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    AC Milan 1899
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    Arrow L'industia dell'olocausto

    Uomini siate e non pecore matte, affinchè il giudeo nascosto tra di voi non rida. (Dante Alighieri, il Paradiso)



    L'industria dell'olocausto è un libro dell'ebreo Norman Finkelstein che racconta come la tragedia umana della shoah ebraica si sia tramutata nel volgere di pochi decenni in una abile operazione di marketing.
    Il libro è incentrato sul come è stato trattato e pubblicizzato l'olocausto negli Stati Uniti d'America: nel primo ventennio postbellico, qunado gli Stati Uniti erano intenti a creare una condizione geopolitica stabile nell'Europa dell'Ovest le lobby ebraiche americane misero a tacere i reduci dei campi di concentramento per non inimicarsi più di tanto la popolazione tedesca. Chi in quegli anni parlava di olocausto negli USA veniva rapidamente liquidato come comunista che tentava di distruggere i frutti delle dottrine Truman e del piano Marshall per favorire la Russia sovietica.
    Fu solo dopo la guerra dei 6 giorni del 1967 che, negli USA, l'olocausto divenne un fatto degno di risalto. Da quel momento cominciò una pubblicistica sfrenata fatta di libri (spesso frutto di fantasia come l'autore denuncia), incontri e musei.
    Perchè questo ritardo nel denunciare questo genocidio? Anche qui subentrano ragioni meramente economiche e geopolitiche, dal 1967 lo "stato" di Israele iniziò a rappresentare nell'immaginario collettivo la "sapda" dell'Occidente iin MedioOriente; fino ad allora gli stessi ebrei americani non avevano dato grosso peso alla creazione di uno stato ebraico in Medio Oriente e gli Stati Uniti avevano considerato Israele una delle tante pedine dell'area. Fu solo dopo la dimostrazione di forza nella guerra dei 6 giorni che gli americani aprirono gli occhi sulla potenzialità dell'esercito ebraico.
    A cosa mira la strategia dell'industria olocaustica?
    Questa tecnica di marketing mira a instaurare nella coscienza collettiva (e fino ad ora c'è riuscita benissimo) alcuni semplici dogmi:
    - innanzitutto che l'olocausto ebraico è l'unico olocausto della storia e che nessuna altra tragedia umana di un popolo è lontanamente paragonata a quella degli ebrei (neanche quella degli zingari anche loro vittime di Hitler). Questo assioma è privo di fondamento ma è utile per instillare nella gente che il popolo ebraico è l'unico e nessun altro popolo è lontanamente paragonabile, nè può aspirare ad essere, come lui. La vecchia storia del popolo eletto insomma.

    - in secondo luogo si mira ad affermare che l'antisemitismo che è sempre stato presente nella storia dell'uomo e del mondo è frutto di pura irrazionalità. Ogni critica, quindi, agli ebrei e ad Israele non ha motivo di esistere in quanto frutto di questo irrazionale fenomeno che attanaglia la storia dell'uomo.

    - conseguenziale al secondo punto è l'idea del popolo ebraico visto come eterna vittima dei "gentili" . Gli ebrei, quindi, non possono mai essere carnefici ma sono sempre vittime. Questo significa che, se intraprendono guerre lo fanno solo ed esclusivamente per difendersi daggli attacchi di terzi mossi dal cieco odio antisemita.

    Un libro quindi interessante che smonta molti di quei dogmi laici di cui le masse occidentali sono state vittime negli ultimi 60 anni.
    Il fatto che sia stato scritto da un ebreo non fa che accrescerne il prestigio, anche perchè se fosse stato scritto da un goym qualsiasi sarebbe stato immediatamente classificato come pubblicistica negazionista di qualche nazista senza alcuna credenziale.

  2. #2
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    Giovanni De Martis

    Prima di pubblicare "L'industria dell'Olocausto" Norman Finkelstein era un semisconosciuto professore docente dell'Hunter College dell'Università di New York. Non si era mai occupato dell'Olocausto se non per stroncare in una recensione il contestato libro di Daniel Goldhagen, "I volonterosi carnefici di Hitler", operazione questa abbastanza semplice vista la quantità di critiche che Goldhagen ha ricevuto da tutto il mondo accademico statunitense.

