La democrazia totalitaria

di massimo fini

Caro Direttore,
le motivazioni date per la guerra all’Iraq sono state cambiate più volte in corsa.
Prima era che Saddam non avrebbe mai accettato le ispezioni, ma quelle le ha accettate, poi che non avrebbe mai permesso a Blix e ai suoi di entrare nei «tenebrosi palazzi imperiali» e il raìs di Baghdad si è lasciato frugare persino nel frigorifero, quindi gli americani hanno sostenuto che, ispezioni o no, Saddam quelle «armi di distruzione di massa» ce le aveva di sicuro e che quindi non ciurlasse nel manico perché lo sapevano benissimo che c’erano. Per forza, verrebbe da dire, glieli avevano forniti loro il nervino e l’antrace, in combutta con altri Paesi occidentali e con la Russia.
Glieli avevano forniti perché li usasse prima contro gli iraniani di Khomeini - che allora era «il Male» di turno perché, a differenza di Saddam, all’epoca «laico» e socialisteggiante, non stava nella logica e nello schema del biimperialismo sovieto-americano, osava non essere né capitalista né marxista, orrore - e poi contro i curdi in rivolta divenuti insidiosi per l’alleata Turchia. Infine, poiché quelle armi non sono state comunque trovate nonostante i marines avessero setacciato l’Iraq in lungo e in largo, la giustificazione ufficiale è diventata che era necessario, giusto e morale abbattere un dittatore sanguinario e criminale ed esportare gloriosamente la democrazia in Medio Oriente.
Ebbene, se questa fosse davvero la motivazione della guerra all’Iraq, se le nostre opinioni pubbliche credessero sul serio che è un dovere morale dell’Occidente (termine già in sé sinistro, che evoca l’Eurasia e l’Estasia del «1984» di Orwell) abbattere con le armi le dittature, le teocrazie, i regimi tradizionali e tribali e insomma tutto ciò che non è democrazia, la riterrei la più agghiacciante delle motivazioni, più che se dicessimo che abbiamo occupato, pardon «liberato», Baghdad per il petrolio e per il colossale business della cosiddetta ricostruzione che mistifica come aiuto ciò che è invece un’ulteriore rapina.
Ci metteremo allora a fare guerre «di liberazione» alla Siria, come già si minaccia, e poi all’Iran, all’Arabia Saudita, alla Giordania, all’Egitto, al Pakistan, alla Cina, a Cuba e in seguito alle democrazie imperfette, alla Russia, al Venezuela e, perché no, anche all’Italia dove il capo del governo controlla l’intero sistema televisivo nazionale, come Saddam Hussein, e molto di più dell’autocrate Milosevic che pur siamo andati ad abbattere con le armi, senza l’avallo dell’Onu e in spregio di ogni norma di diritto internazionale, a cominciare da quella, fino ad allora mai messa in discussione, che vieta l’ingerenza militare negli affari interni di uno Stato sovrano, sempre in nome, va da sé, della democrazia e dei «diritti umani» (anche «umano» e «umanitario» stanno diventando termini inquietanti, che mettono in allarme come li si sente nominare)?
Ma, a parte questo, è lo stesso voler portare la democrazia ovunque, con le cattive ma anche con le buone, che è rabbrividente. Perché è una concezione totalizzante e totalitaria della democrazia, che somiglia molto a una dittatura universale. Non rispetta le tradizioni, il vissuto, i percorsi di popoli che hanno una storia che non ha nulla a che fare con la nostra e che si sono dati assetti politici diversi dalla democrazia ma non, necessariamente, meno rappresentativi. Qualcuno vorrà forse sostenere che i Taleban, che avevano il consenso, sia pur non espresso con i metodi elettorali di tipo occidentale, ridicoli e addirittura grotteschi in una realtà tribale, di tutte le zone rurali dell’Afghanistan, e cioè dell’80% della popolazione, fossero meno rappresentativi del governo «democratico» del Quisling Karzai, consulente da anni dell’americana Unocal, che controlla a malapena, nonostante l’appoggio delle truppe di occupazione chiamate, anche qui, «forze di liberazione» o di «peace keeping», Kabul e qualche città? Ma i Taleban erano «brutti, sporchi e cattivi», non erano democratici, imponevano il burqa (per la verità da quelle parti usava da sempre), avevano una concezione della dignità femminile diversa da quella che se ne ha in Occidente, dove la donna viene esposta e venduta, nelle Tv, nelle pubblicità, al cinema, a pezzi e bocconi come i quarti di bue in macelleria, non mettevano al primo posto l’economia ma il Corano, e quindi andavano abbattuti e il loro Paese spianato da bombe da dieci tonnellate. Ecrases l’infame!
Ma a parte la democraticità e la rappresentatività o meno di questi o di quelli, ogni popolo dovrebbe conservare almeno l’elementare diritto di filarsi da sé la propria storia, senza palesi supervisioni che vengono da migliaia di chilometri e da secoli di distanza. E invece questa concezione totalitaria della democrazia non rispetta, in nome di astrazioni, l’altro da sé, il diverso da sé. Rispetta e concepisce solo se stessa. È questo che ho chiamato «il vizio oscuro dell’Occidente», che viene da lontano, da molto lontano. Soffia, potente, non più in Europa ma sull’intero pianeta, lo spirito della Rivoluzione Francese, l’«esprit de géométrie», lo spirito dell’astrazione, dell’omologazione, della violenza ideologica, del giacobinismo. Lo spirito della ghigliottina. Ma noi la chiamiamo, disonorandola, democrazia.