt livellatori. Con le buone o con le cattive -con la “persuasione” sottile e il consumismo o con le operazioni di “polizia internazionale”- la tendenza è quella di eliminare ogni radicamento, ogni specificità culturale, religiosa ed etnica, presentata come espressione fastidiosa di intolleranza ed egoismo. Il differenzialismo riconosce, di contro, l’esistenza di forme oggettive -etnie, religioni, tradizioni- nelle quali il singolo si situa secondo modalità e gradazioni, nonché attitudini, diverse. La relazione fra tali forme si instaura non secondo un principio di superiorità/inferiorità dell’una rispetto all’altra, e nemmeno di eguaglianza, ma viene scandita dalla diversità (non – equivalenza) di ogni forma, dalla loro capacità di connettersi e di separarsi a seconda della situazione.
    Sono, invece, i processi di assimilazione e di integrazione –ideologicamente determinati- a colpire mortalmente tali diversità, secondo una logica giacobina di falsa tolleranza. (A. Braccio, in 'Margini' n. 33, gennaio 2001)
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Le rivolte del Nord e quelle del Sud
    G. Savoini, V. Campagna

    in "Margini" n. 31, aprile 2000


    Il ritorno nella realtà politica e sociale dell'elemento “localistico” - dovuto non solo ad una reazione agli aspetti economici del processo di globalizzazione, ma anche al riaffiorare delle identità etniche - ci ha indotto a rivolgere alcune domande a esponenti di movimenti etnici: G. Savoini (giornalista della Padania) e V. Campagna (responsabile del Movimento Italia Meridionale; autore,per le Edizioni di Ar, della Rivolta di Battipaglia; direttore editoriale di Alburno).

    D. - Quanto è rilevante il fattore immigrazione nel processo delle trasformazioni globalizzanti?
    R. (Savoini) - Dietro il fenomeno dell'immigrazione extracomunitaria di massa si celano gli interessi più o meno occulti delle lobbies mondialiste. Il progetto di Governo Unico Mondiale verrà attuato soltanto dopo la distruzione, l'annichilimento, l'omologazione delle identità dei singoli popoli che compongono il continente europeo. Per questo motivo i potentati economici dell'Alta Finanza cosmopolita si servono dell'immigrazione come arma micidiale per sovvertire gli equilibri sociali, culturali ed etnici del nostro continente. L'Immigrazione non è un fenomeno inarrestabile, come propagandano gli scribacchini, i nani e le ballerine di regime. L'immigrazione può e deve essere fermata aiutando i popoli in via di sviluppo a casa loro.
    R. (Campagna) - L'immigrazione rappresenta l'atto finale di un processo livellatore delle differenze esistenti tra i popoli, condotto, inizialmente, nel far desiderare un mondo di eguali in cui la felicità è rappresentatadai beni di consumo prodotti dalle multinazionali. L'ultimo ingranaggio livellatore rischia, però, di incepparsi, in quanto moltissimi immigrati rifiutano la società occidentale, innalzando il vessillo della loro fede musulmana...ma ciò rappresenta il capitolo di un'altra lotta che noi dovremo sostenere, sia che abitiamo nell'Italia meridionale che nell'estrema punta Nord della Scandinavia, per difendere la nostra cultura di europei.

    D. - Il Nord e il Sud hanno dato risposte diverse, ma ugualmente significative, agli sconvolgimenti sociali degli ultimi decenni. Il Sud con le rivolte degli anni '60, il Nord con la creazione di un modo nuovo —etnico— di intendere la politica. Vi è possibilità che oggi il Nord e il Sud si battano assieme?
    R. (Savoini) - Sicuramente la possibilità di difendere al meglio le identità dei popoli padani e italiani passa attraverso una comunione di intenti tra le forze migliori del Mezzogiorno e della Padania. La Lega ha dimostrato di non voler perdersi nei rigagnoli di un anti-meridionalismo retorico e demagogico e auspica che il Sud possa realmente ribellarsi all'assistenzialismo e tornare orgogliosamente protagonista del suo destino. Altrimenti la Padania ha la forza di fare da sola. E lo farà.
    R. (Campagna) - Se si condivide che l'Italia è un piccolo satellite del pianeta mondialista, si condividerà anche che chiunque pensi di poter condurre da solo la lotta contro il processo di globalizzazione o è un illuso o appartiene a quel progetto mondialista che finge di voler combattere.
    Il settentrione e il meridione d'Italia non hanno alternative: devono organizzarsi autonomamente ma condurre uniti la lotta. Se per l'editore Franco Freda —imprigionato per aver previsto e denunciato, dieci anni fa, l'invasione della criminalità straniera— si fosse proceduto contestando tutt'insieme l'assurdità di processare le idee, invece di difendere i propri interessi politici di parte, oggi avremmo avuto una prima piccolissima vittoria contro il mondialismo.

    D. - In un libro di recente pubblicazione Elogio delle differenze. Per una critica della globalizzazione (Edizioni di Ar), L'Autore chiarisce i molteplici aspetti attraverso i quali si svolge il processo di globalizzazione. Può darci un suo parere sintetico su queste tesi?
    R. (Savoini) - I veri razzisti sono coloro che negano le differenze etniche e culturali tra i popoli. Il “politically correct” che domina in Occidente è oggettivamente un pensiero razzista che non tiene conto del fallimento del “melting pot” negli Stati Uniti, ovvero nel quartier generale del mondialismo. I padanisti, così come tutti i movimenti identitari europei, elogiano le differenze e non vogliono, che in nome del mercato senza regole, alle radici tradizionali si sostituiscono i falsi miti materialistici e consumistici che trasformerebbero il territorio europeo in un degradato falansterio di meticci rimbecilliti dall'ideologia del benessere materiale (che peraltro sarà goduto solo dalle élites e dai miliardari). Viva le differenze, dunque. Abbasso l'egualitarismo che, dopo la sbornia marxista-leninista, miseramente evaporata, si è reincarnato negli esegeti del mondialismo e della società multirazziale.
    R. (Campagna) - Condivido, totalmente, l'analisi di Giovanni Damiano nella sua opera Elogio delle differenze. Infatti la globalizzazione economica è solo un aspetto di quella perversa logica volta ad imporre un modello generale unico per tutti e in tutti i vari aspetti della vita: culturale, polititca, sociale etc. Ritengo, comunque, difficile tradurre in pratica questi concetti, in quanto l'uomo moderno si illude di essere tanto più libero quanto più è schiavo del sistema materialista consumista. L'unica possibilità di evadere dalla gabbia della globalizzazione è di riscoprire la propria storia, la propria cultura, e di amare la propria Terra come elemento non causale della propria nascita.Tra i vari difetti , l'italiano meridionale ancora ha il pregio di essere legato alla propria Terra e di non aver accettato, del tutto, il dominio dell'economia sulla propria vita, come ben illustra Ulderico Nisticò nel suo Prontuario oscurantista (Edizioni di Ar).
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    La religione degli antichi Germani

    Stefano Giuliano, in "Margini" n. 28, ottobre 1999

    Le principali fonti delle nostre conoscenze relative alla religione dei Germani sono: le cronache degli autori latini (soprattutto la "Germania" di Tacito, scritta nel 98 d.C.); le "Vitae" dei missionari, redatte a cavallo tra l'epoca del Basso Impero e l'Alto Medioevo; le composizioni islandesi denominate "Edda poetica" (raccolta anonima di carmi risalenti, probabilmente, al IV-V secolo, ma compilata nella seconda metà 88 del XIII secolo d.C.) e "Edda in prosa" (composta da Snorri Sturluson verso il 1220 circa); le poesie degli scaldi, basate sul patrimonio comune germanico e caratterizzate dall'uso delle così dette "kenningar" (1) (IX-XIV sec.); e, infine, le celebri saghe norrene (scritte nei secoli XII-XIII), racconti eroici, unici nel loro genere, che si pongono alla base del romanzo moderno. A questo elenco si può aggiungere le "Gesta Danorum" di Sassone Grammatico, opera stilata tra il XII e il XIII secolo, ma si tratta di materiale fortemente rielaborato e razionalizzato. Altre fonti sono le genealogie dei re norvegesi; le cronache degli insediamenti vichinghi in Islanda e Groenlandia; i reso conti di viaggiatori non scandinavi, come l'arabo Ibn Fadlan; gli autori cristiani, come Adamo di Brema; nonché i toponimi, la numismatica, le ballate popolari, l'iconografia.
    Le fonti classiche costituiscono un primo determinante approccio per lo studio della religione antico-germanica. Autori come Cesare, Plinio, Tacito si occuparono delle popolazioni abitanti al di là del Reno, che premevano sul limes imperiale. Nondimeno, tali fonti, quando elencano le divinità germaniche lo fanno per il tramite della così detta "interpretatio romana" , ossia sovrapponendo i nomi degli dei di Roma a quelli locali. Si genera, in tal modo, il problema dell'individuazione delle divinità locali "nascoste" sotto tale strato e che, spesso, è tutt'altro che certa. Il processo di identificazione si fonda sul confronto delle funzioni ascritte agli dei in questione, del materiale iconografico, nonché delle corrispondenze nella scelta dei nomi dei giorni della settimana(2).
    In un celebre passo, Tacito ("Germania", 9) indica quattro principali divinità: Mercurio, Ercole, Marte, Iside. Mercurio, scrive Tacito, è sopra tutti gli dei e a questi si immolano vittime umane. Egli, dunque, è identificabile con *"Wodanaz" (antico nordico Odhinn, antico inglese Woden, antico tedesco Wuotan). L'associazione tra Mercurio, che non è certo il più importante degli dei greco-romani, e Wodanaz nasce dal fatto che entrambi presentano un aspetto decisamente oltretombale. E' nota, infatti, la funzione di accompagnatore dei morti riservata a Mercurio, così come è altrettanto noto che a Wodanaz era affidata la cura dei guerrieri caduti in combattimento. Altre motivazioni per associare i due dei poggiano sull'iconografia: nelle raffigurazioni, a Wodanaz sono attribuiti la lancia e il cappellaccio, e a Mercurio il pètaso (cappello a falda larga) e il caduceo (bastone alato con due serpenti attorcigliati). Un'altra conferma si trova nella struttura dei giorni della settimana, cioè nella corrispondenza del "dies Mercurii" con il giorno di Wodanaz (inglese Wednesday, olandese Woensdag, antico scandinavo Odhinsdagr). I Germani, continua Tacito, placano Ercole e Marte immolando animali. Marte è, generalmente, identificato con il dio *"Teiwaz" (antico nordico Tyr), come prova la corrispondenza tra il giorno di Marte e il giorno di Teiwaz (inglese Tuesday, antico frisone Tiesdei, ecc.). Ercole, a sua volta, in un primo tempo, fu identificato con *"Thuranaz" (antico nordico Thórr, antico sassone Thunar) in forza delle armi, la clava e il martello, con le quali sono sempre raffigurati entrambi. Tuttavia, in seguito, Ercole sarà sostituito da Giove, in quanto il martello di Thuranaz simboleggia la folgore e, dunque, è più vicino all'arma per eccellenza del dio supremo dei greci e dei romani. La nuova relazione sarà ribadita dal collegamento tra il giovedì, giorno di Giove e il giorno di Thuranaz (inglese Thursday, tedesco Donnerstag, ecc.). L'ultima divinità citata dal grande storico romano è Iside la quale, ovviamente, non è una dea romana, (tanto è vero che lo stesso Tacito suppone che i Germani potessero averne appreso il culto da contatti con altri popoli). Essa potrebbe essere identificata con Nerthus, dea della fecondità, di cui Tacito parla in seguito ("Germania", 40), e alla quale, nella settimana germanica, era consacrato il venerdì (Friday in inglese, Freitag in tedesco), e, cioè il giorno di Venere appunto. Ma l'effettivo ruolo e la giusta collocazione di questa dea sono molto vaghe. I dati relativi alla religione germanica più antica si riducono a poche altre affermazioni: il mito delle origini dei Germani dal dio Tuistone, nato dalla terra, e di suo figlio Manno, dal quale sarebbero nate le stirpi degli Ingevoni, degli Erminioni e degli Istevoni ("Germania" , 2), mito in genere spiegato tramite la comparazione con modelli dell'India vedica(3); l'esistenza di una classe sacerdotale dedita all'esecuzione dei rituali, all'interpretazione dei presagi, alla persecuzione dei rei ("Germania" , 7), ma non avente di certo lo stesso peso che avevano, per esempio, i druidi in Gallia; il culto delle Madri, divinità femminili, concepite a gruppi di tre e mai separate, la cui funzione è di protezione e tutela, e le cui tracce si possono ancora scorgere nel folklore popolare (si pensi alle fate delle fiabe).
    Appare evidente che il quadro di riferimento della religione germanica arcaica sia piuttosto scarso. Occorre arrivare all'epoca medievale, e, specificamente, ad un ambito geografico più propriamente nordico (ma etnicamente affine) per avere testimonianze più sicure e più sostanziose, e cioè alla Scandinavia dei secoli XI-XII.