    In realtà Finkelstein in precedenza si è occupato del conflitto medio-orientale scrivendo due volumi che si distinguevano per una impronta fortemente filopalestinese.
    Legato agli ambienti della "sinistra" americana (la scuola di Noam Chomsky per intenderci) Finkelstein prima della pubblicazione de "L'industria dell'Olocausto" è dunque un mal pagato (lui stesso si è lamentato dei ventiduemila dollari annui percepiti all'Hunter College) professore quarantasettene.
    "L'industria dell'Olocausto" catapulta il nostro Finkelstein agli onori della cronaca dall'oggi al domani.

    I casi possibili sono due: o si tratta di un'opera geniale o - come spesso accade - compare al momento giusto nella giusta "confezione".
    Qualche dubbio sulla genialità del libro si può avere senza troppi timori. In primo luogo l'argomento non è affatto originale. Poco prima della pubblicazione de "L'industria dell'Olocausto" era uscito negli Stati Uniti un libro di un certo Peter Novick dal titolo "L'Olocausto nella vita americana". Più o meno Novick affrontava le stesse questioni di Finkelstein con maggiore pacatezza e in tono sociologico.
    In secondo luogo il libro di Finkelstein ha i toni dell'invettiva, è politicamente scorretto, abbonda di aggettivi insultanti quindi ha toni più da invettiva politica che da studio accademico.
    Possiamo quindi tranquillamente escludere la genialità come fattore di successo anche senza entrare nel merito delle argomentazioni di Finkelstein.

    Le ragioni stanno altrove: nel momento in cui compare e nel "confezionamento".
    Il libro di Finkelstein compare in una fase di profonda crisi degli studi americani sull'Olocausto. A fronte del fiorire di fondazioni e istituzioni che dovrebbero favorire gli studi sulla Shoah da tempo mancano opere di grande spessore.
    Raul Hilberg - padre degli studi sull'argomento con il suo monumentale "La distruzione degli ebrei d'Europa" - è un professore settantacinquenne che dopo il suo gigantesco contributo per evidenti ragioni anagrafiche non può più produrre altri grandi affreschi e interpretazioni.
    A fronte dell'anziano Hilberg vi sono certamente storici di grande spessore (Browning, Breitman ad esempio) ma tutti negli ultimi anni anziché produrre opere significative hanno passato il tempo in feroci litigi. Il giovane storico Goldhagen nel 1996 con la pubblicazione di un'opera che colpevolizza l'intero popolo tedesco per l'Olocausto, ha innescato una polemica che ha distratto gli studiosi da occupazioni più serie.
    Nell'ultimo decennio i migliori libri sulla Shoah (come "L'ordine del terrore" di Wolgang Sofsky) sono usciti dalle università della cara vecchia Europa.
    Alla crisi della storiografia americana sull'Olocausto si affianca un altro fattore: il conflitto arabo-israeliano e la sua recrudescenza. L'attenzione generale sul Medio Oriente è tale che il pubblico accoglie con vivo interesse studi sull'argomento specie se "nuovi", cioè in grado di ribaltare idee consolidate, opinioni generalmente condivise o condivisibili, analisi serie.
    Il libro di Finkelstein va a cadere in questo quadro generale: l'ambiente è favorevole. Ma non basta. Occorre anche avere una buona confezione.

    In genere si attira l'attenzione o per l'intelligenza o per lo strepito. Finkelstein segue questa seconda tecnica. Una vecchia storia racconta che una regina longobarda incitasse suo figlio sceso in Italia a distruggere i monumenti romani perché non potendo passare alla storia come costruttore sarebbe certamente divenuto immortale come distruttore. Finkelstein adotta pienamente la "strategia longobarda".
    Trattandosi di un pensiero barbarico non è difficile da mettere in pratica. Gli ingredienti sono pochi e il metodo semplice. Basta prendere un personaggio famoso - più famoso meglio è - e coprirlo di insulti, accusarlo delle peggiori nefandezze ed il gioco è fatto. Se poi il personaggio famoso è portatore di idee generalmente accettate e condivise si attaccano per maggiore sicurezza anche quelle.

