Le racconto dell’uomo che mi fece capire perchè Cristo è radicalmente diverso, e irriducibile, a tutte le figure mitiche che – pure – lo prefigurano e lo annunciano.
Quell’uomo si chiamava don Emidio Franzoni, che intervistai a Bologna per il settimanale Gente non so quanti anni fa. Niente in comune con un don Franzoni allora più noto alle cronache come prete progressista. Il don Emidio che ho conosciuto io se ne stava in una canonica, nella penombra, ormai vecchio.
Era stato cappellano militare dell’ARMIR, ed era stato preso prigioniero in URSS, in una delle tragiche sacche, con migliaia di soldati italiani, i suoi ragazzi. Con loro era finito in un campo in Siberia, anzi da un campo all’altro.
Non mi raccontò molto del freddo, della fame continua che degrada l’uomo a bestia, dell’umiliazione del defecare sulla neve in fila davanti ai carcerieri, dei pidocchi e della fatica del lavoro forzato.
Quel che ricordava lui erano le confessioni ai giovani italiani prigionieri, i salti mortali per procurarsi un goccio di vino da Messa per comunicarli; a quanti aveva dovuto dare l’ultimo sacramento, a quanti aveva dovuto chiudere gli occhi.
Dei ragazzi con le stellette che morivano nel lager, don Franzoni teneva nota. Cominciò a segnarli su un libretto: nome, cognome, data della morte, luogo della sepoltura. Ma i ragazzi morivano come mosche, e presto il libriccino non bastò più. Poichè non c’era altra carta ed era vietato averne, don Franzoni cominciò a scrivere, con un mozzicone di lapis copiativo, sulla sua bustina militare; cognomi, data, fossa comune di sepoltura.
Non bastò nemmeno la bustina militare. Don Franzoni continuò dunque a scrivere sul suo cappotto; prima dentro, nella fodera, poi fuori.
Conservava ancora quel cappotto, e me lo mostrò: il goffo cappotto di Lanital grigioverde, sfilacciato, irrigidito di sporcizia – cappotto da mendicante e da barbone, non più da soldato. Ed era tutto scritto, con una grafia minuta, in ogni minimo spazio. Nomi, cognomi, date, fossa di sepoltura. Migliaia di nomi. «Per poterli ritrovare», mi disse.
Nel 1948, il regime consegnò una parte dei prigionieri di guerra italiani. Don Emidio Franzoni era nella lista dei liberati: non mi disse il suo stato d’animo, ma lo posso immaginare. Il cuore del prigioniero sobbalza: libero! Tornare a Bologna, così dolce e cordiale, così lontana dai cani e dagli urli degli aguzzini! Mangiare, finalmente! Riscaldarsi.
Ma restavano altri ragazzi italiani nel lager; chissà perchè, il regime sovietico aveva deciso di tenerli ancora dentro. Don Franzoni rifiutò la liberazione. Era il loro cappellano, doveva restare con loro.
Ascoltò altre confessioni, benedisse altri morenti, chiuse altri occhi.
Fu liberato con i sopravvissuti, infine, se non ricordo male, nel 1952. A guerra finita ormai da otto anni.
Appena tornato a Bologna, don Franzoni contattò le famiglie dei ragazzi morti di cui aveva annotato i nomi; organizzò un comitato di famiglie per reclamare la restituzione dei resti.
Tanto fece e tanto brigò ostinato, da riuscire ad ottenere – con una delegazione di mamme dei soldati perduti – un colloquio con Kruscev.
Nikita Kruscev era allora il segretario generale del PCUS. Aveva denunciato i crimini di Stalin, in fondo era un brav’uomo. Davanti alla richiesta di riesumare quei corpi – don Franzoni aveva la lista, aveva i luoghi esatti dove li sapeva sepolti – restò interdetto. Non capiva.
Domandò: «A che scopo tirar fuori quelle ossa? Esse sono mescolate ormai alla terra russa, sono terra russa».
Com’era russa questa risposta! Ammirevole anche, perfino – in modo russo – religiosa. Anzi, com’era asiatica!
Buddha stesso, credo, avrebbe risposto così (2). E anch’io – che a quel tempo amavo l’induismo, ero convinto della superiorità del neutro Brahman, dell’impersonale Nirvana sulla «salvezza» cristiana – avrei risposto così.
Ma don Franzoni, in russo, replicò a Kruscev: «Compagno Segretario, ciascuno di questi ragazzi è un figlio di famiglia. Alcuni di loro avevano una moglie che li attende; altri, fratelli e sorelle. Tutti hanno una mamma. Una mamma che ha amato ciascuno di loro singolarmente, per nome, e che non si accontenta di sapere mescolato suo figlio da qualche parte della terra siberiana. Ogni mamma vuole avere suo figlio, proprio lui, perchè vuole bene a lui; e vuole una tomba su cui andare a parlargli. A lui solo».
Una risposta cattolica, italiana e romana.
Kruscev diede un permesso alle esumazioni; delegazioni di genitori, guidate da don Emidio Franzoni, andarono sui luoghi e poterono riportare a casa le ossa dei loro figli. Naturalmente, trovarono altre ossa di soldati italiani; sconosciuti, non annotati dal don Emidio, non reclamati da una mamma, probabilmente morta nel frattempo.
Don Emidio portò in Italia anche quelle ossa senza nome. Le fece mettere in un sacrario militare, e sopra vi fece scolpire, in caratteri grandissimi, una frase del profeta Isaia:
«Ego vocavi te nomine tuo».
E’ Dio che parla così: «Ti ho chiamato per nome». Ti ho chiamato con il tuo nome.
Il che vuol dire: anche se la tua mamma non c’è più a chiamarti, tu singolarmente, unico, Io conosco il tuo nome, soldato. Anche se tutti l’hanno dimenticato, Io ti ricordo – ricordo il tuo nome singolo, unico e personale – perchè ti amo, soldato, più della mamma. Tu sei mio figlio, soldato. Ti ho chiamato col «tuo» nome, il nome tuo – personale, per me unico – perchè te l’ho dato io. Unico, benchè siete in tanti. Non vi amo «tutti»; vi amo uno per uno.
Ecco, signora turbata da miscredenti fatui, la mia «prova» che Cristo non è un mito. Non voglio nemmeno provare che Cristo è esistito nella storia, duemila anni fa; sarebbe troppo poco.
La «prova» è che Cristo è qui, ancora oggi. E la prova è don Emidio Franzoni, soldato più coraggioso di un samurai – tanto da rifiutare la liberazione – e più tenero di una mamma italiana.
Una mamma italiana è parziale: ama suo figlio anche se è un mascalzone, perchè è «lui». Don Franzoni non vedeva peccatori tra quei suoi figli, che conosceva uno per uno; vedeva dei sofferenti; vedeva degli amati, e li ha restituiti uno per uno.
Don Franzoni Emidio ha fatto questo convinto di dover imitare – nei limiti delle forze umane, nell’impotenza di prigioniero – il Dio a cui credeva; di imitare Cristo, il modo specifico di amare che ha Cristo: guerriero più di un samurai e parziale come la mamma che ci chiama uno per uno.