    Gli dei principali nordico-germanici
    I maggiori dei sono suddivisi in due grandi gruppi: gli Asi e i Vani, dove la distinzione segnala una differenza di carattere funzionale, essendo i primi associati alla sovranità, al diritto, alla guerra, i secondi alla fecondità , alla pace. Gli Asi sono gli dei sovrani. Essi dimorano in Asgard (recinto degli Asi), una fortezza celeste situata al centro del mondo cui si accede attraverso il ponte dell'arcobaleno, "Bifröst" , perennemente sotto la minaccia dell'assalto dei giganti, i nemici mortali degli dei, rappresentanti delle forze del male, del caos, dell'oscurità.
    Odino è il dio più importante fra gli Asi. Il suo nome è connesso alla radice indouropea *Wat, nella quale è espresso il concetto di ispirazione e furore e che si ritrova nel latino vates , nell'antico irlandese faith (veggente), nel gotico *wots (furente, posseduto). L'ispirazione si lega al suo rapporto specifico con l'arte poetica, la parola ispirata e la saggezza, mentre il furore si pone in relazione con la guerra. Egli è, contemporaneamente il dio dei vivi e dei morti e può essere benigno o malevolo, positivo o negativo. Nei miti della creazione è detto che Odino conferì agli uomini "spirito e vita", egli è pertanto il padre degli uomini e degli dei. Egli, in particolare, è il padre di tutti coloro che cadono in battaglia. Costoro vengono accolti nella Walhalla , la sala degli eroi, sono chiamati Einherjar (prescelti), e lo accompagneranno nella battaglia cosmica finale che porrà termine al mondo, dopo la quale ricomincerà un nuovo ciclo.
    Tyr appartiene anch'egli alla stirpe degli Asi. Si tratta di un dio di grande importanza del quale però si sa pochissimo. Il suo nome deriva dall'indoeuropeo *Déiwos , "dio", e, probabilmente, era identificato come la divinità suprema del cielo. Nell'"interpretatio" romana egli viene inteso come Mars . Suoi attributi sono il coraggio e la saggezza che lo mettono in relazione, rispettivamente con la guerra e con la pace di cui è garante. Egli, infatti era la divinità che presiedeva l'assemblea, il Thing . Tyr è monco, suoi paralleli indoeuropei sono, come ha dimostrato Dumézil, il celta Nuada e il romano Muzio Scevola.
    Heimdallr è il guardiano degli dei. Egli siede ai limiti del cielo, presso il ponte Bifröst. Heimdallr 6 dotato di vista e udito finissimi per poter scorgere gli attacchi dei giganti. Egli è il garante dell'equilibrio cosmico, tanto è vero che il suo avversario diretto è Loki, figura che, viceversa, incarna la costante minaccia all'ordine del mondo. Heimdallr sorveglia l'ordinato svolgersi del ciclo cosmico e conosce con esattezza quando verrà la fine del mondo. In quel drammatico frangente, egli si ergeràe soffierà nel corno "Giallarhorn", il cui suono si sente in tutti e nove i mondi della cosmologia nordica, chiamando gli dei alla battaglia.
    Thor è il dio del tuono e come tale antichissimo. La sua figura trova confronti indoeuropei in Indra per gli indiani, Taranis per i celti e Jupiter per i romani. La sua presenza si fa sentire attraverso il tuono e il lampo, rappresentando quest'ultimo sia il potere sovrano, creatore, legato alla fertilità, che il potere distruttore. Thor svolge una funzione di tutela degli dei e degli uomini.
    Baldr, figlio di Odino e di Frigg, sposo di Nanna. Snorri lo descrive come il migliore degli dei, bello e luminoso, saggio ed eloquente. La sua essenza è quella di un principio della luce. Baldr è destinato a morire in circostanze tragiche a causa della malizia di Loki, ma rinascerà per presiedere alla nuova era che seguirà il Ragnarokk .
    Loki è una figura singolare tra gli dei ed è dotato di una grande ambivalenza. Egli, in taluni miti è il compagno di Odino e Thor, e spesso gli dei si traggono d'impaccio grazie alla sua astuzia e alla sua abilit\à. In altri, invece, Loki è colui che attenta all'ordine cosmico, un ingannatore maligno e temibile. Sebbene appartenga agli Asi, egli genera creature mostruose. Dalla sua unione con la gigantessa Angrboda nascono tre figli: Hel, guardiana del regno dei morti, Fenrir, il grande lupo, e il serpente che giace nell'oceano, le cui spire avvolgono tutta la terra. Egli è presente nei miti più antichi per sottolineare come il male abbia origine al principio stesso del mondo. Il suo atto più efferato è aver provocato la morte di Baldr. Per tale colpa è catturato dagli dei e incatenato a tre massi mentre un serpe velenoso è legato sopra di lui, così che il veleno gli gocciola sul volto. Loki si libererà solo alla fine del mondo allorché capeggerà le forze del male nel Ragnarokk.
    Njordr fa parte dei Vani edè il padre di Freyr e di Freya. Egli governa il vento, il mare e il fuoco, ed è il protettore dei viaggi di mare e della pesca. Il suo nome risale alla radice *Nertu - che contiene l'idea della forza vivificante e procreatrice. Nell'"interpretatio" sarebbe dunque da intendere come la dea Nerthus ponendo il problema, che rimane tuttora aperto, dell'identità sessuale di questa divinità.
    Freyr è il dio della fecondità e ha potere sulla pioggia e sul sole. Inoltre governa le ricchezze degli uomini (tra i suoi appellativi vi sono: "dio dell'abbondanza" e "dispensatore di ricchezza"). Il suo nome significa "signore". Egli dimora in "Alfheimr", il paese degli elfi, uno dei nove mondi della geografia nordica. Freyr èstato identificato con Yngvi, il progenitore, secondo Tacito, della tribù degli "Ingaevones" da cui deriva, per Snorri, la grande stirpe dei re norvegesi degli "Ynglingar".
    Freya è la dea dell'amore, della fertilità e della lussuria. Ella è anche in relazione con la guerra e le spettano la metà di caduti in battaglia (l'altra metà tocca ad Odino). E' maestra di magia, arte che si lega a pratiche sessuali, e, per la sua bellezza, è oggetto del desiderio dei giganti.

    Il Ragnarokk (fato degli dei)
    Nella concezione germanico-nordica il tempo ha un carattere ciclico. Il presente si regge sul difficile bilanciamento di forze contrapposte (gli dei contro le forze del caos, cioè i Giganti e i mostri), destinate a scontrarsi in una lotta finale che darà anche origine a un nuovo ciclo di vita.
    La fine del mondo annuncia anche, inesorabile, il fato degli dei. Il mito racconta che dapprima vi sarà un inverno aspro e terribile. Faranno seguito altre tre lunghe stagioni fredde senza soluzione di continuità, durante le quali vi saranno guerre, assassinii, sacrilegi. Nel cielo si vedranno eventi inequivocabili: il lupo Sköll ingoierà il sole, il lupo Hati la luna, le stelle scompariranno, ecc. I mostri saranno liberi: Fenrir uscirà dalla sua tana con le fauci spalancate, sbuffando fiamme dalle narici e dagli occhi, e il serpente di Midgardr si leverà dall'oceano, provocando alluvioni e maremoti. Il cielo si spaccheràe le potenze del male daranno l'assalto alla dimora degli dei. Davanti a tutti vi sarà Surtr, il demone di fuoco, quindi Loki, i giganti di ghiaccio e i demoni infernali. Costoro oltrepasseranno Biföst , che si frantumerà al loro passaggio. Heimdallr soffierà il suo corno e gli dei indosseranno l'armatura, accingendosi alla battaglia, seguiti dagli "Einherjar". Un destino di morte attende gli dei; nondimeno essi, risolutamente, vi marceranno incontro ("fatalismo attivo"). Odino sarà davanti a tutti. Egli si scontrerà col lupo Fenrir che lo ingoierà, prima di soccombere a sua volta, ucciso da uno dei figli di Odino, Vi\darr, il quale gli conficcherà la spada in gola fino al cuore. Thor combatterà col serpente e riuscirà ad ucciderlo, ma morrà subito dopo a causa del veleno di questi. Freyr lotterà con Surtr e cadrà anch'egli. Il cane infernale, Garmr, affronterà il dio T yr e moriranno entrambi, così come Loki e Heimdallr. Quindi, Surtr appiccherà il fuoco, distruggendo tutto eccetto taluni luoghi dove saranno radunati i morti (da una parte i buoni e da un'altra i malvagi, secondo una concezione che ha, probabilmente, subito degli influssi cristiani). Quando il fuoco avrà arso ogni cosa, vi sarà un nuovo inizio. La terra riemergerà dalle acque, nuovamente verde e fiorente. Un nuovo sole splenderà nel cielo. Gli dei sopravvissuti, i figli di Odino Vidarr e Vali, i figli di Thor, Baldr tornato dagli inferi, daranno inizio ad una nuova stirpe divina e, da un uomo e una donna, avrà inizio una nuova generazione umana. Tuttavia il tenebroso drago Nidhöggr solcherà i cieli, segno che la rigenerazione del mondo non significa la rottura dell'equilibrio tra forze opposte né la definitiva scomparsa del male.

    Note:
    L'asterisco che accompagna alcune parole contenute nel testo indica i termini ricostruiti secondo le regole della filologia. (N.d.R).

    (1) Si tratta di metafore piuttosto elaborate, composte di due termini per cui, ad esempio, la nave è il "cavallo dell'onda", la battaglia è "la voce della spada" , il guerriero è "albero della battaglia", ecc.
    (2) La suddivisione dei giorni della settimana venne adottata in queste regioni nel IV secolo d.C. e si basava sulla ripartizione romana.
    (3) Tuistone contiene, etimologicamente, il numerale 2, \è interpretato come il Gemello e confrontato con il dio vedico Yama, che significa appunto "gemello", mentre Manno, che significa "Uomo", è equiparato a Purusa ("Uomo"), l'uomo primordiale da cui nacque l'umanità.

    L'Autore collabora con la cattedra di Storia delle Religioni dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Ha pubblicato saggi e recensioni su riviste specializzate.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    La moneta come mezzo o come fine del processo sociale.
    Un confronto tra W. Beveraggi Allende e G. Simmel.