    Il bersaglio della "strategia longobarda" di Finkelstein è Elie Wiesel. Premio nobel per la pace, scampato ai campi di sterminio, scrittore celebrato, Wiesel è il bersaglio ideale. Ma ancora non basta.
    La "strategia longobarda" deve unirsi anche ad un'altra tecnica: "la scoperta del complotto". Chiunque abbia una certa dimestichezza con la cultura cinematografica americana sa che la paranoia paga sempre e comunque. L'americano medio ha la passione per i poteri segreti che complottano nell'ombra, per oscure quanto potenti organizzazioni intente al dominio del mercato e del mondo. Il complotto è una spiegazione semplice, affascinante ed efficace per spiegare problemi e questioni che altrimenti avrebbero bisogno di approfondimenti lunghi e faticosi. Finkelstein tira fuori dal cilindro il complotto più collaudato del mondo: il complotto ebraico.
    Le organizzazioni internazionali ebraiche, in combutta con il governo israeliano dal 1967 in poi avrebbero elaborato un sofisticato piano per entrare nella stanza dei bottoni statunitense. Un piano diabolico ed efficace che utilizzando il ricordo dell'Olocausto avrebbe condotto da un lato la "lobby" ebraica ad occupare stabilmente il potere e dall'altro Israele a legittimarsi nella società americana come soggetto perseguitato.
    Il complotto ebraico avrebbe così inventato "l'unicità dell'Olocausto", banalizzato i genocidi del mondo passato, presente e futuro; creato istituzioni ed organizzazioni di ricerca al solo e segreto scopo di dominare gli Stati Uniti d'America. Ma - come è universalmente noto - gli ebrei sono avidi. Ed è l'avidità che rende scoperto il "grande piano segreto". La richiesta di "spropositati" rimborsi alle banche svizzere avrebbe segnato il punto terminale del progetto. Come si sa le banche svizzere sono per definizioni soggetti deboli, indifesi, incapaci di opporsi alla pressione delle lobby ebraiche. Così il cerchio del piano si chiude: grazie all'Olocausto il potere e il denaro cadono nelle mani dell'ebraismo che - come si sa - non cerca altro se non denaro e potere.

    Dai tempi dei famigerati "Protocolli dei Savi di Sion" di fabbricazione zarista e di utilizzo nazista non si dipingeva un quadro così ampio del grande complotto dell'ebraismo internazionale.
    Ma Finkelstein ha un'altra carta da giocare, una carta quasi perfetta: Finkelstein è ebreo e i suoi genitori sono ebrei scampati alla Shoah. Questa qualità diventa automaticamente legittimante: un ebreo antisemita sarebbe una contraddizione in termini. In più - rispetto agli ebrei delle lobby - è povero. Sua madre per le sofferenze patite durante la Shoah ha ricevuto la misera somma di 3.500 dollari.
    Il cerchio si chiude: "strategia longobarda", scoperta del complotto giudaico, discendenza ebraica dell'autore. A questo punto il contenuto del libro, le tesi esposte hanno poca importanza: il libro bomba è pronto.

    Ovviamente Finkelstein rappresenta una insperata benedizione per tutti i negazionisti dell'Olocausto. Non stupisce che i siti negazionisti e neonazisti in internet pubblicizzino il libro di Finkelstein e ne utilizzino ampi stralci. C'è proprio tutto quel che serve al negazionista professionale: complotto giudaico, sionismo israeliano, avidità. Da anni i negazionisti parlano di "dogmi" della storiografia ufficiale e trovare qualcuno che sostenga che l'unicità della Shoah è soltanto una astuta strategia per spillare soldi agli europei è come trovare un tesoro.
    Detto per inciso noi europei in generale in tutta la teoria di Finkelstein facciamo la figura degli imbecilli. Di fronte alla potenza delle organizzazioni ebraiche internazionali gli indifesi banchieri svizzeri si arrendono per timore delle rappresaglie del governo statunitense, i tedeschi aprono i cordoni della borsa per non essere accusati di antisemitismo.
    Qualche dubbio sulla stupidità dei banchieri svizzeri è lecito avanzarlo. L'accordo stipulato dalle banche elvetiche prevede che le compensazioni riguardino soltanto i conti "dormienti" cioè quei conti correnti aperti prima o durante la guerra i cui proprietari non si sono più presentati a reclamarne il contenuto. L'accordo esplicitamente stabilisce che non vi potranno essere ulteriori richieste di rimborsi ed esclude l'oro sottratto agli ebrei e depositato dai nazisti nelle banche svizzere, le opere d'arte confiscate agli ebrei e depositate in Svizzera. A colpo d'occhio anche i banchieri svizzeri sanno fare i loro affari e non sembrano soggetti deboli alle intimidazioni.

