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  1. #61
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    A proposito del contorno al provvedimento disciplinare intrapreso dalla direzione del Partito Comunista d’Italia nei confronti di Bordiga scrive Paolo Spriano: “ Si dice che Bordiga sia contrario in toto alla *svolta*, all’idea del socialismo [!!?], al giudizio sulla radicalizzazione della lotta politica e sociale in Italia. Si dice anche che egli preveda un periodo transitorio democratico in Italia (e non sarà il solo…). Al Centro risulta che Bordiga , liberato dal confino, abbia chiesto di poter tornare nell’isola di Ponza per completare certi lavori in qualità di ingegnere che aveva già intrapreso da confinato [..] Grieco ricorda che Bordiga non ha cercato minimamente di riprendere contatto con l’organizzazione comunista appena liberato ”.

    Per la verità Amadeo Bordiga non cercherà neppure di prendere contatto… con i “bordighisti”, tanto è ormai completo il suo volontario isolamento politico, che gli sarà rimproverato non solo dagli staliniani ma anche da taluni sui compagni di tendenza (Onorato Damen e seguaci), persino decenni dopo, in occasione di contrasti di impostazione politica e tattica fra varie correnti della “Sinistra Comunista” filo-bordighiana italiana.


    Tornando ai “tre” e a Ignazio Silone, al di là della moderna polemica storiografica sull’identificazione, più o meno provata a seconda delle interpretazioni, di Silone quale, ormai da tempo, informatore della polizia fascista (tesi sostenuta dagli storici Biocca e Canali, ottimi collaboratori di “Nuova Storica Contemporanea”, e tuttavia contestata da altri), la questione “Silone e i tre” rappresenta un momento rilevante che rende evidente il momento storico complesso nella vita del Partito Comunista d’Italia. Momento che corrisponde alla prima fase dell’epoca della clandestinità in cui il Regime ha spinto i comunisti e tutte le altre forze antifasciste e che coincide strettamente con il cosiddetto “terzo periodo” (quello settario ed estremista) della Terza Internazionale Comunista di Stalin.


    Eppure, dopo la definitiva espulsione della “nuova opposizione interna”, sarà proprio il Togliatti a cercare di recuperare Secondino Tranquilli – alias Silone e a tentare di metterlo contro “i tre”, scrivendogli: “ non solo ti differenzi a fondo dal gruppetto degli espulsi ma sii d’aiuto al Partito nella lotta contro di essi”.


    Se qualcuno aveva pensato che i provvedimenti contro i dissidenti avrebbero indotto taluno di loro a capitolare, presto dovra’ patire una cocente delusione. Neppure Silone, infatti, risponderà alle speranze di Palmiro Togliatti.
    Celebre è, poi, la fermissima reazione di Pietro Tresso: “ Sulle questioni organizzative affermo che oggi si lavora secondo il piano stabilito da me in gennaio, il che significa un fallimento della linea stabilita allora nel Comitato Centrale. Inoltre ritengo che le decisioni del CC di marzo sono state una caduta nell’opportunismo mascherata da frasi di sinistra. Sul compagno Ercoli ritengo che egli è sempre stato fermissimo nel tentennare. Ho detto che avrei lottato per le mie posizioni nel Comitato Centrale se il Partito me lo permetteva, fuori del CC se il Partito vuole così. Ora aggiungo che sono disposto a lottare per esse fuori del partito.


    Liquidati dal PCI, i “tre” si avvicineranno progressivamente sempre di più, per tutta una tempestosa fase politica, all’Opposizione Internazionale di Sinistra allo stalinismo, guidata dall’esule sovietico Leone Trotzky.


    Pierre Naville, come ci ricorda Giorgio Bocca nella sua biografia di Togliatti, “ [i] che allora lavorava alla *Veritè* [organo dei trotzkysti transalpini – nota di pfb]” rammenterà quanto segue circa “i tre” dissidenti italiani espulsi dal PCI: “ Il più attivo e intelligente era Pietro Tresso. Venne da noi, credo nell’aprile, e ci chiese se avremmo potuto pubblicare le notizie riguardanti il Partito italiano che la direzione stalinista si rifiutava di pubblicare sulla stampa del PCI. Ricordo che sia Tresso che Leonetti ci passarono parecchi scritti. La loro collaborazione divenne regolare dopo l’espulsione. L’odio del Partito italiano verso i tre crebbe nella misura in cui, servendosi de *La Veritè*, sottoponevano a critica severa l’operato del partito. ”.


    E’ però anche vero che alcuni aspetti non secondari delle critiche formulate dai “tre dissidenti” (e da Silone) alla politica del Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano sono, di fatto, condivisi, in carcere, da uomini che conservano invece opinioni sostanzialmente “ortodosse” sul ruolo di Trotzky e del trotzkysmo, relativamente al dibattito nel partito bolscevico post-leniniano e nella Terza Internazionale.


    Tra questi dirigenti comunisti spiccano le figure di Antonio Gramsci e di Umberto Terracini.


    [..continua.......]

  2. #62
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    [....continuazione .....]