    Francesco Ingravalle, in "Margini" n. 31, aprile 2000




    La pietra angolare del saggio di Beveraggi Allende —La teoria qualitativa della moneta (Edizioni di Ar)— è costituita dalla seguente affermazione: il valore del denaro, in una economia monetaria, dipende essenzialmente dalla "destinazione produttiva per cui questo denaro è stato immesso nell'economia."1 Il valore del denaro dipende, cioè, dalla sua finalità produttiva, la "causa" del suo essere immesso nell'economia è interpretabile come "causa finale" - il che significa che viene introdotta la categoria di "finalità" nella riflessione sul denaro. Parlare di "finalità produttiva" equivale a parlare di "finalità sociale" e questo, a sua volta, equivale a porre un'istanza di controllo sociale sulla circolazione monetaria, a tentare di sottrarre la dinamica della circolazione monetaria ai meccanismi della speculazione e persino ai "capricci" della distribuzione dei redditi. Si esce così dalla logica liberistica del laissez faire e dalla mitologia smithiana della "mano invisibile" che ripartirebbe "naturalmente" la ricchezza.

    E' chiaro che l'introduzione della considerazione finalistica nel problema della immissione del denaro in un dato sistema economico sia impossibile senza caricare l'amministrazione pubblica di un compito preciso di controllo sulla moneta e sulla circolazione.

    E', parimenti, chiaro che il denaro viene considerato come strumento della produzione, in evidente contro-tendenza rispetto ai reali meccanismi dell'economia finanziaria e alle sue teorie apologetiche che fanno del denaro l'alfa e l'omega dell'intero processo produttivo.

    Per Beveraggi Allende ciò che conta non è il "confronto globale" tra moneta da un lato e beni e servizi dall'altro, come nelle teorie quantitative della moneta, bensì "la parcellizzazione settoriale" o "interazione settoriale" tra le parti che compongono queste variabili la quale contribuirà non solo a chiarire la formazione dei distinti prezzi ( e di conseguenza il livello dei prezzi), ma anche a rendere possibili e ad orientare l'"immissione" dei flussi monetari, là dove essi risultino più convenienti.2

    Confrontare globalmente moneta, beni e servizi crea, per così dire, una "cattiva universalità" in cui si perde, con la specificità dei diversi settori produttivi, anche la possibilità di orientare l'immissione dei flussi monetari, cioè di pianificare gli interventi politici di rettifica dei meccanismi di mercato. Tale confronto globale è, invece, l'anima del modo di procedere tipico della teoria quantitativa della moneta. Che cosa significa, infatti, "confronto globale"? Perdere di vista quei fattori qualitativi che incidono, comunque, sulla consistenza degli indici quantitativi che dovrebbero darne espressione matematica e ridursi ad amministrare pure sequenze di cifre al netto della conoscenza qualitativa del "modo di operare" delle specificità dei singoli settori. I dati che compaiono in tutta la loro veste matematica di oggettività sarebbero, dunque, sostanzialmente non rispondenti alle vere dinamiche del sistema economico.

    La teoria quantitativa della moneta si riconosce bene dalle terapie che propone: "per evitare l'inflazione bisogna evitare l'‘eccesso di mezzi di pagamento’ in rapporto alla quantità di beni e di servizi, e per evitare la deflazione bisogna procedere nel senso inverso, ovvero, bisogna provocare, tra l'altro, un certo ‘eccesso di mezzi di pagamento’"3. La condizione ottimale del sistema economico sarebbe la stabilità della massa monetaria - che si tenta di ottenere "razionando"il credito con la pratica di alti tassi di interesse. Così, però, si colpisce lo sviluppo della produzione, si favorisce l'elefantiasi dei servizi e si facilitano le manovre speculative.

    Il rimedio viene indicato attraverso tre formule:

    - estensione del credito produttivo al tasso di interesse minimo affinché non lievitino i prezzi;

    - credito qualitativo destinato alla produzione e orientato al raggiungimento della piena occupazione dei fattori produttivi;

    - credito qualitativo destinato al consumo e orientato dal criterio del bene comune.

    E' evidente che l'interesse dell'Autore è attratto soprattutto dai problemi della produzione e dall'incidenza dei problemi monetari su di essi; la distribuzione è, in effetti, studiata sopratutto in relazione alle finalità produttive - dove, comunque, non risulta facilmente individuabile una analisi sociale dell'"ambito produttivo". Quest'ultimo si presenta, nella teoria, come stranamente compatto, esente da conflitti di classe o anche soltanto di interesse che caratterizzano, invece, ogni struttura sociale classista, basata sulla divisione del lavoro e sull'approprazione privata del plusvalore. Il sistema economico descritto dall'Autore sembrerebbe una "comunità organica" originaria; sennonché, le sue caratteristiche salienti sembrano, invece, essere quelle di una società divisa in classi in cui, però, il bene comune prevale sull'appropriazione privata. La sfera della produzione viene presupposta come un ambito di organica collaborazione fra lavoratori e proprietari dei mezzi di produzione in chiara contro-tendenza rispetto alla realtà dei rapporti sociali tipici di un contesto moderno. In altre parole, il conflitto di classe è assente dal modello proposto e non viene visto neppure come forza interferente nei processi di produzione e di scambio.

    E' significativo che, proprio perché qualitativa, la teoria monetaria di Beveraggi Allende rinvii, sostanzialmente, a criteri di valutazione come il "bene comune" o come le "finalità" (sociali, si direbbe) della creazione di nuova moneta di matrice extra-economica, affermando con chiarezza che l'economia è un mezzo intenzionato ad altro (rispetto a sé stessa). Un altro, politico, una gestione politica dell'economia, una rottura del cosmo dell'"uomo economico". Ma è possibile una simile alterità nel regno dell'alienazione, dove il denaro è diventato fine del processo sociale- tanto da far dire a Georg Simmel, nel 1889 "Mai si è trasferito in modo tanto completo su di un oggetto un valore che l'oggetto stesso possiede solo grazie alla sua traducibilità in un altro dotato di un valore proprio?"4.

    E' possibile l'altro là dove il denaro è sintesi sociale astratta, "ed è l'astrattezza propria soltanto dell'azione di scambio e non della coscienza di coloro che scambiano, la quale, al contrario, si occupa del valore d'uso delle merci (o di qualsiasi altra cosa la spinga alla sua azione d'uso) e non partecipa in nessun modo all'astrazione"5 ?

    Come ogni forma di interazione sociale, il denaro educa collettivamente:abitua ad assumere atteggiamenti verso il mondo, la vita, i nostri simili, il tempo, lo spazio, l'ozio, il lavoro; prodotto dell'interazione sociale esso conforma a se stesso l'interazione sociale complessiva al modo di una "seconda natura". E' proprio il caso di dire con Marx: "Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza."6.

    Vi è, dunque, una sorta di "inconscio sociale" attraverso cui si affermano i meccanismi dell'astrazione conformando i nostri comportamenti, spesso contraddittori rispetto alle nostre idee di valore (morali, religiose o politiche). Questa è l'alienazione: la soggettività non è cosciente di sé perché ha perduto la cognizione di sé nei meccanismi astraenti dell'"inconscio sociale" ("coloro che scambiano si occupano del valore d'uso delle merci" inconsapevoli di ciò che realmente li spinge all'"azione d'uso").

    Portare l'inconscio sociale alla piena coscienza è il compito della critica dell'economia politica, la quale è preliminare rispetto a ogni teoria positiva della moneta. Soltanto la critica dell'economia politica può permettere di recuperare nozioni come quella di "bene comune" o di "finalità produttiva" che fondano la teoria qualitativa stessa della moneta.

    I processi di scambio, in generale, comportano la relazionalità dei valori delle cose scambiate:lo scambio avviene sulla base dell'equivalente; infatti cose incommensurabili non si possono scambiare: non c'è equivalenza possibile tra cose ugualmente "assolute". La relazionalità dei valori non è, tuttavia, la loro relatività; per il solo fatto di essere costruzioni simboliche- o, se si preferisce, "idee senza parole" tradotte in immagini e comportamenti - ciascun valore è in quanto si trova in relazione di implicazione o di esclusione rispetto ad altri, la sua essenza si definisce continuamente attraverso l'"alterità". Il "vero" stesso si definisce attraverso il processo di negazione del "falso" e, dunque, pur essendo relazionale, non è relativo. La relatività dei valori compare soltanto quando un dispositivo di equivalenza "pareggia" quantitativamente i valori; dunque, in un sistema nel quale la quantità matematicamente misurabile è assunta come tertium comparationis esclusivo. Ad esempio, la possibilità di esprimere il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre le merci attraverso la struttura simbolica del denaro costituisce il fondamento logico della possibilità della misura matematica dei valori delle merci stesse. Il requisito della misurabilità presuppone che ogni aspetto del valore sia stato ridotto a quantità; né la morale, né la religione, né la politica costituiscono ambiti di valori esenti da un simile processo. Per la loro stessa destinazione sono chiamati a normare la realtà sociale e ne devono amministrare caratteri che non sono essi a determinare e dai quali sono, al contrario, modellati, se non determinati. Se la realtà sociale vive se stessa sotto l'esclusivo profilo di una visione quantitativa del reale, anche i valori "non-economici" saranno sottoposti a una sorta di "traduzione"in termini quantitativi.

    L'abitudine a tradurre la qualità in quantità, come habitus mentale, crea le premesse psicologico-sociali perché non soltanto i valori d'uso ma anche i contenuti rappresentativi della coscienza vengano trattati come equivalenti, diventino, cioè, oggetti esterni di scelta e commisurabili. Tale abitudine, operante non soltanto nell'economia finanziaria, ma al tempo stesso, nella visione tecno-scientifica della realtà, riduce l'intero mondo vitale a quantità equivalenti e, dunque, relative l'una all'altra. L'economia finanziaria crea un tipo di vissuto sociale e personale che stimola, così, il relativismo e il nichilismo come aspetti indissolubili della coscienza dell'economia capitalistica avanzata. E come punti teoretici di "non-ritorno". Il declino della convinzione dell'assolutezza dei valori morali ha aperto la strada al criterio "extra-morale" della funzionalità economica (il profitto) e tecno-scientifica (l'efficacia, anche sganciata dal profitto) dalla quale si ritiene di poter ricavare il "bene comune". Al contrario, l'universalità del denaro è un'universalità nichilistica: nessun fine è razionale, oppure valido, in se stesso; alla fine, scegliere l'uno oppure l'altro è questione di punti di vista, a loro volta determinati sul piano storico-sociale.7

    E' possibile ricostruire l'"anamnesi della genesi" di tale nichilismo attraverso la critica dell'economia politica se quest'ultima parte dal dato dell'alienazione e della sua inscindibile connessione con l'evento della proprietà privata dei mezzi di produzione, per cogliere, nel presente, i segni che annunciano l'"altro-dall'-alienazione". In altri termini, porsi il problema di una finalità sociale della moneta equivale a mettere in discussione la forma-merce dal punto di vista dei suoi effetti antropologici, ma nella piena consapevolezza che non si tratta di ritornare a epoche passate, ma si tratta di costruire il futuro a partire dalla critica immanente del presente ai suoi livelli più avanzati. Non si tratta, neppure, di contrapporre un modello di "uomo nuovo" alla "decadenza" presente: il "nuovo" nasce dalla dialettica dell'"attuale" o non nasce affatto; nasce dal desiderio sociale di liberarsi dalle forme di espropriazione della soggettività che hanno capovolto il progetto di emancipazione della Modernità nel livellamento economico e tecno-scientifico e dai luoghi sociali in cui l'alienazione si manifesta con i caratteri più distruttivi. Per questi motivi la critica immanente di ciò che esiste non può che presentarsi come critica dell'economia politica.

    La nozione di "bene comune", nella sua generalità, diventa comprensibile soltanto alla luce dell'immagine del soggetto espropriato della sua soggettività, cioè alla luce dell'immagine del soggetto metropolitano sottoposto alle dinamiche probabilistiche dei mercati come un tempo lo era il contadino ai capricci delle stagioni. Il "bene comune" è il contrario di tale espropriazione.