    Il libro di Finkelstein è un lavoro a tesi che offre il fianco ad una innumerevole quantità di obiezioni. Secondo molti la ridistribuzione del denaro delle compensazioni è avvenuta in modo poco trasparente, molte critiche si sono levate negli Stati Uniti su questo punto, critiche provenienti anche dallo stesso mondo ebraico americano.
    L'interrogativo che ci si può porre è se per contestare eventuali malversazioni o appropriazioni indebite fosse necessario scrivere un libro che - come diremmo noi italiani - "butta via l'acqua sporca con il bambino".
    Certamente si può criticare chiunque - Elie Wiesel compreso - ma attaccare personalmente il proprio interlocutore, accusarlo di disonestà materiale ed intellettuale non rientra nell'usuale modo di dibattere i problemi. Definire il Centro Simon Wiesenthal un'accozzaglia di affaristi senza cuore intenti unicamente a rastrellare fondi non sembra essere la base di partenza per un discorso costruttivo.
    Il volume di Finkelstein rientra in quella categoria di scritti che pretendono di dare risposte semplici a problemi complessi. In questo senso la teoria del complotto stimola le fantasie più ingenue.

    L'intervista che abbiamo realizzato via e-mail con Finkelstein aveva lo scopo di chiarire direttamente con lui la distanza che lo separa dai negazionisti. In questo senso ritenevamo giusto dargli l'occasione di precisarlo in modo netto.
    Non possiamo essere d'accordo con lui quando afferma che è "l'industria dell'Olocausto" che ha fatto nascere il negazionismo. I negazionisti operano da molto tempo. Se il 1967 è l'anno in cui - secondo Finkelstein - la macchina della "industria dell'Olocausto" si mette in moto potremmo citare operazioni negazioniste ben precedenti a quella data.
    L'impressione generale che ricaviamo è che Finkelstein non si preoccupi troppo di aver dato buone munizioni ai negazionisti. Noi crediamo invece che chi ha munizioni prima o poi tende ad usarle e chi le vende non può sottrarsi alle sue responsabilità.

  3. #3
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    E' bello vedere come da una parte si accusi di Finkelstein di andare avanti con sterili invettive personali nei confronti di Wiesel e dall'altra si faccia la stessa cosa nei suoi confronti.
    Che Finkelstein sia un ebreo povero e che la sua non sia altro che un'operazione di marketing non ci stupisce affatto, anzi non fa altro che confermare le altre tesi sviluppate nel libro in merito all'avidità giudaica.

    L'articolo, tra l'altro, giudica il libro di Finkelstein "facilmente attaccabile" ma non entra nel merito di come, ad esempio, secondo le organizzazione ebraiche oggi esistono più scampati all'olocausto che nel 1946.
    Non viene nemmeno mai spiegato come mai prima del 1967, l'olocausto non era negli USA argomento meritevole di attenzione e che lo è diventato dopo.
    Bella poi l'invettiva contro i banchieri svizzeri, che sono si una lobby potente ma che nulla possono (e ifatti lo dimostrano) contro la ben più potente lobby ebraica che detta la politica estera degli Stati Uniti e fa molte altre cose. Ricordiamo che la Svizzera ha accettato di sottoscrivere il risarcimento all'"Industria dell'olocausto" solo dopo che questi ultimi minacciarono una sorta di embargo annullando fondi pensione sottoscritti da interi stati USA....... insomma la lobby ebraica è solo un'invenzione!

 

 

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