Appunti sulle origini del comunismo italiano
di P.F.B.
Non è un mistero per nessuno che il comunismo italiano nacque, nella sostanza, dall’incontro di due elementi fondamentali: l’ala più radicale del massimalismo socialista d’Italia e gli effetti ideologici e organizzativi internazionali (sul movimento operaio organizzato) della rivoluzione bolscevica in Russia. Elementi amalgamatisi via via nel contesto determinato dagli sconvolgimenti politici e sociali causati dalla grande guerra mondiale.
Il primo di questi elementi, come direbbe il Togliatti, viene “da lontano” se si pensa che già nell’Italia pre-unitaria operavano delle “Società Operaie”, in origine sorte a fini “assistenziali”, ma trasformatesi via via in associazioni di tipo sindacale.
La prima tendenza politica che conquistò una seppur temporanea egemonia politica ed ideologica sulla gran parte delle “Società Operaie” fu quella repubblicana mazziniana che prevalse, nel congresso di Firenze del 1861, sia rispetto all’ala più moderata che a quella anarchica del Cafiero.
Il primo periodico marxista a pubblicarsi in Italia fu “LA PLEBE” di Lodi, del Bignami, che si definiva “repubblicano, razionalista, socialista” e che entrò da subito in corrispondenza con Federico Engels, distinguendosi quindi in modo sempre più chiaro sia dal “socialismo umanitario” interclassista, che dal repubblicanesimo mazziniano, che dall’anarchismo.
Quando nel 1873 si riunirono a Ginevra due distinti congressi dell’Internazionale, la quasi totalità delle sezioni partecipò alla riunione dei “bakuninisti”. Solamente quelle di Lodi e L’Aquila aderirono al congresso dei “marxisti”.
E’ del 1880 la fondazione della rivista “Critica Sociale” da parte di Filippo Turati.
A Rimini fu fondato nel 1881, dall’ex leader anarchico Andrea Costa, il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna. Sempre nel 1881 a Cesena il medesimo Costa fondò anche il quotidiano socialista “Avanti!”. L’anno successivo a Milano, nacque il Partito Operaio Italiano, che riunirà tuttavia il proprio primo congresso soltanto nel 1885 su impulso di Costantino Lazzari. Mentre il partito socialista rivoluzionario romagnolo aveva un programma apertamente rivoluzionario, marxista, radicale, decisamente volto alla lotta politica, in origine il partito operaio fu, appunto, di tendenza “operaista”, definendosi come “partito economico”, agnostico nel campo della lotta elettorale e politica, genericamente “socialista”.
Nel 1890 Antonio Labriola tenne all’università di Roma un corso sulla filosofia del “materialismo storico” contribuendo così alla diffusione, fra le avanguardie intellettuali del progressismo italiano, del pensiero di Marx ed Engels.
Dalla confluenza dei socialisti rivoluzionari di Costa e Anna Kuliscioff e degli operaisti di Lazzari e Turati, nel frattempo maturati politicamente, fu fondato nel 1892 a Genova il Partito Socialista Italiano (in un primo momento denominato Partito dei Lavoratori Italiani, e solo dal congresso di Parma del 1895 diventato ufficialmente P.S.I.) che si separò definitivamente dal movimento libertario (il quale diede vita in quel medesimo momento e nella stessa citta’ ad un partito con lo stesso nome).
Quello di Genova fu per molti anni, nell’estrema diversità delle interpretazioni ideologiche, l’invariato programma politico del Partito Socialista. Esso si incardinava sui “principi” ideologico-politici della lotta di classe, della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, dell’organizzazione del proletariato in partito politico indipendente.
La genericità di questi postulati, tutti comunque discendenti dal marxismo rivoluzionario, si prestava tanto ad interpretazioni radicali che ad interpretazioni più moderate e quindi, via via, sempre più apertamente riformiste.
Il radicalismo originario del Partito Socialista Italiano si andò progressivamente affievolendo e passata l’ondata “reazionaria” del governo del generale Pelloux e dei cannoni di Bava Beccaris contro i moti operai milanesi del finire del vecchio secolo (con il contraltare dell’assassinio anarchico del “re buono” da parte di Gaetano Bresci, il 29 luglio 1900), si volse, spente le lotte nelle piazze e l’ostruzionismo parlamentare dei deputati socialisti contro le misure “antioperaie”, inesorabilmente verso il riformismo pratico e teorico.
Già durante il congresso di Roma, dell’8 settembre 1900, le tesi della corrente “di destra” del partito, sulla tattica elettorale, promosse da Treves, Modigliani e Prampolini prevalsero con 109 voti contro i 69 della frazione di sinistra e 2 astenuti.
Fu a Bologna, nel 1904, che il nuovo congresso del Partito Socialista Italiano vide la dura contrapposizione fra i riformisti e la sinistra “intransigente” dominata, in quel frangente, dalla tendenza sindacalista-rivoluzionaria (“anarcosindacalista”).
Una prima votazione vide il confrontarsi di due mozioni “estreme”, l’una di destra riformista spinta e l’altra radicale di sinistra, che ottennero quasi gli stessi voti (12.000 circa ciascuna) con un ampio fronte intermedio di 7.000 astensioni. Nella seconda votazione le mozioni a confronto furono entrambe annacquate, cercando ciascuna di conquistare i voti del “centro” che si era astenuto.
Il Centro-Sinistra (mozione Ferri) prevalse sul Centro-Destra (mozione Rigola) per 16.304 voti contro 14.844.