    Terracini tende a giustificare, in qualche modo, persino, le successive scelte politiche degli espulsi: “ La condotta degli espulsi dopo la loro uscita dal partito è deplorevolissima, ma non può costituire a posteriori buon argomento a favore dell’espulsione. Codesti compagni, già pervasi dalla poco concordia cui ho accennato, esacerbati dalla grave misura cui sono stati colpiti, e non *stanchi* dell’azione rivoluzionaria, hanno creduto di poter conservare in quel modo i loro legami con il movimento proletario. Condotta non scusabile, ma spiegabile. " e nel concreto accusa la direzione politica di assumere posizioni estremistiche paragonabili a quelle difese a suo tempo da Bordiga nel 1922!!!
    Terracini respinge decisamente la tesi della “fascistizzazione della socialdemocrazia” : “Non credo ad una sottomissione dei gruppi fuoriusciti aventiniani e della socialdemocrazia al fascismo, ad un loro accordo, alleanza o comunque contatto […] Appunto perché la socialdemocrazia italiana non è diversa dagli altri partiti della II Internazionale, essa conserverà la sua posizione antifascista, quale d’altronde è necessaria per il successo della sua futura azione a difesa della borghesia […]” scriverà nella sua missiva al partito. Non solo, Terracini ha ben presente che le parole d’ordine settarie, quasi bordighiane, della direzione del PCd’I, sottomessa alla strategia del “terzo periodo” della Terza Internazionale di Stalin, porteranno il Partito “ a rendersi incomprensibile alle masse e quindi ad allontanarle; esse, alla nostra affermazione, a tutte le nostre previsioni sugli accordi fra socialdemocrazia e fascismo, risponderanno con una sola parola: *Matteotti*, cui noi nulla avremo di concreto da contrapporre. .
    Ma per il PCI guidato da Togliatti è venuto il momento dell’obbedienza cieca e totale alle direttive di Mosca. Come ricorda Giorgio Bocca, il Togliatti “ filtra nel partito italiano il metodo staliniano. ”.
    Riguardo alle critiche dei compagni dal carcere, in primis quelle del Terracini, in settembre così si esprime il Togliatti in una lettera inviata a Berti, che è diventato il rappresentante del partito italiano a Mosca:
    Sei troppo allarmato di questa cosa. Umberto [Terracini] è stato in maggio informato sommariamente sulle cose nostre. Sommariamente, perché credevamo che ciò potesse essere sufficiente, dato che non riteniamo ne’ utile, ne’ opportuno che un compagno nella sua situazione partecipi attivamente a dirigere la politica del Partito giorno per giorno (o anche settimana per settimana)… Ora gli abbiamo risposto nel modo più esplicito con una prima lettera…Non vi è niente che vada tenuto nascosto. Tutto sta a vedere in queste cose delle cose normali nella vita di un partito (si discute, si precisa, ci si metta d’accordo o si consta che esiste un disaccordo) e non farci su castelli in aria…. Vi è un disaccordo con lui che non si può mascherare.
    Ma, come ammette anche Aldo Agosti, il Terracini non è certo il solo a manifestare aperto disagio nei confronti della linea del Partito Comunista d’Italia (e della Terza Internazionale di Stalin) e dell’atteggiamento del medesimo Partito italiano nei confronti “dei tre” e di Silone: “ La verità è comunque che Gramsci è in radicale disaccordo con la nuova politca del partito, e non ne fa mistero, continuando, nei colloqui con i compagni di prigione, a prospettare l’ipotesi di un *intermezzo democratico* dopo la caduta del fasciasmo, e a ritenere valida la parola d’ordine della Costituente. Di certo Togliatti verrà a conoscenza delle sue posizione almeno nel marzo del 1931, da una lettera di Terracini al Centro estero in cui è detto che *corre e si rafforza, con quali ripercussione potete immaginare, fra i nostri gruppi nelle carceri la voce che Antonio dissenta radicalmente dalla linea del Partito
    Date le sue precarie condizioni di salute Antonio Gramsci è detenuto nel penitenziario “speciale” (per infermi) di Turi di Bari dal 19 luglio del 1928. Sostanzialmente, dai suoi “Quaderni del Carcere” non emerge alcun mutamento rilevante riguardo al suo espresso consenso alla linea storicamente affermatasi nella “maggioranza” del Comitato Centrale bolscevico ai tempi del duro confronto con le vecchie opposizioni. Gramsci si mantiene coerente anche circa le proprie critiche all’approccio teorico e metodologico attribuito a Trotzky ( nonostante il dissenso gramsciano verso certi metodi della “maggioranza” bolscevica e verso la rottura del “nucleo leninista” del partito russo).
    Negli anni del carcere, tuttavia, le convergenze di Gramsci con talune formulazioni critiche di Trotzky (sulla deriva, in quella fase, “estremista di sinistra” della Terza Internazionale di Stalin) appaiano evidenti anche se comunque queste sono tanto concrete quanto contingenti e, tutto sommato, parziali. L’approccio generale del Gramsci permane assai distante dalla visione del grande dissidente bolscevico in esilio e mantiene, complessivamente, parecchie affinità con la linea “antitrotzkysta” dell’epoca della dura battaglia fra la troika Stalin-Zinoviev-Kamenev da un lato e Trotzky dall’altro. Quello che è certo è che Gramsci, a differenza di Togliatti e compagni, non segue Stalin nel suo zig-zagare verso l’estrema sinistra, e si mantiene conseguente alla visione originale che ha elaborato negli anni della lotta intestina al Partito Comunista d’Italia contro “l’estremismo” bordighiano e “l’opportunismo” taschiano, elaborando ulteriormente una sua, ormai, originale visione del processo rivoluzionario in Italia. Visione che si costruisce a partire dalle proprie riflessioni teoriche e politiche sui motivi profondi della nascita e vittoria del fascismo, sulla sconfitta della rivoluzione comunista in occidente, sull’esigenza di comprendere i problemi storico-sociali europei ed italiani nella loro complessità, senza indulgere a facilone semplificazioni schematiche e cedere quindi all’impazienza rivoluzionaria, inevitabilmente sterile.


    [.....continua........]

  3. #63
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    Come ha notato Paolo Spriano: “ i pensieri che Gramsci affida ai suoi quaderni vanno naturalmente sempre considerati tenendo conto della natura stessa delle note in cui lo spunto è preso da un fatto, da un ricordo, da una lettura, da un episodio singolo, per toglierli dal *particolare* e poter argomentare intorno a un fenomeno che ha varie sfaccettature e si presta a considerazioni generali. Ma esse sono anche un punto di riferimento per vagliare gli altri tipi di testimonianze su di lui che si riconducono più direttamente all’attualità politica.

    Gramsci, nei quaderni, è inoltre costretto ad esprimersi per metafore, a tratti quasi in codice, per rendere poco comprensibili le sue riflessioni agli occhiuti carcerieri fascisti. Questo modo di esprimere i concetti più elaborati non rende impossibile l’interpretazione corretta del pensiero gramsciano, ma ha poi tuttavia favorito le letture strumentali, soprattutto ad opera del PCI del secondo dopoguerra, guidato da Palmiro Togliatti.