    E' possibile che soltanto in questa prospettiva il contributo di Beveraggi Allende sia comprensibile nelle sue più profonde implicazioni. Ma ciò non potrà accadere fino a che non ci si sarà convinti che le dinamiche economiche globali non rispondono alla volontà di chicchessia, ma si sono del tutto autonomizzate dalla volontà dei singoli, come dalla volontà dei consigli d'amministrazione. La complessità del sistema mondiale, anche soltanto nelle sue "frazioni" locali, rende impossibili le strategie e molto ardue le tattiche. Il denaro comanda gli oligopoli, non già viceversa; l'astratto dirige le mosse del concreto. In fondo, la teoria quantitativa della moneta non fa che rispecchiare la realtà dell'economia finanziaria assecondandone la logica, una logica dietro la quale non c'è nessun "cattivo" che stia manovrando. Ed è proprio questo che fa del nostro un mondo profondamente alienato: l'astratto domina il concreto.



    1 Cfr. Walter Beveraggi Allende, Teoria qualitativa della moneta, (1982), Tr. it. di Fabrizio Sandrelli, Padova, Edizioni di Ar, 1993, p.21.

    2 Cfr. W. Beveraggi Allende, Teoria qualitativa della moneta , cit., pp. 22-24.

    3 Cfr. W. Beveraggi Allende, Teoria qualitativa della moneta, cit. , p. 37.

    4 Cfr. Georg Simmel, Psicologia del denaro, tr. it. di Paola Gheri in Georg Simmel, Il denaro nella cultura moderna, a cura di N. Squicciarino, Roma, Armando, 1998, p. 49.

    5 Cfr. Alfred Sohn Rethel, Il denaro. L'a priori in contanti , (1990), tr. it. di F. Coppellotti, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 26.

    6 Cfr. Karl Marx, Per la critica dell'economia politica (1859), tr. it. di Emma Cantimori Mezzamonti, in Karl Marx, Il Capitalismo. Critica dell'economia politica, libro primo. Appendici: Per la critica dell'economia politica, capitolo VI inedito e altri scritti, a cura di Giorgio Backhaus, Torino, Einaudi, 1978, p. 957.

    7 Cfr. Max Horkheimer, Eclissi della ragione (1947), tr. it. di Elena Spagnol, Torino, Einaudi, 1974, cap. I.


    L’Autore di questo scritto ha pubblicato, per le Edizioni di Ar, i segg. volumi:
    Nietzsche. Illuminista o illuminato?,
    L’automa della legge,
    La Teoria e le sue ombre.
    Ha curato, inoltre, la recente, quarta, edizione della "Disintegrazione del sistema", di Franco Freda.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Finis Europae



    Ogni anno, quando aprile volge alla fine e il vento di primavera impolvera le strade, la rumorosa celebrazione del 25 Aprile ci strappa dagli abituali pensieri per richiamare alla nostra coscienza la tragica fine della guerra. Il crollo politico e spirituale dell’Italia e dell’Europa. In verità nessuna occasione è più propizia per consentirci di valutare adeguatamente l’entità morale della catastrofe: le bandiere alle finestre per celebrare una sconfitta militare, il giubilo concorde del partito russo e di quello americano che, alla distanza di tanti anni, continuano a rappresentare gli interessi dei loro padroni contro l’interesse nazionale europeo, l’apologia e la celebrazione del 25 Aprile ci strappano dagli abituali pensieri e ci portano a quelli del massacro e dell’odio civile.

    Ma, al di là dell’agiografia commemorativa, rimane la drammatica importanza dell’anniversario. Poiché la guerra la cui fine si celebra non fu solo guerra civile e mondiale ma la tragedia storica che ha portato alla detronizzazione dell’Europa e ha trasferito le insegne del comando del territorio del nostro continente alla Russia e all’America. Con questa tragedia il tramonto dell’Occidente, profetizzato da Spengler nel 1917, diviene una schiacciante, evidente realtà.

    Vi sono epoche nella storia, spesso concluse nel breve giro di mesi o di anni, che ardono da lontano di inestinguibile chiarore, come isolate da un cerchio di luce sull’opaca scena della storia del mondo. Recinti da questa magica cintura di fuoco uomini ed avvenimenti riappaiono con irreale lentezza e ricchezza di particolari come l’estremo profilarsi di costruzioni inghiottite da un incendio che divampa all’orizzonte in una notte serena. Sono le epoche cruciali, quelle in cui l’angelo della storia batte con le sue grandi ali a sollievo o a terrore dei popoli e in cui, nel volgere di pochi, turbinosi eventi, si decidono i destini delle civiltà.

    A queste epoche appartiene la seconda guerra mondiale, che segna la lotta estrema dell’Europa contro la morte politica e si conclude con la sua lunga, disperata agonia. In essa ogni breve episodio si cristallizza nella memoria dei secoli, ogni figura subisce una stilizzazione eroica, ogni battaglia diventa epopea e mito.

    L’agonia dell’Europa è lunga. Essa incomincia all’alba del 6 giugno 1944 quando il mare di Normandia, d’un tratto, nereggia di navi. È un’armata navale immensa e paurosa, la più grande flotta di tutti i tempi radunata per rovesciare sulle difese del Vallo Occidentale una marea di uomini e di armi. L’America, con le sue forze intatte ed il suo poderoso potenziale industriale scaglia centinaia di migliaia di soldati contro i bastioni della madrepatria europea. E’ la Nemesi storica che si volge contro il vecchio continente colpevole di non aver saputo garantire adeguate possibilità di vita a milioni di suoi figli e di averli lasciati fuggire oltre l’Oceano ad alimentare la forza della grande repubblica materialistica dei deracinés. La lotta divampa crudele sul bianco nastro costiero della penisola di Cotentin. Ogni minuto, ogni ora rimbomba di paurosi boati, di schianti mortali: è il giorno più lungo della guerra, come Rommel lo aveva chiamato. La difesa è impari ma disperata: «Gli uomini della SS – racconterà un superstite di parte americana – si gettavano sui nostri carri armati come lupi sulla preda. Ci costringevano ad ucciderli anche quando ci saremmo accontentati di prenderli prigionieri». È il momento decisivo della guerra: se gli Americani vengono ributtati a mare, se le difese del Westwall tengono, la grande invasione del continente potrà essere ritentata tra due, tre anni. In quel tempo tutto potrebbe cambiare. Ma la schiacciante superiorità delle forze e il totale dominio dell’aria decidono la lotta.

    Se il pensiero ripercorre quegli avvenimenti si fissa su alcuni ossessivi dettagli che portano il segno della fatalità. Così la mancata utilizzazione della segnalazione del controspionaggio tedesco che aveva individuato la parola d’ordine dell’invasione diffusa in linguaggio cifrato dalle emittenti inglesi; così l’assenza di Rommel, in visita alla moglie per il compleanno di lei. Ma, due giorni prima dello sbarco di Normandia, ben altro presagio si era mostrato a segnalare sciagura e fine per l’intero continente: la caduta di Roma. Roma la città creatrice della civiltà dell’Occidente il 4 giugno era stata occupata dalle truppe alleate. Pure, sulla via di Roma, dal lontano gennaio in cui erano sbarcati nel porto di Anzio, gli Americani avevano lasciato caterve di morti. E su questo medesimo fronte si erano verificati alcuni oscuri fatti d’armi, piccoli nella cronaca generale della guerra, ma gravidi di significato per l’onore del nostro popolo: per la prima volta dopo l’otto settembre soldati italiani avevano combattuto in prima linea contro l’invasore. In aprile, dopo l’incontro con Hitler a Klessheim, Mussolini aveva visitato le divisioni italiane addestrate in Germania. Con giubilo indescrivibile Mussolini era stato accolto da un unico grido levatosi dalle bocche di quei dodicimila uomini: «A Nettuno! A Nettuno!». Ora quella prima invocazione alla lotta e al sacrificio aveva trovato conferma nel sangue. Il battaglione Barbarigo, insieme ai volontari delle SS italiane, aveva tenuto valorosamente il fronte tra Borgo Piave e il lago Fogliano. Di mille ne rimasero meno di 400. Ad Ardea e a Pratica di Mare i giovanissimi della Folgore compirono prodigi di valore. Anch’essi si fecero uccidere fino all’ultimo uomo muovendo all’assalto dei cari nemici col moschetto e, all’occorrenza, anche col pugnale. Di 980 andati in linea il 31 maggio, il 3 giugno non ne rimanevano che 30. E questi trenta eroici disperati, ritirandosi verso Roma col cuore pieno d’angoscia per la scomparsa dei loro camerati, ancora trovavano la forza di fermarsi, di piantare le mitragliatrici, di scagliare le ultime, rabbiose raffiche contro il nemico.

    Il crollo del Vallo Atlantico e la occupazione della Francia, portata a termine per i primi di settembre, costituirono il primo esempio di “liberazione” in grande stile e, conseguentemente, la grande prova generale del nuovo costume “liberatorio”. L’Europa, che ancora non aveva avuto modo di impratichirsi nella nuova moda politica, trattenne il respiro di fronte ai nuovi orrori, di marca prettamente democratica. «Oh libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome!»: queste parole che Madame Roland pronunciò salendo alla ghigliottina costituiscono il miglior commento alla sanguinosa carneficina con la quale si tentò di distruggere tutti quei francesi che avevano collaborato con la Germania per la creazione di un nuovo ordine europeo. Le vittime, secondo le dichiarazioni ufficiali di un ministro francese del dopoguerra, ascendono a oltre centocinquemila. Altri, innumerevoli, vennero stipati nelle prigioni rigurgitanti di uomini e di donne. I volontari antibolscevichi, che hanno bagnato del loro sangue la terra di Russia per difendere l’Europa dal comunismo, subiscono la crudele vendetta dei copartigiani rossi che li braccano, li massacrano, li seviziano. È un’immensa tragedia che prelude a quella che dilagherà in tutta Europa pochi mesi più tardi.

    Tra le vittime della “libertà” sono alcuni dei migliori ingegni francesi: gli scrittori Céline e Chateaubriand, costretti all’esilio, Charles Maurras, che paga con l’ergastolo la sua battaglia contro il farisaismo democratico, Drieu La Rochelle, suicidatosi per la incapacità di sopravvivere in un mondo crollato, Brasillach, fucilato nel febbraio del ’45 dopo che, nel settembre dell’anno precedente, si era costituito per far liberare la madre. Brasillach non aveva mai svolto una vera e propria attività politica, non era mai stato iscritto a nessun partito. Ma aveva messo la sua opera di poeta e di scrittore al servizio di quella che riteneva la causa della gioventù europea. Nel carcere egli verga ancora gli ultimi scritti, i versi degli indimenticabili poemi di Fresnes: «Sento il dolore del mio paese con le sue città in fiamme – le sofferenze inflittegli dai suoi nemici e dai suoi alleati – sento l’angoscia del mio paese lacerto nel corpo e nell’anima – chiuso nella ferrea trappola della sofferenza».



    * * * * *



    Intanto, nella torrida estate che vede la liberazione della Francia, gli alleati risalgono la penisola italiana verso la Linea Gotica. Al Nord la Repubblica Sociale si prepara alla lotta più aspra e disperata. L’invasione del territorio nazionale, l’intensificarsi del terrorismo comunista richiedono una mobilitazione nazionale delle forze combattenti. Gli iscritti al partito, dei 18 ai 60 anni, vengono armati. Nascono così le Brigate Nere. L’anima di questa resistenza accanita, di questo nuovo Fascismo che ritrovato lo spirito e l’audacia delle squadre d’azione, è Pavolini. Giovane, dinamico, interessato ai problemi della cultura e scrittore egli stesso, Pavolini, che proviene da una delle migliori famiglie fiorentine, incarna l’energia disperata dell’ultima battaglia, la volontà della lotta ad oltranza. È lui che organizza i fascisti di Firenze per l’estrema resistenza nella città. A Firenze, sgomberata dai Tedeschi, i franchi tiratori fascisti resistono per una settimana. Uomini, donne, fanciulli, sparano dai tetti sugli alleati e sui comunisti. Dopo la fine della guerra un ufficiale americano, chi gli chiede quale città italiana gli sia piaciuta di più, risponderà: «Firenze, perché è l’unica città dove ho veduto degli italiani che hanno avuto il coraggio di spararci addosso». Malaparte dedicherà un’indimenticabile pagina de La Pelle alla descrizione della fucilazione di franchi tiratori e franche tiratrici fiorentine, ragazzi e ragazze di quindici o sedici anni che muoiono beffandosi dei loro carnefici gridando: «Viva Mussolini!». È l’unica pagina pulita e luminosa in quel libro così tetramente sudicio e opaco, l’unica nella quale il nome italiano esca onorato.

