di Giorgio Bianco - 17 giugno 2005
Qualcuno ricorda chi ha scritto: «Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire agli utenti, con enorme crescita delle spese»? Ludwig von Mises? Milton Friedman? Qualche altro spietato fautore del «liberismo selvaggio» e dell'egoismo, insensibile alle deplorevoli condizioni di vita dei più poveri? Se qualcuno ha pensato questo, non potrebbe essere più lontano dal vero.
L'artefice di queste considerazioni è nientemeno che Giovanni Paolo II, che le ha esposte nella Centesimus Annus. Nello stigmatizzare l'intervento diretto dello Stato e la deresponsabilizzazione della società, il defunto pontefice punta il dito sulla reale natura dell'assistenzialismo di Stato. Facendo leva sul sacrosanto senso di ingiustizia che la maggior parte di noi avverte constatando che vi sono cittadini ammalati che non ricevono assistenza medica adeguata, poveri che faticano a soddisfare finanche bisogni ritenuti elementari, giovani che arrancano alla ricerca di un lavoro, anziani cui fanno difetto i mezzi di sussistenza, l'ideologia welfarista è riuscita ad instillare nei più l'idea che lo Stato debba necessariamente fare ricorso alla coercizione per costringere chi produce reddito a darne una parte - che si suppone maggiore rispetto a quella che darebbe in assenza di costrizione - a scopi di assistenza.
«Il nostro assistenzialismo - ha scritto Antonio Martino - è basato su una concezione paternalistica della povertà». Ignorando completamente il dato di fatto per cui i bisogni, le preferenze, le aspirazioni, variano da individuo a individuo, lo Stato si arroga il diritto di individuare alcuni bisogni arbitrariamente considerati «essenziali» e si assume il compito di fornire, spesso in maniera monopolistica, i relativi servizi all'intera collettività.
A questo proposito, un altro grande economista, Sergio Ricossa, ha osservato che «a) è già difficile conoscere il proprio bene; b) è difficilissimo conoscere il bene altrui; c) è quasi impossibile realizzarlo, pur conoscendolo». Sembrano osservazioni banali. In realtà, come è suo stile, con l'aria di raccontarci ovvietà il professore torinese ci rivela una profonda verità, ovvero che la ridistribuzione in natura dei quattrini sborsati dai contribuenti per finanziare le strutture di welfare rappresenta innanzitutto una violazione della libertà di scelta: a parte il fatto che una ridistribuzione in moneta risulterebbe quasi certamente meno onerosa, anche a parità di costo si otterrebbe un risultato migliore dal punto di vista del benessere dei beneficiari, che sarebbero così liberi di scegliere la quota di spesa pubblica ricevuta secondo i propri soggettivi bisogni e desideri.
Secondo la corrente legittimazione ideologica dell'assistenzialismo di Stato - che secondo una tesi largamente diffusa ma non universalmente accettata risalirebbe a Bismarck, che lo avrebbe introdotto nel 1881 per battere sul suo stesso terreno l'opposizione socialdemocratica - i destinatari del welfare sarebbero i poveri e i deboli, di cui si vorrebbero così alleviare le condizioni di indigenza e di insicurezza. In realtà, i risultati si sono dimostrati profondamente deludenti dal punto di vista dell'«efficienza ridistributiva», e accanto all'indiscutibile desiderabilità degli obiettivi si sono palesati tali risvolti di ingiustizia da far dubitare del fatto stesso che gli autentici beneficiari dello Stato sociale siano, come vuol farci credere il ceto burocratico, i bisognosi e i meno fortunati. Qui, e in successivi interventi, si inizierà ad analizzare alcuni di questi aspetti di inefficienza e di iniquità, per poi interrogarsi su due punti fondamentali: se il welfare sia riformabile, e se esistano valide alternative all'assistenzialismo statale.