    Il comunista Ezio Riboldi ha per altro ricordato che durante le sue conversazioni con il Gramsci, nel carcere di Turi, a questo ultimo erano comunque sfuggite delle critiche a Stalin, definito “ prima russo e che internazionalista ”.

    E’ una testimonianza plausibile, come lo è altrettanto quella di Giuseppe Ceresa secondo il quale Antonio Gramsci “ si indignava di fronte alla superficialità di certi compagni che nel 1930 affermavano essere imminente la caduta del fascismo e che sostenevano che dalla dittatura fascista si sarebbe immediatamente passati alla dittatura del proletariato ”.

    Lo scontro di Gramsci con molti suoi compagni conduce rapidamente il comunista sardo ad un sostanziale isolamento politico (e non solo). Secondo quanto afferma un testimone, il comunista Giovanni Lay: “ effettivamente le discussioni tra i compagni in cella non sempre mantenevano il carattere di discussione politica. Spesso, troppo spesso scendevano a livello di pettegolezzo e persino della calunnia, con apprezzamenti su Gramsci che talvolta giungevano alla denigrazione fino ad affermare che “ le posizioni di Gramsci erano posizioni socialdemocratiche, che Gramsci non era più comunista, che era diventato crociano per opportunismo, che bisognava denunciare la sua azione disgregratice al Partito, e che pertanto lo si doveva buttare fuori dal collettivo e dal cortile di passeggio. ”.

    Queste testimonianze e altre similari trovano conferma nella lettera di Antonio Gramsci al fratello Carlo, del 28 marzo 1931, dove è scritto: “ Mi sono urtato con altri detenuti e ho rotto rapporti personali ”, ma in gran parte sono confermate anche dal rapporto che l’amnistiato Athos Lisa inviò, una volta scarcerato, il 22 marzo 1933, al Centro parigino del Partito Comunista d’Italia.

    Coma ha detto il Landolfi “ L’isolamento di Gramsci si accentuò, negli anni che seguirono. , anche se nel 1931 “Stato Operaio” ripubblica un articolo di Gramsci del 1925 e al IV Congresso del Partito il suo nome viene ricordato fra quelli dei compagni in galera o al confino di polizia.

    Un compagno di prigionia di Gramsci, un socialista che sarà, molto più tardi, presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini ha rammentato che persino la notizia della morte di Gramsci (1937) “ non produsse quella commozione che oggi saremmo indotti a pensare […] Debbo dire che c’era intorno a Gramsci un senso di disagio, i suoi compagni di partito lo avevano isolato per le sue posizioni politiche. ”.

    Per molti anni la storiografia di partito ha minimizzato tutto ciò, facendo infine del Gramsci una nuova icona, elevandolo a “ IL fondatore del PCI”, ovviamente con il concorso determinante del Togliatti, pervenendo quindi ad un utilizzo opportunistico e strumentale dei suoi scritti (pubblicati a rate, secondo le esigenze e convenienze del togliattismo del secondo dopoguerra), e anche tutto questo è espressione non casuale della radice stalinista della politica, anche della politica culturale, del comunismo italiano.

    [....continua .......]

  4. #64
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    Sarebbe tuttavia sbagliato, seguendo talune mode “democratico-progressiste” (altrettanto tendenziose e infondate), accentuare oltremodo la natura e il grado delle divergenze fra Gramsci e il Partito, o ancor peggio, fra Gramsci e l’IDEOLOGIA del Partito, trasformando l’intellettuale comunista sardo in un socialdemocratico liberaloide ante litteram. Come ha scritto Paolo Spriano, in questo periodo in Antonio Gramsci “ è sempre presente lo scrupolo di non annullare la fisionomia autonoma del Partito, uguale il disegno leninista della conquista del potere, l’approdo della dittatura proletaria.

    L’accento, però, batte sulla manovra, tanto più necessaria tanto più il partito è debole ora e anche nel futuro, * destinato, anche ammettendo che la pressione reazionaria debba allentarsi negli anni immediatamente prossimi, a muoversi tra le più grandi difficoltà *

    L’originalità del “marxismo occidentale” del Gramsci del carcere, davvero innegabile sotto certi aspetti, è però strettamente incardinata nelle basilari impostazioni ideologiche generali che il comunista sardo condivide con il gruppo dirigente del PCd’I, in primis con il Togliatti, e persino, negli aspetti della dottrina politica fondamentale, con i vertici della III Internazionale Comunista di Stalin.

    Rispetto al Togliatti e ai suoi padroni sovietici, il Gramsci dimostra tuttavia un’indipendenza di pensiero, per l’epoca e il contesto, ammirevole, un’intelligenza creativa indubitabilmente più viva, un minor cinismo, una maggiore umanità, che lo portano anche a mantenere costanti quegli elementi fondamentali di analisi e di impostazione strategica, che il Partito italiano è invece portato a trasformare continuamente, seguendo lo zigzagare staliniano. Per questo, in determinate fasi, il Gramsci, proprio mentre ribadisce nei suoi “Quaderni” le proprie vecchie critiche a Trotzky, esprime opinioni sulla situazione attuale italiana (e le sue prospettive) sorprendentemente simili a quelle del medesimo Trotzky, e perciò decisamente distanti dall’impianto tattico-strategico del momento, sostenuto dal gruppo dirigente del PCd’I e dell’Internazionale Comunista. L’autonomia (comunque piuttosto relativa) del pensiero politico gramsciano è certamente in buona parte figlia della condizione del carcere, ma per altra parte è probabilmente figlia, altrettanto legittima, della propria interpretazione idealisticheggiante del marxismo (fattore che, in fondo, preserverà sostanzialmente, sul piano filosofico e culturale, il Gramsci dalla partecipazione attiva alla fossilizzazione del “marxismo-leninismo” che in quel periodo veniva prodotta in Unione Sovietica).