    Ma la grande, paurosa minaccia incombe da Oriente. Dalle tragiche giornate di Stalingrado il bolscevismo ha continuato la sua inarrestabile marcia verso Ovest. Nell’estate del ’44 esso forza le porte orientali d’Europa e dilaga nei Balcani. Il tradimento della Romania e delle Bulgaria permette ai sovietici di congiungersi con le bande di Tito e di entrare a Belgrado il 22 ottobre. Pochi giorni prima, il 15, mentre i Russi forzavano i passi dei Carpazi, Horthy aveva chiesto un armistizio. Fulmineamente i Tedeschi ristabiliscono la situazione formando un governo capeggiato dal maggiore Szalazy, il condottiero delle Croci Frecciate, sostenitore della resistenza all’ultimo sangue contro le orde sovietiche che dilagano in tutta l’Ungheria, bruciando, saccheggiando, stuprando. Contemporaneamente le truppe sovietiche hanno continuato la loro avanzata nel settore nord del fronte orientale. Ad agosto hanno occupato il sobborgo orientale di Varsavia, Praha, separato dalla Vistola dal resto della città. Nella capitale polacca divampa la rivolta. Essa sarà miseramente schiacciata dai Tedeschi sotto lo sguardo impassibile dei Russi che, di là dal fiume, assistono con soddisfazione al massacro delle ultime forze “borghesi” polacche. In settembre e in ottobre si compie la tragedia dei paesi baltici, rioccupati dai Russi. Ben trecentomila profughi seguono la ritirata delle armate tedesche mentre le forze superstiti della Wehrmacht si trincerano in una sacca in Curlandia.

    La guerra divampa ormai alle frontiere della Germania mentre le città tedesche ardono, notte e giorno, in un continuo rogo di bombe. Ma la volontà di resistenza è incrollabile. Gli alleati insistono nell’offrire l’inconditional surrender. Dall’altra parte i Russi hanno eloquentemente chiarito le loro intenzioni massacrando fino all’ultima donna e all’ultimo bambino la popolazione del primo villaggio tedesco caduto nella loro mani. La risposta a tutto ciò sono le V1 e le V2, le micidiali armi nuove che portano il nome della vendetta (Vergeltung 1 und 2) e che volano oltre la Manica come frecce di fuoco. Di fronte alla minaccia d’invasione del suolo della Patria si decreta la mobilitazione totale. Nasce così il Volksturm, l’“uragano di popolo” nelle cui fila combattono vegliardi e giovinetti. Il 2 ottobre gli Americani giungono davanti alla prima città tedesca, Aquisgrana. All’intimazione di resa il comandante della piazza risponde che «una città dove sono stati incoronati 14 imperatori tedeschi non si arrende senza l’onore di un combattimento». La lotta divampa per venti giorni. Nel centro della città le SS si sacrificano fino all’ultimo uomo per permettere la ritirata dei difensori e la ricostituzione di un fronte sulla Roer che reggerà per ben 4 mesi. Dalle città arse, dalle vie ingombre di cariaggi e di feriti, dalle profonde foreste germaniche si leva ancora l’inno dei giovani hitleriani: «Tremano le fradice ossa del mondo – di fronte alla grande guerra – ma noi continueremo a marciare – anche quanto tutto ci cadrà intorno in pezzi».

    Pure, nel tumulto della guerra, la fine del 1944 arreca un poco di sollievo, un momento di tranquillità insperata, di nuova speranza. La fortezza europea è stata invasa ma sul fronte della Vistola, sulla linea Sigfrido, sulla Gotica, in Ungheria la situazione tende a stabilizzarsi. Il mondo si copre di un manto di neve che, come il cielo nebbioso che impedisce il volo ai bombardieri alleati, sembra distendersi a sollievo e protezione dell’Europa. Sono ancora possibili giornate di speranza, di euforia, come quella in cui Mussolini parla a Milano, al Teatro Lirico. All’uscita, una folla indescrivibile gli è intorno, lo saluta col braccio levato, si accalca gridando enfaticamente “Duce, Duce!». È l’ultimo discorso di Mussolini e l’ultimo trionfo. Egli ha parlato con moderazione e fermezza, ha illustrato le realizzazioni della Repubblica, ha polemizzato coi Tedeschi. L’eco è immensa in tutta l’Italia che deve ammettere che il Fascismo è riuscito è riuscito a superare la crisi del 1943, che ha ancora uomini e chances, e che, soprattutto, può ancora affascinare i giovani.

    Ma ben altra speranza viene dal fronte occidentale. Un giorno di dicembre l’esercito tedesco, che tutti danno per spossato e boccheggiante, passa violentemente all’offensiva. Le SS escono dalle loro buche nevose e travolgono le sorprese ed impreparate difese americane. È la battaglia delle Ardenne, il canto del cigno della Wehrmacht. Obbiettivo, Anversa, il grande porto belga senza il quale gli Americani non potrebbero continuare l’offensiva contro la Germania. È la estrema, geniale mossa di Hitler, che tenta di ripetere la manovra del 1940, la frattura del fronte nemico e l’insaccamento di una parte di esso. Per quest’ultima, disperata sorpresa si è provveduto al possibile e all’impossibile. Skorzeny, il leggendario liberatore di Mussolini, passa le linee con soldati travestiti da americani cambiando i cartelli stradali e creando lo scompiglio nelle retrovie nemiche. Per un istante il sole della vittoria risplende ancora sulla rossa bandiera crociuncinata. Ma è l’ultimo barbaglio di un astro cadente. Presto la schiacciante superiorità nemica ristabilirà l’equilibrio.

    È così che, al principio del 1945, si leva il sipario sull’ultimo atto della tragedia europea. Simbolicamente la prima città martire è Budapest, circondata il 24 dicembre e assediata fino al 20 febbraio. Le Croci Frecciate versano il loro sangue a fianco dei militi tedeschi. È da quel sangue che nascerà la scintilla della rivolta del 1956. Poi è la volta delle provincie orientali tedesche, raggiunte dall’offensiva sovietica del 12 gennaio 1945. Il Gauleiter slesiano Hanke aveva battezzato i lavori difensivi apprestati contro i Russi “Unternehmen Barthold”, l’operazione Barthold, dal nome del leggendario margravio tedesco che fermò i Mongoli in Slesia. Ora sono veramente le nuove orde di Gengis Khan quelle che vengono avanti. La guerra sembra ritornata ai tempi primordiali, quando lo stupro e il saccheggio erano il premio del vincitore. «Soldati dell’Armata Rossa! – scrive in un proclama propagandistico il raffinato letterato ebreo Ilija Ehrenburg – prendete le donne tedesche, umiliate il loro orgoglio razziale!». Mai nessun invito fu più fervidamente preso sul serio. Anche le bambine vengono ripetutamente violentate da dieci, venti soldati fino a morire di dissanguamento. Di fronte ad un così efferato nemico ogni viltà, ogni ritirata, è un crimine intollerabile.

    In Italia il terrore slavo infuria sul Carso. Militari e civili vengono seviziati, uccisi gettati nelle cupe voragini dette foibe. Ancora adesso quella terra restituisce gli scheletri dei “giustiziati”, l’uno incatenato all’altro col filo spinato, il vivo accanto al morto che col suo peso trascinava il compagno nell’abisso. È alla Repubblica Sociale che spetta l’orgoglio di aver compiuto l’estrema difesa dell’italianità della Venezia Giulia. Negli ultimi giorni di sfacelo i militi fascisti si dirigono verso il fronte orientale per tentare di salvare il diritto dell’Italia in quelle terre.

    Siamo ormai all’epilogo. Il 20 aprile, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, Adolf Hitler ha preso la drammatica decisione di rimanere a Berlino fino alla fine. I manifesti annunciano alla popolazione, ignara della sua presenza in città, che «il Führer è a Berlino, il Führer rimarrà a Berlino, il Führer difenderà Berlino fino al suo ultimo respiro». Il 23 tutte le sirene suonano: i Russi sono penetrati nei quartieri orientali della città. Incomincia l’ultima battaglia. I giovani hitleriani, in calzoni corti, si gettano sui carri nemici. Particolare significativo: gli ultimi difensori della Cancelleria del Reich non sono tedeschi ma i norvegesi della divisione SS Nordland e i francesi della Charlemagne. Il 30 aprile Hitler si uccide. Il rogo divampa nel cortile della Cancelleria mentre gli ultimi fedeli alzano il braccio nel saluto. Il giorno seguente lo seguirà Goebbels con la moglie e i figli. Lascia scritto: «Credo che in un momento come questo la nostra causa abbia bisogno di esempi più che di uomini».

    Anche per l’Italia è giunta l’ora della sua più grande tragedia storica. Gli alleati dilagano ormai oltre la Linea Gotica, invano contrastati dai soldati repubblicani sul Senio e sul Reno. Le bande partigiane possono finalmente scendere al piano per mietere i frutti dell’altrui vittoria. Frutti di sangue. La parola d’ordine è “Uccidete il fascista ovunque lo trovate”. Lo sterminio dei fascisti è sempre legittimato anche quanto si tratta dei 120 allievi diciassettenni della Guardia Repubblicana di Oderzo, arresisi pattuendo di aver salva la vita, o dei prigionieri di Schio, uccisi a tradimento all’interno del carcere. Non è disordinato tumulto o ira di popolo ma una sistematica, precisa disposizione del partito comunista che vuole sbarazzarsi per tempo di tutti gli uomini che possano ancora lottare per impedirgli di prendere il potere. Gli ultimi difensori della Repubblica Sociale, sorpresi dalla catastrofe e dal tradimento dei comandanti tedeschi in Italia, che si arrendono separatamente agli alleati, vengono catturati, disarmati, fucilati. Nel caos finale risplende il miraggio della ridotta in Valtellina, dell’ultima battaglia combattuta tra le nevi eterne delle Alpi. Ma il destino ha deciso le sorti dei capi fascisti e del Duce. Essi condividono il martirio degli oscuri 60.000 assassinati in questa settimana di passione. «Mirate al petto!»: queste le ultime parole di Mussolini trapelate dal silenzio ufficiale imposto dai dirigenti comunisti agli esecutori materiali della fucilazione.

    Adriano Romualdi


    Brano tratto da Le ultime ore dell'Europa, Edizioni Ciarrapico, Roma 1976.
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    Nota introduttiva



    Nota: il presente scritto costituisce la Nota introduttiva a Tipologia razziale dell’Europa di Hans Friedrich Karl Günther, pubblicato dalle Edizioni Ghénos di Ferrara (2003, 224 pagine, 320 illustrazioni, 20 cartine. Costo 20 Euro). Prima edizione a cura del gruppo di studi Ghénos.Traduzione della seconda edizione tedesca (Rassenkunde Europas, von Dr. Hans F. K. Günther,J. F. Lehemanns Verlag, München, 1926) ad opera di Silvio Waldner.