Nel 1907 i sindacalisti rivoluzionari (tra cui spiccano, tra gli altri, i nomi di Michele Bianchi e Alceste De Ambris) abbandonarono il Partito Socialista (avevano intanto fondato l’Unione Sindacale Italiana), anche se alcuni esponenti della sinistra che avevano votato e sostenuto le loro mozioni e posizioni rifiutarono la scissione (valga per tutti il nome di Costantino Lazzari). Nel 1908 i socialisti riformisti si imposero al Congresso della Confederazione Generale del Lavoro (C.G.L.).
Senza più “fra i piedi” i sindacalisti-rivoluzionari, avendo il controllo del gruppo parlamentare socialista e della C.G.L. l’ascesa dei riformisti divenne a quel punto irresistibile.
Infatti, nel 1908, nel corso del X congresso del Partito, riunitosi a Firenze durante il mese di settembre, Turati e Rigola giocarono a carte scoperte in favore del socialismo evoluzionista e del “sindacalismo riformista” contro le posizioni di una sinistra intransigente (Lazzari, Ratti) indebolita dalla scissione anarcosindacalista e ancora in un certo stato confusionale.
La Destra Riformista ottenne 18.000 voti, contro i 6.000 del centro “integralista” e i 5.400 della Sinistra intransigente (O.d.G. di Serrati, Lerda e Musatti).
Scrive Luigi Cortesi: “ I due fatti che dominarono la vita politica italiana nel 1911 – il programma del nuovo ministero Giolitti, con la promessa di un ampio suffragio maschile, e l’inizio della guerra libica – ebbero nel Partito Socialista Italiano ripercussioni di grande importanza. Le dispute interne sulla priorità degli obiettivi di lotta avevano sempre, in definitiva sacrificato il suffragio universale a riforme di meno vasta portata ma più aderenti, dal punto di vista della maggioranza, alle esigenze dei lavoratori organizzati ”. Giolitti prese in contropiede il PSI e ritenendo ormai irreversibile il processo di “assorbimento” del partito socialista italiano nello Stato Liberale, aveva addirittura offerto al riformista di destra Leonida Bissolati (costretto a rifiutare) la collaborazione diretta al governo che doveva portare verso il suffragio universale maschile.
Nel suo discorso dell’otto aprile 1911, Giovanni Giolitti aveva annunciato che “ Carlo Marx è stato mandato in soffitta ” dai socialisti italiani, e in una coeva intervista su LA VOCE il filosofo liberale Benedetto Croce aveva teorizzato la “morte del socialismo” in quanto dottrina rivoluzionaria.
Il Gruppo Parlamentare Socialista, dominato dai riformisti, si indusse quindi a votare a favore del gabinetto Giolitti affidando al Bissolati l’onere della dichiarazione di voto alla Camera dei Deputati.
La Direzione del Partito approvò a maggioranza una mozione di approvazione dell’opera del Bissolati.
A sinistra l’iniziativa degli intransigenti si manifestò con la pubblicazione di un organo di stampa che fu significativamente chiamato “La Soffitta”, sebbene non si mostrasse molto interessato al dibattito teorico in difesa del marxismo rivoluzionario quanto, piuttosto, alle battaglie politiche contro la prassi del revisionismo riformistico della destra socialista.
Il 29 settembre 1911 l’Italia di Giolitti dichiarava guerra alla Turchia dando inizio alla conquista della Libia e inducendo il PSI di Turati a promuovere un ordine del giorno contro l’impresa coloniale, da cui si dissociarono però i riformisti “di destra” come Bissolati, De Felice, Bonomi, Cabrini e Podrecca (i cosiddetti “tripolini”).
Anche tra i sindacalisti rivoluzionari alcuni, come Arturo Labriola, Orano e Olivetti, furono favorevoli alla guerra.
Il successivo congresso straordinario del P.S.I. che si svolse in ottobre, fu condizionato da quella complicata situazione politica, e vide il crearsi irrimediabile della frattura fra la “destra riformista” Bissolatiana e la “sinistra riformista” Turatiana. La lotta verteva sulle questioni legate all’atteggiamento del socialismo verso la guerra coloniale e su “ministerialismo” e “ministeriabilismo”.
In ogni modo, fu nei primi mesi del successivo anno 1912 che si venne alla resa dei conti fra le due ali del riformismo socialista italiano, tra i seguaci del Turati e quelli del Bissolati (ostinatamente contrari a passare all’Opposizione contro il governo di Giolitti, seppur disposti a prendere inziative di pressione sulla questione libica). La rottura si consumò in Parlamento sul diverso atteggiamento assunto da Turati e da Bissolati riguardo al voto sul decreto di annessione delle province d’oltremare nord-africane al Regno d’Italia e fu formalizzata dal Congresso di Reggio Emilia del luglio 1912. In quel contesto si fece luce, tra i giovani combattenti della sinistra intransigente antimilitarista e antiministerialista la figura di Benito Mussolini, che invocò a gran voce l’espulsione degli “ultrariformisti” (sollecitato dal giovanissimo Bordiga ad inserire nell’elenco dei proscritti anche il Podrecca) e denunciò il “cretinismo parlamentare” a cui la gestione riformista aveva condotto la politica del Partito Socialista, prediligendo invece, da rivoluzionario, “altre forme di lotta”. Fu così che il futuro “duce del fascismo” si guadagnò la direzione del quotidiano del Partito Socialista “Avanti!” grazie al successo delle, seppur eterogenee, posizioni della frazione della Sinistra intransigente. A Reggio Emilia la mozione “rivoluzionaria” del Mussolini si guadagnò 12.566 voti, contro i 5.633 del Reina, i 3.250 del Modiglioni e 2.027 astenuti (i bissolatiani). Gli ultrariformisti furono espulsi. Il 10 luglio 1912 detti “riformisti di destra” fondarono il Partito Socialista Riformista Italiano, eleggendosi come segretario Pompeo Ciotti.
continua.....