    Nonostante tutto il neo-idealismo gramsciano allontanerà un poco il comunista sardo non solo da certo “marxismo-leninismo” dogmatico “orientale”, ma anche, persino più profondamente, dall’impianto ideologico comunque strettamente bolscevico delle opposizioni comuniste antistaliniane, nonostante la propria amicizia personale con Amadeo Bordiga e le predette convergenze, contingenti ma assai rilevanti, con talune coeve analisi di Trotzky e della “opposizione di sinistra internazionale”.

    In ogni caso e ciò nonostante quello che, in quel contesto, apporta il Gramsci all’ideologia “marxista-leninista” del Partito Comunista Italiano non rappresenta, come ben nota Paolo Spriano, “ nessuna revisione ideologica ”, e le elaborazioni sulla transizione, sulle alleanze, sulla Costituente, rappresentano appunto, essenzialemente “ un discorso strettamente tattico (tanto è vero che c’è un richiamo all’esperienza russa della Costituente), *strumentale*, si direbbe oggi. Ed è un discorso più politico che teorico, più immediato che a lunga scadenza ”.

    Mentre Terracini e Gramsci, dal carcere, esprimono posizioni divergenti rispetto a quelle sostenute dai massimi dirigenti “ortodossi” del movimento comunista mondiale, durante il cosiddetto “terzo periodo” del Komintern, il Togliatti, come scrive il Lehner “ nonostante le *prove* continue a cui l’Internazionale lo sottopone, è ormai da tempo il primo della classe nel culto di Stalin e nella pratica dello stalinismo”.

    Sull’onda della “svolta” di estrema sinistra impressa al Partito Comunista italiano, su proposta di Luigi Longo, i vertici dell’organizzazione decidono, come visto più sopra, di riportare in Italia la maggior parte delle strutture per poter permettere, al momento stabilito, di assumere la direzione dell’insurrezione rivoluzionaria, che secondo i dogmi terzoperiodisti dell’Internazionale, non avrebbe dovuto tardare ancora a lungo.

    Contemporaneamente si accentua la “vigilanza rivoluzionaria” per proteggere le strutture clandestine del Partito da inflitrati della polizia fascista, traditori, sabotatori, trotzkysti, bordighisti, opportunisti…. eccetera.

    Secondo le stime dello stesso Togliatti, nell’agosto del 1930 l’organizzazione comunista in Italia può contare su circa 7.000 iscritti, la metà dei quali sono toscani ed emiliani.
    Vi sono ragioni per sospettare che questi dati siano stati probabilmente esagerati. Secondo Paolo Spriano nell’Italia del nord del 1930 non vi sono che 1.386 militanti, 1139 sono invece gli emiliani censiti e 606 i toscani, 250 sono i pugliesi (unico gruppo meridionale significativo).

    Molti di questi attivisti però cadranno a propria volta nelle settimane e nei mesi seguenti nelle mani della polizia fascista, andando a incrementare l’esercito dei comunisti reclusi e confinati. Fra questi dirigenti rivoluzionari vengono catturati anche Camilla Ravera e Pietro Secchia, mentre, al contrario, il giovanissimo Gian Carlo Pajetta viene finalmente liberato in quanto ha finito di scontare la pena.


    La stampa clandestina del Partito fa proprio il linguaggio degli “svoltisti” ed enuncia coerentemente il compito prioritario stabilito per l’organizzazione comunista in Italia: “ Dobbiamo prepararci a dare piombo al fascismo e al capitalismo che da otto anni ci opprimono, ci affamano, ci dissanguano. Questo è il problema del momento, problema urgente, capitale. ”.

    [.... continua ....]

  5. #65
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    L’11 luglio 1930 un giovane militante della formazione “socialista-liberale” denominata “Giustizia e Libertà”, tal Giovanni Bassanesi, vola su Milano e provoca una pioggia fitta di volantini che incitano i milanesi allo sciopero delle tasse e a prepararsi ad insorgere contro la dittatura fascista. I comunisti non apprezzano l’attivismo dei “Giellisti”, volti alle azioni clamorose e dirette.

    I Giellisti sono infatti considerati dai comunisti parte integrante dello schieramento “socialfascista”, tanto quanto lo sarebbro i socialisti riformisti e i massimalisti che, fra l’altro, pervengono ad una riunificazione organizzativa proprio nel luglio del 1930, durante un congresso tenutosi a Parigi, che vede solo il gruppetto di ultra-massimalisti guidato da Angela Balabanoff rimanere al di fuori del nuovo partito unificato – sezione italiana dell’Internazionale Socialista.

    I militanti socialisti presenti sul territorio nazionale italiano sono ben meno dei comunisti e degli stessi giellisti, e mostrano qualche segno della propria presenza solo in occasione dell’anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti.

    Nell’aprile del 1931 si svolge a Colonia il IV Congresso del Partito Comunista d’Italia. I delegati, più della metà dei quali hanno raggiunto la città tedesca dall’Italia (gli altri sono i fuoriusciti, per lo più provenienti da Francia e Unione Sovietica), sono 54.

    Nella pratica la riunione dei comunisti italiani si tiene fra Colonia e Dusseldorf, dal 14 al 21 aprile 1931. Il Congresso si apre osannando Stalin, definito il “capo dell’Internazionale Comunista” e ricordando i nomi dei dirigenti comunisti in carcere, tra cui spiccano i quelli di Gramsci, Terracini, Camilla Ravera.

    Così Palmiro Togliatti, in una sua nota telegrafica fatta pervenire ad Umberto Terracini, riassume i contenuti politici principali dei lavori del congresso:
    Nel complesso Congresso constatato progresso del Partito, estensione molto grande nostra influenza, deficienze organizzative e lavoro massa, esistenza stragrandi possibilità di sviluppo nostro in tutte le regioni, malgrado persecuzioni ferocissime. Constatato aggravamento situazione. Crisi economica perdurerà ancora, sia internazionalmente che razionalmente, con accentuata tendenza a trasformarsi in crisi politica rivoluzionaria [..]. Nostra prospettiva fondamentale che è esclusa eliminazione pacifica del fascismo per manovra interna della borghesia … Modificazione della situazione verranno dal movimento delle masse, dallo sviluppo e dall’approfondimento di esso. Movimento masse sviluppasi ora in direzione *proletaria* e non democratica (salario, pane, lavoro, terra ecc..). Sforzo democratici e socialdemocratici e rivolto a farlo deviare da questa direzione, prendere via democratica. Non escludiamo, sotto la spinta del movimento delle masse, tentativo delle classi dirigenti o del fascismo stesso di aiutare questo sforzo dei democratici, in forme che non possono essere prevedute. Data situazione economica e sociale italiana, escludiamo fase democratica, cioè stabilizzazione regime borghese in forme non apertamente reazionarie. Eventuale sopravvento democratico o socialdemocratico nel corso del movimento delle masse (dovuto a incapacità politica del partito) significherebbe non un passo avanti verso la rivoluzione, ma sconfitta della rivoluzione e rapida ricostruzione di regime rigidamente reazionario.