    Sull’utilità della prima parte del presente libro (capp. 1-6), quella più sistematica, data la totale esclusione delle nozioni razziali dall’ambito divulgativo (relegate in un iperspecialismo che quasi si vergogna di trovarsi di fronte al dato razziale, e che per ‘rimediare’ aggioga la ricerca al ‘dogma’ egualitarista), è già stato fatto cenno da parte dell’editore, Invece, vale la pena qui di soffermarsi un po’ di più sulla seconda parte del testo di Günther (capp. 7-12). Essa tratta piuttosto argomenti storici e temi di attualità (quali essi potevano essere negli anni Venti). In particolare, al Cap. 8, l’autore fa una sintesi di quegli sviluppi storico-razziologici che portarono alla decadenza dell’Ellade e di Roma, argomenti che poi egli avrebbe sviluppato in grande dettaglio in due sue opere specifiche mai tradotte in alcuna lingua diversa dal tedesco (eccettuati alcuni stralci in inglese) (1). Indipendentemente dalla fissazione del Günther sull’idea nordica (che aveva certamente i suoi pregi ma che fu portata all’estremo), la lettura di questa seconda parte ha una sua notevole utilità, in quanto vengono prospettate tematiche sociali che, incipienti all’inizio del secolo XX, sono adesso di tragica attualità.

    Quanto alla fissazione sull’idea che l’unica ‘razza portante’ della civiltà europea fosse stata e sia ancora quella nordica, è basata soprattutto su constatazioni storiche; e ‘l’idea nordica’, probabilmente valida ancora diversi secoli addietro, non è detto che continui ad esserlo adesso. Ogni cosa sembra indicare che la ‘razza’ nordica (in termini razziologici più esatti, la sottorazza nordica della razza europide) abbia subito un collasso interno dal punto di vista dell’evoliana ‘razza dello spirito’, con conseguente affievolimento della capacità di retto giudizio. Ne resterebbe, al massimo, una maggiore intraprendenza e, forse, serietà di propositi (ma probabilmente non una maggior intelligenza, laboriosità o inventiva) rispetto alle altre sottorazze europidi – qualità messe a profitto spesso e volentieri da elementi di torbida origine per scopi che con ‘l’idea nordica’ poco avevano a che vedere. Già Julius Evola aveva osservato che la facilità con cui le popolazioni a prevalenza nordica accettarono, quasi tutte, il Cristianesimo prima e il protestantesimo dopo (e l’americanizzazione in tempi recenti), non deponeva in loro favore: contro il veleno psichico biblista, la ‘razza nordica’ dimostrò di avere ben pochi anticorpi.

    Il Günther, poi, dimostra anche lui un'ottusa anglofilia, che si estende anche all’America del Nord – cosa non del tutto atipica della Germania della svolta dei secolo XIX e XX e anche dopo - la quale, per i Tedeschi, fu ancora più esiziale della loro slavofobia, anch’essa spesso ottusa ma che, se non altro, aveva dei precisi radicamenti storici. I ‘fratelli di razza’ anglofobi sono stati la rovina della Germania (e della razza europoide). In riguardo, valgono, fra l’altro, due osservazioni: (a) la ‘nordicità’ inglese (quale che possa essere l’importanza di questo fatto) fu sempre sopravvalutata: la popolazione dell’isola inglese è ed è sempre stata fondamentalmente di ceppo occidentale/mediterraneo; con buona pace del Günther, che va incontro agli anglofobi che hanno orrore di essere confusi con i centro o sud – europei, classificare l’inglese come lingua germanica è, scientificamente, un grossolano errore. L’inglese non è una lingua germanica – e tanto meno una lingua neolatina, nonostante il suo lessico neolatino al 70% - ma un liquame fonetico, grafologico, lessicale, grammaticale e sintattico che ha molto del ‘papiamento’ (3) e che, quale idioma profondamente degenerato, è stato classificato come strutturalmente affine alle lingue bantù (4).


    Silvio Waldner


    (1) Lebensgeschichte des hellenischen Volkes (Storia biologica del popolo ellenico) e Lebensgeschichte des römischen Volkes (Storia biologica del popolo romano) pubblicati ambedue da Franz Freiherrn Karg von Bebenburg, Verlag Hohe Warte, Pähl, 1965 e 1966 rispettivamente. (Verlag Hohe Warte, Tutzinger Str. 46 D-82396 Pähl. Tel: +498808267. Fax: +498808921994)

    (2) Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Mediterranee, Roma, 1969(3).

    (3) Il papiamento è quell’intruglio di spagnolo, olandese, portoghese e inglese che è adesso lingua ufficiale nelle ex-Antille Olandesi (Curacao, Aruba, Bonarie).

    (4) Dal linguista francese Claude Hagège, Storia e destini delle lingue d’Europa, La nuova Italia, Scandicci, 1995. Da notarsi (!) che l’Hagège è tutt’altro che un anglofobo o un americanofobo.


    Nel dopoguerra, nella più grande operazione di censura e distruzione culturale della storia, anche tutte le opere di Hans Friedrich Karl Günther furono messe all’indice. Il 13 maggio 1946 la Commissione Interalleata di Controllo emanò una legge “sull’estirpazione della letteratura a carattere nazionalsocialista o militarista”. Contemporaneamente si creò nella zona di occupazione sovietica un organismo specializzato (“Schriften-Prüfstelle bei der Deutschen Bücherei”) che intraprese subito la redazione di una nuova lista di libri proibiti (Liste der auszusondernden Literatur). La lista iniziale di 526 pagine comprende 13.223 libri e 1502 giornali proibiti dal 1 aprile 1946. A completamento di questa prima escono altri tre volumi rispettivamente il 1 gennaio 1947 (179 pagine, 4.739 libri e 98 giornali), il 1 settembre 1948 (366 pagine, 9.906 libri e giornali) e il 1 aprile 1952 (circa 700 libri e giornali). In totale furono proibiti poco più di 36.000 libri e periodici editi prima del 1945. Queste liste di proscrizione sono consultabili in quanto ristampate nel 1983 dall’editore antiquario Uwe Berg (Uwe Berg Verlag und Antiquariat, Tangendorferstr. 6, D – 21442 Toppenstedt, Tel. 04173 6625, Fax 04173 6225).
    Un’interessante selezione delle opere di Hans Friedrich Karl Günther è stata messa in rete ed è consultabile al sito http://www.white-history.com/earlson/gunther.htm
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    Werwolf



    Il termine "Werwolf" significa “uomo lupo”, “lupo mannaro” o “licantropo”. Il termine "Wehrwolf", che è pronunciato nello stesso modo, significa “armata del lupo” o “difesa del lupo”. Il termine "Wehrwolf" richiama una vecchia tradizione di lotta non convenzionale in Germania. Un famoso racconto scritto da Hermann Löns (1866 - 1914) e pubblicato nel 1910 descrive la guerriglia dei contadini del nord della Germania durante la Guerra dei trent’anni (edizione italiana Ed. Herrenhaus, Seregno, 1999). Il movimento di resistenza tedesco fu chiamato "Werwolf" sia per il particolare suono evocativo del nome sia perchè un "Wehrwolf Bund" era già esistito intorno agli anni ’20 nell’area nazionalista.

    Nell’autunno del 1944 durante un incontro tra il capo della Gioventù hitleriana Artur Axmann, SS-Obergruppenführer Hans Adolf Prützmann, il capo RSHA Ernst Kaltenbrunner e il Waffen-SS Obsturmbannführer Otto Skorzeny, Himmler espose il suo piano per il Werwolf. Prützmann, capo SS nel 1943 per il settore sud orientale e l’Ucraina e dal 1944 generale SS della polizia, assunse la direzione dell’organizzazione ed il compito di reclutare volontari e di organizzare il loro addestramento che sarebbe stato poi messo in pratica dagli SS-Jagdverband (squadre di caccia) di Skorzeny. Una volta addestrate, le unità Werwolf sarebbero passate dalla guida d’inesperti ragazzi della Hitlerjugend (HJ) a quelle d’ufficiali veterani dell’esercito e della Waffen SS.

    Il Quartier Generale del Werwolf fu organizzato nel castello (Schloss) di Hülchrath, vicino alla città renana di Erkelenz. I primi duecento volontari reclutati arrivarono lì alla fine di novembre e gli uomini di Skorzeny gli impartirono lezioni intensive sulle tecniche di sabotaggio, demolizione, armi leggere, sopravvivenza e radio comunicazioni. Prützmann cercò anche di organizzare altri centri d’addestramento nei sobborghi di Berlino ed in Baviera. Contemporaneamente furono approntati bunker speciali vicino al fronte da usare come depositi d’armi e materiali del Werwolf prima di essere fatti occupare dagli alleati. I membri del Werwolf furono muniti di documenti falsi forniti dalla Gestapo per essere in grado di mescolarsi anonimamente con la popolazione e di assumere la loro identità di combattenti clandestini solo durante le operazioni.

    Le azioni del Werwolf furono quelle tipiche della guerriglia: cecchinaggio, guerriglia, sabotaggio di strade e materiali. Nella zona d’occupazione britannica le attività del Werwolf furono circoscritte ad imboscate ed attentati tra cui quella che uccise il Maggiore John Poston, che era stato Maresciallo in campo di Montgomery nel deserto, in Sicilia e nel nord dell’Europa. Come Maresciallo di collegamento tra gli ufficiali Poston spesso viaggiava per raccogliere informazioni dello spionaggio per fornirle ai responsabili della pianificazione delle battaglie. Nell’ultima settimana della guerra, Poston fu attaccato da una squadra di giovani del Werwolf, mentre guidava il suo mezzo in una tranquilla strada di campagna dirigendosi verso il quartier generale di Montgomery. Colpito una prima volta cercò di difendersi, ma fu finito da una scarica di mitragliatore. Ci furono molti altri scontri tra i giovani partigiani e le divisioni armate britanniche. Sul versante americano la resistenza Werwolf fu molto più intensa. Nel settembre del 1944, allorché Montgomery si disse sicuro di potersi spingere fino nel cuore della Germania, dopo sei settimane d’assedio il 21 ottobre 1944 Aquisgrana, completamente distrutta, cadde in mano americana. Il 30 ottobre del 1944 gli occupanti nominarono sindaco l’avvocato Franz Oppenhof. La prima autorità tedesca imposta dal nemico. Il Werwolf lo considerò un traditore e lo perciò lo condannò a morte. Per giustiziarlo l’organizzazione pianificò la Unternehmen Karneval (Operazione Carnevale) alla quale parteciparono Ilse Hirsch di 22 anni, il tenente delle SS Wenzel, il suo operatore radio Sepp Leitgeb, Karl Heinz Hennemann, Eric Morgenschweiss di 16 anni e Heidorn. Per preparare l’operazione s’incontrarono nel castello di Hülchrath. Il 24 marzo del 1945 il commando Werwolf fu lanciato col paracadute nei sobborghi di Aquisgrana città che Ilse conosceva perfettamente. Oppenhoff di 41 anni, sua moglie ed i tre figli vivevano nella Eupener Strasse al n. 251. Una volta davanti alla casa, bussarono alla porta e Wenzel e Leitgeb lo freddarono. Mentre scappavano dalla città Ilse Hirsch fu ferita dall’esplosione di una mina e una scheggia uccise Sepp Leitgeb. Curata in ospedale la ragazza tornò nella sua casa di Euskirchen. Tutti i membri del commando, ad accezione del tenente Wenzel, furono catturati e processati dopo la guerra. Il “Processo Werwolf” tenuto ad Aquisgrana nell’ottobre del 1949 riconobbe colpevoli Henneman e Heidorn che ebbero da uno a quattro anni di carcere. Ilse ed Eric Morgenschweiss furono assolti per la loro età. Qualche tempo dopo Ilse si sposò e visse ad un chilometro di distanza dal luogo dell’episodio più famoso della sua vita. Del tenente Wenzel si persero le tracce e s’ignora la sua sorte. Oppenhof fu una delle molte persone accusate di collaborazionismo con il nemico che caddero per mano dei “Lupi mannari”. Il 1 aprile il Ministro del Reich Minister Goebbels annunciando alla radio la sua uccisione disse che il braccio del partito era lungo e che i suoi Werwolf erano vigilanti. Era l’annuncio ufficiale dell’esistenza del movimento clandestino di resistenza contro l’invasore. Altre radio diedero l’annuncio, il grido di battaglia della vecchia guardia tornava a risuonare. Un intero programma di propaganda del Werwolf fu trasmesso. Dalla radio si sentì la dichiarazione che chiariva il carattere del movimento clandestino di resistenza:

    "I raids terroristici hanno distrutto le nostre città dell’ovest. Le donne ed i bambini che muoiono lungo il Reno ci hanno insegnato ad odiare. Il sangue e le lacrime dei nostri uomini massacrati, delle spose oltraggiate, dei bambini uccisi nelle aree occupate dai rossi gridano vendetta. Coloro che sono nel Werwolf dichiarano in questo proclama la loro ferma e risoluta decisione di restare fedeli al loro giuramento, di non arrendersi mai al nemico anche se stiamo soffrendo in condizioni spaventose e possediamo solo risorse limitate. Disprezziamo i confort borghesi, resistiamo, lottiamo, facciamo fronte con onore alla possibile morte torneremo a vincere uccidendo chi avrà attentato alla nostra stirpe. Ogni mezzo è giustificato se apporta danni al nemico. Il Werwolf ha le sue corti di giustizia che decidono la vita o la morte del nemico come quella dei traditori del nostro popolo. Il nostro movimento scaturisce dal desiderio di libertà del popolo ed è votato all’onore della Nazione tedesca di cui ci consideriamo i guardiani. Se il nemico ci ritiene deboli crederà di poter ridurre in schiavitù il popolo tedesco come ha fatto con i popoli rumeni, bulgari, finlandesi deportati ai lavori forzati nelle tundre russe o nelle miniere inglesi o francesi; fategli allora sapere che nelle zone della Germania da cui si è ritirato l’esercito è sorto un nemico che non aveva previsto e che sarà per lui più pericoloso, che combatterà senza tener conto del vecchio concetto borghese di Guerra adottato dai nostri nemici solo quando gli fa comodo ma che è cinicamente rifiutato se non gli apporta vantaggi. Odio è la nostra preghiera. Rivincita è il nostro grido di battaglia".

    La paura del Werwolf si diffuse insieme con quella della creazione del ridotto alpino: l’idea di Goebbels di creare una sacca di resistenza permanente tra l’Austria e la Germania arroccandosi sulle montagne per continuare la lotta. L’ordine di reazione degli alleati fu spietato: ogni combattente Werwolf catturato doveva essere fucilato sul posto. Molti innocenti pagarono con la vita la durezza della battaglia finale. Le azioni del Werwolf, o supposte tali, furono represse con selvagge atrocità. Un esempio di rappresaglia di massa compiuto dagli Alleati è citato da Heinrich Wendig (1):

    "All'esercito tedesco viene rinfacciato di avere utilizzato nella sua guerra contro le spietate uccisioni perpetrate dei partigiani, contrarie al diritto internazionale, quote di rappresaglia da uno a 10 (e raramente maggiori) quale misura dissuasiva. Gli Alleati hanno tuttavia ricambiato con quote assai più elevate, anche in casi manifestamente immotivati. Un episodio esemplare avvenne nel marzo 1945 presso il castello di Hamborn, vicino Paderborn in Westfalia. In quel luogo il generale americano Maurice Rose era stato ucciso da un regolare soldato tedesco. La radio nemica addossò l'azione a del tutto inesistenti "Partigiani - Lupo mannaro" che avevano "ucciso alle spalle" il generale. Come risposta gli Americani liquidarono 110 prigionieri tedeschi che assolutamente nulla avevano a che fare con la morte del generale. La "Paderborner Zeitung" (4 aprile 1992), dopo decenni, scrisse sullo svolgersi di quel fatto: "Il Panzerkommandant tedesco sporse la testa dalla torretta, fece cenno con la sua Maschinenpistole e ordinò agli Americani di deporre le armi, cosa che fecero. Rose, che era generale, portava la sua pistola in una tasca, che egli voleva sbottonare. In quell'istante la Maschinenpistole del Panzerkommandant sparò. Il tedesco aveva palesemente frainteso il movimento del generale americano. Maurice Rose stramazzò sulla strada, morì sul colpo. Coloro che lo accompagnavano riuscirono a fuggire". Sulla misura della vendetta dice il menzionato giornale: "Con violenza cieca gli Americani uccisero nel complesso 110 soldati tedeschi prigionieri, che nulla avevano a che fare con l'episodio, tra cui giovani della Hitlerjugend e uomini di mezz'età del Volkssturm. Dietro al cimitero a Etteln morirono in 27. Testimoni ricordano che 18 altri cadaveri con un colpo alla nuca furono trovati a Doerenhagen dietro una siepe, tutti assassinati! Si lasciarono lì i cadaveri dei tedeschi per giorni. Gli Americani non permisero a civili tedeschi di seppellire i morti. Al Patton-Museum a Fort Knox (USA) i fatti inerenti alla morte di Rose sono riportati correttamente, non si fa però alcuna menzione dell'azione di rappresaglia fatta dalle truppe americane. Questo palese crimine di guerra degli Americani non è stato minimamente espiato o criticato nella stampa internazionale o addirittura stigmatizzato come altri (2)"


    Harm Wulf


    (1) Heinrich Wendig, Richtigstellungen zur Zeitgeschichte, Heft 8, Grabert, Tübingen 1995, S. 46.
    (2) Nota 1 rimanda al Hefte 2 (1991, S. 47ff.) e 3 (1992, S. 39ff.) dello stesso Hefte (Anm. 6); vedi anche Heft 10 (1997), S. 44f.
    Dall’interessante saggio “Sulla legalità della rappresaglia in guerra” di Germar Rudolf apparso sul n. 1, 1997 della rivista trimestrale Vierteljahreshefte für freie Geschichtsforschung (http://www.vho.org/VffG/1997/1/RudGei1.html)

    Lo scrittore tedesco Hans Zöberlein (1895-1964) (figlio di un ciabattino, laurato in architettura, eroe di guerra, membro del Corpo franco di Franz Epp aderisce alla NSDAP dal 1921, vedi anche http://www.polunbi.de/pers/zoeberlein-01.html#lit) pubblica, per la casa editrice ufficiale del partito Eher di Monaco, due romanzi di guerra monumentali: nel 1933 Der Glaube an Deutschland. Ein Kriegserleben von Verdun bis zum Umsturz (“La fede nella Germania. Un’esperienza di guerra da Verdun fino alla difatta”) e nel 1937 Der Befehl des Gewissens. Ein Roman von den Wirren der Nachkriegszeit und der ersten Erhebung (“L’imperativo della coscienza. Un romanzo sulle turbolenza del dopoguerra e della prima sollevazione”). A capo di un gruppo Werwolf nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1945, alla vigilia del suicidio di Hitler e a pochi giorni della capitolazione, guida l’esecuzione di otto cittadini di Penzberg che avevano deposto il sindaco nazionalsocialista. Sul luogo vengono lasciati volantini con questo scritto:

    "Warnung an alle Verräter und Liebesdiener des Feinde!
    Der Oberbayerische Werwolf warnt vorsorglich alle die jenigen, die dem Feinde Vorschub leisten wollen oder Deutsche und deren Angehörige bedrohen oder schikanieren, die Adolf Hitler die Treue hielten. Wir warnen! Verräter und Verbrecher am Volke büßen mit dem Leben und ihrer ganzen Sippe. Dorfgemeinschaften die sich versündigen am Leben der Unseren oder die weiße Fahne zeigen, werden ein vernichtendes Haberfeldtreiben erleben, früher oder später. Unsere Rache ist tödlich!
    Der Werwolf"

    “Monito a tutti i traditori ed amorevoli servitori del nemico!
    Il Werwolf dell’alta Baviera ammonisce ad ogni buon conto tutti coloro favoreggiano il nemico tra i tedeschi e i loro parenti o che minacciano o vessano chi mantiene la sua fedeltà a Adolf Hitler. Noi ammoniamo! Traditori e criminali del popolo che pagheranno con la loro vita e con quella della loro intera genia. Le comunità dei villaggi che attenteranno alla vita dei nostri od esporranno la bandiera bianca, saranno annientati prima o dopo. La nostra vendetta è la morte!
    Il Werwolf”

    Nel primo dopoguerra, per quest’episodio si fece un processo (per una descrizione dei fatti http://www.mordnacht.de/derprozess.shtml). I principali protagonisti furono condannati a forti pene detentive o a morte. Hans Bauernfeind, capo di uno dei “tribunali volanti” come "Incaricato speciale del Führer", responsabile per la sentenza eseguita “in nome del popolo” dichiarò: “Sono consapevole di non avere nessuna colpa” ed aggiunse “Come venni a conoscenza dei disordini contro la Wehrmacht a Penzberg, sono andato là dove era mio dovere per non piantare in asso migliaglia di soldati e ufficiali del fronte che si mantenevano fedeli.”. Lo scrittore ed eroe di guerra Hans Zöberlein, capo di una delle unità Werwolf che andarono a Penzberg per eseguire l’ordine di “Impiccare funzionari e caporioni comunisti del KPD della città”. Dopo l’azione disse: “A Penzberg c’era un porcile che adesso è stato ripulito”. Condannato a morte e poi all’ergastolo fu liberato nel 1958 per gravi motivi di salute. Ragazzi di 12 anni subirono processi e condanne all’ergastolo da parte delle corti marziali americane. Due membri della gioventù hitleriana di 16 e 17 anni furono condannati a morte alla fine del marzo del 1945 ed assassinati il 5 di giugno. Il gionale delle truppe americane Stars and Stripes disse che erano accusati d’essere cecchini ad Aquisgrana. A Budeburg vicino al Wesel l’8 aprile del 1945 uomini della 116 Divisione Corazzata furono assassinati senza processo dai soldati dell’esercito Americano a seguito della scoperta di volantini del Werwolf che invitavano alla resistenza.

    Volantino del Werwolf: “La lotta continua! Il nemico non ha vinto. Con la menzogna e la sobillazione vuole confonderti. Non prestare orecchio al nemico! Sorgi e combatti! La svolta viene! Solo il traditore ed il voltagabbana perdono il coraggio. Sii deciso fino all’estremo! Essere tedesco significa essere combattente. Meglio morto che schiavo”.

    L’opuscolo del Werwolf (ristampato in inglese col titolo SS Werwolf Combat Instruction Manual, a cura di Michael Fagnon, Paladin Press, 1999) che conteneva le istruzioni per condurre la guerra di guerriglia con sabotaggi, attentati sintetizzava le ragioni di queste operazioni con queste parole:

    Il nemico dovrà sottrarre truppe dalla linea del fronte per difendere le altre strade. La capacità offensive el nemico sarà indebolita. Ogni cosa che riusciamo a distruggere dovrà essere sostituita. Ogni danno apportato al nemico aiuta le nostre truppe.