    Secondo Aldo Agosti il dibattito congressuale “ non fa registrare alcun dissenso dalla linea che Ercoli [Palmiro Togliatti] traccia nel suo rapporto ”. Forse soprattutto perché i dissidenti e gli eretici sono già stati cacciati dal partito da molto tempo.

    Secondo il giudizio di Paolo Spriano “ Il congresso è essenzialmente un congresso di conferma della svolta e della sua piattaforma politica. Gli avvenimenti internazionali come quelli nazionali, vengono assunti, soprattutto la crisi economica che continua ad infierire in tutto il mondo capitalistico, quali supporti alla giustezza di una prospettiva […] Di fronte a questa tensione si prospetta una progressiva *fascistizzazione* degli Stati borghesi una minaccia crescente di guerra contro il paese del socialismo. La socialdemocrazia è il maggiore e più attivo agente nel promuovere e provocare l’aggressione. La socialdemocrazia, come il fascismo, è uno strumento per la trasformazione reazionaria dello Stato, per una nuova fase della dittatura borghese, che non presenta differenze di sostanza sia se si esercita in regimi cosiddetti liberali, sia se si mantiene in quelli già fascisti. La socialdemocrazia è, nondimeno, il nemico principale perché impedisce alle masse di sprigionare tutta la loro energia rivoluzionaria. Non solo. Non si lotta contro il fascismo senza lottare contro tutte le forme della dittatura borghese. […] In analogo modo ci si comporta nei confronti del mondo cattolico. L’attacco al Vaticano come *forza profondamente reazionaria* è massiccio. Combattere contro la Chiesa ha però essenzialmente questo significato: riuscire a rendere vana la sua influenza su contadini, artigiani e operai ancora arretrati. Ciò è ritenuto compito tanto più rilevante in quanto la Chiesa è l’unica forza non fascista che possa espletare un qualche lavoro di massa…

    Fra le novità del IV congresso dei comunisti italiani si registra una più chiara attenzione alle problematiche della cosiddetta “questione meridionale”. In tale ambito il Partito Comunista Italiano sviluppa un’analisi che porta ottimisticamente a concludere che “ la rivoluzione proletaria promuoverà una particolare organizzazione autonoma politico- amministrativa di queste regioni, sino alla costituzione di repubbliche socialiste e soviettiste autonome del Mezzogiorno d’Italia, della Sicilia e della Sardegna, nella Federazione delle Repubbliche Socialiste e Soviettiste d’Italia ”.

    [....continua....]

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    Come rileva Aldo Agosti “ il nuovo gruppo dirigente eletto dal IV Congresso è profondamento diverso da quello uscito da Lione: la continuità con il quale è data solo dalla presenza, nell’Ufficio Politico, dello stesso Togliatti, che mantiene l’attribuzione di *responsabile della segreteria*, e di Grieco. Accanto a loro sono Longo, Di Vittorio, Santhià e Dozza. Il Comitato Centrale che elegge questo Ufficio Politico è formato in gran parte da operai. . Del resto, una parte dei dirigenti comunisti (anche della maggioranza “gramsciana” del congresso di Lione del 1926) sono stati nel frattempo cacciati dal Partito e un’altra parte è stata invece incarcerata o mandata al confino dal Regime Fascista.

    Poco prima dell’apertura del IV Congresso del Partito Comunista d’Italia, precisamente il 2 aprile 1931, è caduto nella mani della polizia anche Pietro Secchia, mentre tra i delegati che sono giunti in Germania per partecipare ai lavori dell’assemblea comunista italiana vi sono i giovani militanti Giorgio Amendola (figlio del leader liberale antifascista Giovanni, vittima della repressione mussoliniana) e Giancarlo Pajetta (che ha già scontato un periodo di condanna per reati politici).

    D’altra parte è l’attivismo insurrezionalista degli “svoltisti”, che si dispiega soprattutto durante la primavera-estate del 1931, ad incagliarsi nel suo insieme, nonostante le prospettive immaginate dal IV Congresso del PCI, sugli scogli della repressione fascista e del relativo isolamento del Partito.

    La direzione dell’Internazionale Comunista di Stalin usa, nei confronti dei partiti fratelli, sistemi non dissimili da quelli utilizzati, all’epoca, dagli staliniani all’interno del partito bolscevico. Le direzioni dei partiti occidentali vengono più volte rivoluzionate a causa della diffidenza dei sovietici e dal loro porsi come padroni assoluti e indiscussi del movimento mondiale. I dirigenti che in qualche modo, anche in passato, si sono rapportati troppo strettamente con uomini e posizioni di questa o quella opposizione o deviazione bolscevica, sono considerati con persistente sospetto, per quanto si dimostrino perfettamente allineati con Stalin.

    Proprio durante il periodo del IV congresso del PCd’I parrebbe che ci siano state delle manovre per indebolire la leadership di Togliatti facendo assegnamento sul giovane Luigi Longo, che molti anni dopo avrà modo di confermare :“ Nel ’31 e nel ’32 noi giovani prendevano spesso la parola nelle varie sezioni dell’Internazionale, e non ci era sfuggito che veniva sempre ad ascoltarci la Stassova, segretaria di Stalin, dalla quale fummo incoraggiati ad esprimere con franchezza le critiche a Togliatti. Questo era il metodo staliniano di preparare l’alternativa (…)”, e ancor più esplicitamente lo stesso Luigi Longo ricorda che proprio durante il congresso tedesco: “ L’Internazionale era pronta ad appoggiare una mia segreteria. E’ vero anche che poi si è esagerato sulla vicenda. Io a Colonia sapevo che se avessi voluto fare la guerra a Togliatti avrei avuto il pieno e decisivo appoggio di Stalin.