    Cellule del Werwolf furono scoperte tra i soldati convalescenti. Ufficiali gravemente feriti ed anche infermiere furono sorpresi ad incitare i commilitoni ad atti di sabotaggio e resistenza. Non ci fu pietà per nessuno. Atti di resistenza continuarono isolati, ma il castello di Hülchrath cadde nelle mani degli alleati nell’aprile del 1945 e a questo punto l’organizzazione ufficiale del Werwolf cessò d’esitere. Nonostante la mancanza di una direzione centrale per la perdita del quartier generale atti isolati di resistenza continuarono anche dopo la cessazione delle ostilità. Il capo di zona della Hitlerjugend di Mansfeld divenuto Sturmbannführer SS e ferito gravemente nella battaglia di Kharkov organizzò 600 ragazzi della HJ nel Kampfgruppe Harz. Raccolse dagli ospedali veterani SS, studenti della NAPOLA, membri della Luftwaffe e ragazzi membri delle unità anticarro. Con questi effettivi incominciarono le azioni contro le truppe americane il 1 aprile 1945. dopo venti giorni oltre settanta combattenti erano caduti. In un tentativo d’imboscata ad un convoglio delle truppe americane molti caddero falciati dagli aerei giunti in soccorso dei soldati. Heinz Petry di sedici anni e Josef Schomer di diciassette furono processati come spie e fucilati il 5 giugno 1945. A nord di Amburgo verso la fine di aprile un gruppo trincerato di Werwolf ed i loro comandanti SS rifiutarono di arrendersi alla 11° Divisione corazzata Britannica. La loro resistenza continuò anche dopo l’appello alla resa dell’ammiraglio Karl Doenitz del 1 maggio. Alla fine del 5 maggio Doenitz fece la seguente proclamazione da Radio Copenhagen, Praga e Flensburg: “Il fatto che al momento sia in atto un armistizio significa che devo chiedere ad ogni tedesco, uomo o donna, di cessare ogni attività illegale nell’organizzazione Werwolf o altre dello stesso tipo nei territori occupati perché queste causerebbero solo danni al nostro popolo”. Il Generale SS Hans Adolf Prützmann nato il 31 agosto del 1901 a Tollkemit in Preuss, ispettore del Werwolf Bandenkampfverbände fino al maggio del 1945, catturato dai britannici si suicidò a Lüneburg il 21 maggio 1945.

    Bibliografia Rose, Arno, Werwolf 1944-1945. Eine Dokumentation, Motorbuch Verlag, 1980.
    Trees, Wolfgang, Charles Whiting Uternehmen Karneval. Der Werwolf-Mord an Aachens Oberbürgermeister Oppenhoff, EA.Triangel Verlag, 1982.
    Whiting Charles, Werewolf: The Story of the Nazi Resistance Movement 1944-1945, Pen & Sword Paperback, 1996.
    Prieß, Benno, Erschossen im Morgengrauen, "Werwolf"-Schicksale mitteldeutscher Jugendlicher Verhaftet - Gefoltert - Verurteilt - Erschossen Calw/Benno Prieß, 1997.
    Biddiscombe, Perry, Werwolf! The History of the National Socialist Guerrilla Movement, 1944-1946, University of Toronto Press, 1998.
    Fagnon, Michel, (a cura di) Werwolf Combat Instruction Manual, Paladin Press, 1999.
    Bridges, Bill, Werwolf: Die letzte Schlacht, Feder & Schwert, 2004.
    ARTHOS anno VI - n 10 - nuova serie, Werwolf, gli ultimi guerrieri del nazionalsocialismo di Alfonso De Filippi.
    Orientamenti anno VII n. 3-4, maggio/settembre 2004, Sulle orme della Wehrwolf di Mjolnir.



    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Quel "Terzo Regno" del socialismo nazionale europeo



    Arthur Moeller van den Bruck fu uno dei più alti risultati ideologici conseguiti dallo sforzo europeo di uscire dalle contraddizioni e dai disastri della modernità: fu uno dei primi a politicizzare il disagio della nostra civiltà di fronte all'affermazione mondiale del liberalismo e all'ascesa della nuova anti-Europa, come fin da subito fu giudicata l'America dai nostri migliori osservatori. Di qui una netta separazione del concetto di Occidente da quello di Europa. Il rifiuto dell'Occidente capitalista e della sua violenta deriva antipopolare doveva condurre in linea retta ad una rivoluzione dei popoli europei, ad un loro ringiovanimento, al loro rilancio come vere democrazie organiche di popolo. Come tanti altri ingegni dei primi decenni del Novecento, anche Moeller vide subito chiaro ciò che ancora oggi molti nostri contemporanei non riescono a distinguere: la perniciosità del liberalismo, la mortifera distruttività delle tecnocrazie capitaliste, l'inganno di fondo che dava e dà sostanza a quel centro di decomposizione mondiale, che già allora erano gli USA: falsa democrazia, impero della Borsa, libertà sì, ma unicamente per il dominio delle sette affaristiche.

    In una parola, per chiunque avesse occhi per vedere, era evidente che un trucco liberale stava per gettare sui popoli del mondo la sua rete di potere, gestita da minoranze snazionalizzate e apolidi: "L'appello al popolo - scrisse Moeller ne Il terzo Reich, il suo libro più famoso, pubblicato nel 1923 - serve alla società liberale soltanto per sentirsi autorizzata ad esercitare il proprio arbitrio. Il liberale ha utilizzato e diffuso lo slogan della democrazia per difendere i suoi privilegi servendosi delle masse". Chiaro come il sole! Ottant'anni fa, e con tanta maggiore profondità di analisi politica degli odierni cosiddetti no-global, ci fu qualcuno che centrò in pieno l'obiettivo politico, segnalando con forza quale razza di tarlo stesse corrodendo dall'interno la nostra civiltà … ben più lucidamente di tante "sinistre" - ma anche di tante "destre"… - di allora come di oggi, antagoniste di nome ma complici di fatto.

    Il disegno politico di Moeller era preciso: instaurazione di un socialismo conservatore; edificazione di una comunità solidale fortemente connotata dai valori nazionali; avvento di una "democrazia elitaria e organicista": il tutto, inserito in un quadro di ripresa del ruolo mondiale dell'Europa, gettando uno sguardo di simpatia verso la Russia, il cui bolscevismo Moeller - che fin da giovane fu ammiratore della cultura russa e di Dostoewskij in particolare - giudicava passibile di volgersi prima o poi in un sano socialismo nazionale. Era, questa, l'impostazione generale di quel movimento degli Jungkonservativen che faceva parte della più vasta galassia della Rivoluzione Conservatrice, la dinamica risposta tedesca alla sconfitta del 1918 e alle insidie della moderna tecnocrazia cosmopolita, da cui prese corpo infine il rovesciamento nazionalsocialista.

    Il senso ultimo del messaggio ideologico di Moeller è dunque duplice: da un lato, denuncia del dominio dell'economia sulla politica, per cui in Occidente, come egli scrisse, "il rivolgere l'attenzione alla fluttuazione del denaro ha sostituito la preghiera quotidiana"; dall'altro lato, fortissimo impulso alla ripresa della nazione, da incardinarsi su quel moderno corporativismo antiparlamentare in cui lo scrittore tedesco vedeva la vera rappresentanza del popolo, la vera partecipazione alla "comunità di lavoro". L'occasione di una rinnovata riflessione sul pensiero antagonista di Moeller viene adesso offerta dal libro di A. Giuseppe Balistreri, Filosofia della konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck (edizione Lampi di Stampa, Milano 2004). Un testo da cui si ricava, ancora una volta e supportata da una preziosa mole di riferimenti scientifici, l'importanza di un progetto politico che non si estingue nella circostanza storica in cui l'autore visse - la Germania guglielmina e poi quella weimariana - ma si presenta a tutt'oggi con la freschezza di un referente politico attualissimo, reso anzi ancora più immediato dal crescente tracollo che negli ultimi decenni ha investito il concetto europeo di nazione sociale.

    Moeller ebbe la capacità di risvegliare un sistema ideologico - il socialismo antimarxista - e di collocarlo a fianco del valore-nazione, così da presentare alle masse, stordite dalla doppia aggressione del bolscevismo e del liberalismo capitalista, un modello politico che, se da un lato intendeva rinnovare la società, dall'altro mostrava di volerlo fare senza distruggere i patrimoni di cultura, di socialità e di tradizione comunitaria che l'Europa aveva costruito in secoli di lotte. Tutto questo venne racchiuso dal termine terzo Reich: un'evocazione politica che portava in sé anche una volontà di rigenerazione morale, di rivincita religiosa sul materialismo, e che nascondeva l'antico sogno del millenarismo. Da Gioacchino da Fiore in poi, il "terzo regno" significò aspettativa, non solo religiosa ma anche politica, di un mondo finalmente giusto. Era dunque un mito. E Moeller reinterpretò questo mito in chiave ideologica, mettendolo a disposizione delle masse. Come scrive Balistreri, "il terzo Reich è un mito soreliano". Questo mito soreliano di attivizzazione del popolo fu infine organizzato politicamente dal Nazionalsocialismo il quale, se non coincise con l'elitarismo e l'impoliticità della Rivoluzione Conservatrice, ne tradusse le istanze teoriche in decisioni politiche, trasformando l'ideologia culturale in politica quotidiana di massa.

    Certo, il conservatorismo di Moeller, il suo disegno di una società "dei ceti", secondo una concezione corporativa conservatrice, rientrava in una tradizione tedesca - quella della Körperschaft, la "comunità dei ranghi sociali" - che esisteva fin dal prussianesimo ottocentesco. E tuttavia la novità del terzo Reich moelleriano consiste nell'abbinare questa tradizione con le esigenze della moderna società di massa. E' su questo punto che il vecchio conservatorismo doveva diventare il nuovo socialismo. Questo socialismo, come scrive Balistreri riassumendo la concezione moelleriana, "ristabilirà la democrazia nazionale di stampo tedesco, bandendo il liberalismo, il parlamentarismo e il sistema dei partiti, creerà la Volksgemeischaft che si costituirà secondo l'idea dell'articolazione per ceti e corporazioni, e si reggerà in base al Führergedanke". Moeller aveva compreso che al tentativo di una piccola minoranza di internazionalisti liberali di condurre le nazioni alla sparizione nella "globalità", si risponde con la nascita di un socialismo dei popoli.


    Luca Leonello Rimbotti
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Da qualche tempo, non solo le acque si tingono di quelle scorie che compendiano tutti i resti - e riassumono tutti i colori - della modernità. È la figura stessa dell'Europa che va tingendosi, nel crepuscolo di un presente che si struscia - con effusioni di languore, lascivia e torpore - al fenomeno mostruoso dell'invasione di gente di colore. Un crepuscolo che potrebbe venir dissolto e assorbito da una eruzione etnica: per far posto a un futuro buio e caotico. Nel lezzo diffuso dalla decomposizione della volontà di custodire le proprie tradizioni etniche, da parte di un'Europa di 'anime belle' che non avvertono l'alito della morte della loro razza, di bipedi ebeti e pavidi che non sentono il pericolo del progressivo 'incistamento' di razze estranee (alle stirpi europee) nell'organismo del nostro continente, si distingue l'afrore della questione razziale. Essa si impone non nei termini materialistici della minor disponibilità di beni di consumo per noi Europei, ma come dramma metastorico in cui si continua la 'guerra occulta' tra potenze della luce e poteri delle tenebre, tra anime vigorose, nobili e rette e anime decadenti, torve e oblique. Il dovere di noi Europei, discendenti dalle genti arie d'occidente, è quello di destare le nostre coscienze, attraverso una sorta di 'educazione militare dell'anima': ricordare quella grandezza e divinità che costituisce il retaggio dei nostri avi indoeuropei - e che verrebbe annientata nella convivenza con una massa mondiale magmatica. Ricordare e insorgere. Lottare - senza tumulti né violenze da noi provocati, ma senza transigere col dovere di contrastare la prepotenza degli allogeni - per Ia salvaguardia delle nostre comunità nazionali e razziali in Europa. Ricordare. Evocare e richiamare alla vita l'antenato ario che è in noi. Tornare alle origini dell'uomo di razza che è stato autore e generatore delle nostre stirpi - ovvero della cultura, dei costumi delle forme di vita della nostra specie. Insorgere. Difendere con generosità di cuore e perseveranza di opere quella terra e quel sangue che incarnano e manifestano, nelI'ordine fisico e biologico, quelle potenze naturanti, metafisiche e metabiologiche, che sono gli dèi del Sangue e della Terra. 'Consacrare' a loro la nostra volontà significa purificarla dalla decadenza - e purificarla equivale a stabilire la condizione fondamentale dell'esito vittorioso del nostro agire. Saranno essi, infatti le guide - disincarnate e invisibili, ma presenti - del nostro 'cammino di ronda' nella fortezza europea".


    Estratto dal libro "Fronte Nazionale" Edizioni di Ar
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    Der Wehrwolf

 

 
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