    E’ comunque noto che secondo il costume che è sempre più praticato dalla direzione stalinista della Terza Internazionale Comunista, la linea politica promossa dagli vertici del Komintern viene però, una volta che non ha sortito gli esiti previsti, criticata dai suoi medesimi promotori. A quel punto i massimi esponenti dell’Internazionale e del Partito Bolscevico accusano puntualmente altri dirigenti dei propri fallimenti.

    Dopo il IV Congresso del PCd’I la linea dei comunisti italiani, dettata puntualmente da Mosca, viene in qualche modo criticata da coloro che l’avevano promossa.

    Tocca a Manuilskij, quale presidente della commissione dell’Internazionale sull’Italia, criticare “l’eccessivo ottimismo” dimostrato dai comunisti italiani nell’applicare “la svolta” alla propria specifica situazione nazionale. Come spiega Paolo Spriano la propaganda e le misure organizzative vengono quindi spostate su rivendicazioni più immediate “ e sulle parole d’ordine *democratiche*, che debbono servire a smuovere larghe masse prigioniere della sfiducia e della repressione. Non muta la prospettiva generale, quella di una crisi irrimediabile [del fascismo e del capitalismo] e quindi della possibilità di azione rivoluzionaria ma, sin dalla fine dell’estate [1931], si prende atto che il cammino sarà più lungo del previsto ”.

    In questo contesto la posizione di Togliatti, anche rispetto all’esuberanza giovanile di Luigi Longo (al di là del presunto “gran rifiuto” del medesimo di prestarsi al gioco di indebolire il suo capo), risulta comunque complessivamente più affidabile per l’Internazionale di Stalin. La fedeltà di Ercoli/Togliatti alla direzione sovietica, come quella di ogni altro dirigente comunista straniero, sarà messa sotto stretta osservazione durante tutta l’epoca dello stalinismo, ma ogni volta il capo dei comunisti italiani avrà modo di superare brillantemente ogni esame, mostrandosi sempre, appunto, “Il Migliore”.

    Nel periodo successivo al congresso di Colonia, come ricorda Giorgio Bocca, il Togliatti avrà modo, evidentemente, di prendere contezza dell’esistenza, per lui, di un “problema Longo”, e di operare pazientemente prendendo le necessarie contromisure, approfittando delle situazioni che si verranno a creare al fine, appunto, di “liberarsi”, come vedremo a suo tempo, della concorrenza dello stesso giovane comunista piemontese.

    E’ in quella epoca che si apre, in Unione Sovietica, e di riflesso nella sinistra internazionale, il caso della condanna dell’anarchico italiano Francesco Grezzi, ingiustamente accusato dalle autorità sovietiche di essersi recato in URSS per organizzarvi attività politica “antisovietica” e addirittura di preparare degli attentati terroristici contro il potere comunista [accusa dalla quale sarà infine, almeno in quel primo tempo di ondate repressive, prosciolto persino dalla “giustizia” della Russia bolscevica].

    [....continua....]

  7. #67
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    In favore di Ghezzi si mobiliterà la sinistra mondiale, e persino il noto intellettuale sovietico Maksim Gorkij avrà modo di interessarsi al suo caso.
    Palmiro Togliatti, però, manifestando il proprio atteggiamento nei confronti della “giustizia proletaria” dei suoi padroni sovietici (cosa che sarà ancor più pienamente manifesta nell’epoca del grande terrore staliniano, di lì a qualche anno), inoltra ai compagni italiani queste direttive attraverso una *circolare” assai rivelatrice:
    La questione che viene posta in discussione da chi solleva il *caso Ghezzi* è, in sostanza, la questione della dittatura proletaria, della sua necessità, della sua legittimità, e dell’appoggio incondizionato che gli operai devono dare alla dittatura che esiste in Russia. Su questo terreno noi non possiamo che avere ragione. La dittatura è necessaria. La dittatura è una conquista della rivoluzione. Essa deve essere difesa contro chiunque si proponga di minarne la compagine e di abbatterla. Essa deve venire difesa con tutti i mezzi [..] Ghezzi è stato colpito perché credeva di poter impunemente organizzare gli attentati contro il potere dei soviet. Chiunque faccia o si proponga di fare qualcosa di simile deve essere colpito, gli si deve impedire con ogni mezzo di nuocere […] Battuti su questo terreno – sul quale non è possibile, davanti ad una massa di operai coscienti, avere ragione contro di noi – gli anarchici cercano di sfuggire, ponendo la questione: *Dateci le prove*. Ed è qui che vi sono dei compagni, i quali si lasciano pigliare in trappola, dicendo che le prove saranno date, accettando le proposte che gli anarchici fanno per poter avere le prove […] E’ evidente che si tratta di gravi errori. Per noi, comunisti, la questione delle *prove* è una questione che non si pone, è, anzi una questione sciocca […] Chiedere le prove della condanna di Ghezzi vuol dire sostenere che ogni singolo atto del governo dei soviet deve essere sottoposto a un controllo pubblico. E’ evidente che a una richiesta di questo genere non possono essere favorevoli altro che i nemici del regime dei soviet e della dittatura proletaria. E, infatti, non sono forse i giornali borghesi che fanno la campagna contro la Ghepeu, perché non lavora alla luce del sole, ecc. Ecc.? Forse che i nemici della Russia lavorano alla luce del sole? Lavorano alla luce del sole i gruppi terroristi con i quali Ghezzi era entrato in collegamento? Quando il governo dei soviet ritiene che sia conveniente e necessario fare, a proposito di un gruppo controrivoluzionario preso con le armi nel sacco, una campagna pubblica, esso lo fa. Il processo dei controrivoluzionari che sabotavano l’industria russa è stato fatto pubblicamente. Ma vi sono dei casi – e numerosi – in cui questo non si può e non di deve fare, in cui è necessario agire e difendersi, con ogni mezzo, senza scoprire i propri mezzi di azione, ecc. Ma è proprio in questi casi che noi dobbiamo dimostrare il nostro attaccamento al regime dei soviet, che noi dobbiamo dar prova di saperlo difendere, che noi dobbiamo dimostrare di aver compreso che cosa è un regime di dittatura, come deve essere organizzato, come esso deve difendersi. Dire di essere per la difesa della dittatura e per la difesa della Russia, esaltare ad ogni passo la rivoluzione russa e i risultati della costruzione del socialismo, e poi *chiedere le prove* a chi governa in regime di dittatura, a chi ci dà da dodici anni la prova di lottare e di saper lottare per la causa della rivoluzione sino alla vittoria, a chi è circondato da nemici e deve difendersi da essi con ogni mezzo - *chiedere la prova* della condanna inflitta a un disgraziato che credeva di poter andare in Russia a preparare degli attentati – non è questa una cosa non solo inammissibile, ma anche ridicola? Così come è inammissibile, e ridicola la pretesa dei trozkysti, i quali vorrebbero che la giustizia e la difesa proletaria, in regime di dittatura, funzionassero con le *garanzia* di cui SI PARLA nei codici borghesi! […] Il *caso Ghezzi* viene agitato per coprire la preparazione IDEOLOGICA dell’intervento [militare] contro l’Unione Sovietica, ecc. ecc. Ecco il terreno sul quale si deve battere, e battere decisamente. .

    Fin qui giungono le spiegazioni di Togliatti-Ercoli, il capo indiscusso del Partito Comunista Italiano dall’arresto di Gramsci alla propria morte. Come nota Giarcarlo Lehner “ questa direttiva fideistica ai qudri del PCd’I, essendo destinata *all’interno* non ha neppure l’alibi dell’enfasi propagandistica, ma rispecchia invece la perfetta *forma mentis* dello stalinismo: chi non è con noi è automaticamente contro di noi e, perciò, va, comunque, supposto come *colpevole*, senza necessità di rintracciare delle prove. .

    Francesco Ghezzi fu, nella prima fase, prosciolto da ogni accusa concreta, ma condannato, invece semplicemente, per essere un anarchico. Egli morì di lì a pochi anni in Unione Sovietica. Fu uno fra i tanti e tanti antifascisti rifugiatisi nella “Patria del Socialismo” e finito vittima delle repressioni terroristiche del Regime Bolscevico guidato da Giuseppe Stalin e dai suoi complici, sovietici e stranieri. Fra questi ultimi spicca particolarmente, inoppugnabilmente, la figura di Palmiro Togliatti detto Ercole Ercoli.

    Aldo Agosti non cita neppure il caso dell’anarchico Ghezzi nella sua monumentale biografia politica del Togliatti, ed altrettanto dicasi riguardo al libro di Giorgio Bocca sul dirigente comunista italiano. Non credo che sia un caso: la “filosofia politica” e “giuridica” espressa da Palmiro Togliatti in merito è troppo imbarazzante per chi ha tentato, comunque, e nonostante tutto, di promuovere un’immagine del capo dei comunisti italiani compatibile con il mito della “diversità” del PCI rispetto al resto del movimento comunista internazionale dominato dall’ideologia ferocemente illiberale e innegabilmente antidemocratica, al di là della propaganda, del marxismo-leninismo.

    [....continua....]

  8. #68
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    [....continuazione...]

    Sulla tragedia dei comunisti (e comunque degli antifascisti) italiani in Unione Sovietica avremo modo ritornare a suo tempo, visto che si tratta di una pagina assai significativa che meglio di tante altre illustra la natura del regime “soviettista” e i meccanismi della relazione fra quel regime e il partito comunista del nostro paese, in un momento assai critico della propria storia.


    Mentre “la stampa borghese” e “fascista” continua, in quegli anni, la sua campagna antisovietica, approfittando anche di episodi come quello che riguarda l’anarchico italiano condannato in URSS, o sollevando la questione della persecuzione delle confessioni religiose (e dei religiosi) nella patria del marxismo-leninismo ateo, contemporaneamente i due, ideologicamente “opposti”, regimi dittatoriali stringono fra di loro importanti accordi commerciali. Questo dato di fatto è denunciato con forza, ad esempio, fra gli antifascisti italiani, da un manifesto di “Giustizia e Libertà” che evidenzia, non senza ragione, come, nei fatti, riguardo al fascismo italiano: “ La Russia anziché aiutare il proletariato a liberarsi, aiuta sconciamente la dittatura mussoliniana ”.

    La rivista dei comunisti italiani “Lo Stato Operaio” sin dal numero del novembre-dicembre 1930 (n. 11-12) aveva però apertamente sostenuto che è cosa buona e giusta che l’Unione Sovietica sfrutti a proprio vantaggio, economicamente, la posizione dell’Italia fascista, paese reazionario: “ Noi diciamo che non solo può, ma deve essere sfruttata fino a che ciò serve alla Russia dei Soviet ” (dall’articolo “Alcuni problemi a proposito dei quali bisogna essere chiari”).

    E’ tuttavia difficile appurare chi fra l’URSS e l’Italia fascista traesse maggiori vantaggi (al di là delle reciproche campagne ideologiche di demonizzazione), dalle più che buone relazioni diplomatiche e commerciali. Infatti, non dobbiamo dimenticarci che in quel momento mentre l’Italia è investita in pieno dalle conseguenze della crisi economico-finanziaria mondiale (successiva al famoso crollo di Wall-Street del 1929), la Russia di Stalin sta attraversando il periodo tumultuoso della “rivoluzione dall’alto”. Cioè di quella gigantesca e tremenda trasformazione, pianificata dalla cricca bolscevica uscita vittoriosa delle lotte intestine del periodo post-leniniano.

    Si tratta dell’epoca violenta della “dekulakizzazione” e della “collettivizzazione forzata” dell’agricoltura e dell’economia in genere, con la deportazione di interi popoli all’interno dell’URSS e la riduzione alla fame di gran parte degli altri.

    Seppur a diversi gradi, ad eccezione degli uomini degli apparati burocratici (del Partito, dello Stato, dei vertici delle Forze Armate), le conseguenze del processo “rivoluzionario” scatenano crisi e carestie che investono comunque la generalità della popolazione sovietica, o poco meno.

    Come ammette Paolo Spriano, in URSS dunque “ la situazione alimentare è assai grave, rasenta la carestia ”. Per la verità, per buona parte del territorio sovietico si tratta proprio di carestia, anzi di carestia gravissima, con conseguenze assai drammatiche che travolgono la vita di centinaia di migliaia, di milioni di persone. Ma riguardo ai disastri della collettivizzazione (e alla fame comunista dei popoli sovietici) non è possibile trovare una sola parola informativa, anche solo lontanamente obiettiva, nella stampa (quanto meno quella “ortodossa”) del movimento comunista mondiale o nelle missive e circolari del Togliatti o di altri dirigenti comunisti italiani residenti in Russia, ai compagni di Partito. Anzi, l’esaltazione dei “grandiosi” ed “eroici” successi della “costruzione del socialismo” è generale, acritica, incondizionatamente fanatica.


    Seppure l’avventura della “rivoluzione dall’alto” (e delle fasi successive della politica economico-sociale sovietica) manifesta qualche problema, questo è subito definito, dai propagandisti comunisti, infinitesimo rispetto a quelli coevi del capitalismo internazionale.

    Le eventuali problematiche dell’economia “socialista” in “costruzione” sono comunque immediatamente poste in confronto ai pretesi “successi senza precedenti nella storia” della industrializzazione e della realizzazione “eroica” dell’ambiziosissimo piano quinquennale, allo scopo di farle apparire ancora più insignificanti.

    [....continua ....]

  9. #69
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    La logica propagandistica prevale infatti su tutto e su tutti.
    Se, nonostante tutto, delle contraddizioni e degli aspetti non propriamente positivi persistono persino secondo l’ottica marxista-leninista (e pur esistono e si manifestano!), ciò, quando non spudoratamente negato (quasi sempre), è comunque fortemente minimizzato ed è attribuito senza dubbio, dai bolscevichi e quindi, a ruota, dai partiti comunisti di tutto il mondo, agli interventi nefasti dei sabotatori, dei controrivoluzionari interni e quindi alla resistenza “criminale” dei residui delle classi reazionarie (kulaki innanzi tutto), oltre che al persistente isolamento internazionale della “patria del socialismo”, circondata da ogni lato dai nemici di classe e dall’imperialismo, che starebbe perfidamente preparando, con ogni evidenza, un’aggressione militare per liquidare definitivamente lo scandalo della “rivoluzione proletaria trionfante” nella Russia dei Soviet.

    In alcuni casi è Stalin in persona a denunciare “errori” politici della direzioni locali del Partito, determinati però dalla “vertigine di successi” (nella costruzione del socialismo, nella realizzazione degli obiettivi della pianificazione), che porterebbe, a volte, lo stesso PC(B)US ad affrettare troppo le soluzioni o ad amplificarne la portata e la durata oltre il necessario.

    In ultima analisi, quelle rare volte che il regime bolscevico denuncia alcuni problemi nel “glorioso” processo di “edificazione socialista” lo fa soltanto per giustificare (o preparare) le proprie misure più radicali e le repressioni conseguenti, o per annunciare una breve tregua nelle misure più draconiane (per dare respiro alla società), e la Terza Internazionale si accoda acriticamente, sempre e comunque.

    La posizione ideologica dei comunisti italiani è ormai completamente integrata e ingessata in questa linea. Ciò permette, nel concreto, al PCI di sacrificare persino una parte del proprio livore antifascista per difendere, in ogni caso, le scelte dell’URSS, anche quando la stessa firma trattati e accordi con l’Italia di Mussolini e riceve non senza onori, nel proprio territorio “proletario”, ras squadristi come Italo Balbo.

    Tuttavia, sarebbe sbagliato affermare che questo modo di trattare le relazioni fra Stato Sovietico e Italia Fascista rappresenti soltanto un frutto dello stalinismo e della stalinizzazione del PCI. Infatti, in buona parte, tutto questo avveniva già, come abbiamo visto e documentato più sopra, ai tempi di Lenin.

    Sicuramente però vi sono tratti peculiari, in questi comportamenti, propri dell’epoca staliniana, quando l’Internazionale Comunista è ormai compiutamente trasformata in un mero strumento della politica estera sovietica e la subordinazione del Partito Comunista d’Italia all’URSS è diventata davvero totale, senza più nessun autentico margine di discussione critica.

    Complessivamente, la trasformazione che il Partito Comunista Italiano subisce durante gli anni della “svolta”, corrisponde al completamento, appunto, della sua totale “stalinizzazione” ed è rappresentata da un mutamento, anche sociologico e geografico, della propria composizione sociale.

    Emerge nel Partito, come ha scritto nella sua breve “Storia del PCI” l’Agosti : “ un tipo di quadro comunista non più legato al clima della scissione del 1921 , bensì a quello alla resistenza quotidiana al fascismo. Mentre il partito di Livorno aveva i suoi capisaldi nelle regioni industrializzate del settentrione d’Italia, già nei primi anni trenta “ il nucleo della sua forza si era concentrato in Emilia e Toscana in quanto “ era meno difficile tenere in piedi un sia pur minima rete di collegamenti clandestini nelle campagne piuttosto che nelle fabbriche delle grandi città [del Nord], dove il controllo e la sorveglianza erano assai più rigorosi […] il fascismo rivitalizzò il sovversivismo tradizionale delle masse popolari, che aveva le radici più antiche e profonde in quelle che sarebbero divenute le *regioni rosse* ”.

    Il Ragionieri ha definito tutto ciò come “ una modificazione molecolare delle forme di presenza e di attività del partito in Italia .

    [...continua ....]

 

 
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