Spesso, alle critiche rivolte allo Stato sociale e alla sua iniquità e inefficienza viene contrapposta l'accusa di «egoismo» o la taccia di servirsi di argomenti pretestuosi per mascherare gli interessi dei più abbienti. Il tutto, in nome di concetti i cui nomi suonano profondamente nobili, come «solidarietà» e «uguaglianza». Bellissima cosa, la solidarietà, ma coloro che ritengono debba passare attraverso le strutture statali del welfare dimenticano alcune verità molto semplici: innanzitutto, affinché ci sia davvero solidarietà, bisogna essere almeno in due. Vale a dire, la vera solidarietà è un patto, e richiede che vi sia qualcuno che la offre e qualcuno che la desidera e la accetta. In secondo luogo, coloro che difendono l'assistenzialismo di Stato, facendo appello a categorie morali come egoismo e solidarietà, dimenticano che la moralità deve necessariamente andare di pari passo con la libertà. Un atto è morale se è libero; un gesto di solidarietà è tale se volontario e non coatto.
Ora, il fatto che il welfare state consista, di fatto, in una «solidarietà» obbligatoria, imposta per legge da burocrati pubblici a contribuenti inermi, dovrebbe essere sufficiente a dimostrare l'estraneità del meccanismo alla vera moralità. Alcuni, consapevoli di questo, cercano di legittimare quello che di fatto è un prelievo forzoso dalle tasche dei contribuenti per beneficiare, altrettanto forzosamente, alcune categorie rispetto alle altre, ricorrendo a una sorta di «moralità alla Robin Hood»: è comunque giusto togliere ai ricchi, con la forza, per dare ai poveri. A parte il fatto che il bersaglio di Robin Hood non erano «i ricchi» ma lo sceriffo di Nottingham, che faceva anche da esattore delle tasse, e a cui il leggendario personaggio sottraeva il frutto dei suoi prelievi fiscali per restituirlo ai contribuenti, anche chi legittima il welfare sulla base della dubbia moralità per cui un furto ai danni di un ricco è «meno furto» di uno ai danni di un povero, si illude clamorosamente.
Ci si scorda, infatti, che le attuali strutture di welfare hanno carattere «universalistico»: da un lato il costo grava su tutti, anche sui contribuenti più poveri, dall'altro si segue un criterio di elargizione universale, per cui i benefici sono spesso conferiti a tutti, anche a coloro che non sono poveri. «Il presupposto teorico - scrive Ricossa - è che i ricchi paghino per i poveri. La conseguenza pratica è che, più spesso di quanto non si creda, i poveri pagano per i ricchi. Il fisco, un bandito che non è mai stato il Robin Hood della foresta di Sherwood, è diventato oggi, in Italia e altrove, il Robbing Hood del regno di Id: mi riferisco a un classico, i fumetti di Parker e Hart». O, per usare un esempio maggiormente familiare ai più, il Superciuk nemico storico di Alan Ford e del gruppo T.N.T. Solo i benestanti e i ricchi, infatti, possono permettersi di pagare due volte gli stessi servizi, e sono liberi di optare per la fornitura privata o per quella pubblica (possono, per esempio, curarsi in clinica o mandare i figli alla scuola privata, ma possono anche usufruire di ospedali e scuole statali, in quanto tali finanziati anche con i soldi dei contribuenti più poveri).
Risulta evidente, allora, che il passaggio dall'attuale criterio universalistico ad uno selettivo, che beneficiasse soltanto chi si trova in condizioni di reale e provata indigenza, riducendo considerevolmente il numero dei beneficiari, consentirebbe di massimizzare le dimensioni dell'aiuto offerto a chi ne ha realmente bisogno, oppure di ridimensionare la portata della spesa assistenziale e del relativo prelievo fiscale.
Occorre inoltre tenere ben presente che lo Stato assistenziale, anche nel caso di una ridistribuzione più efficiente di quanto prelevato dalla borsa dei contribuenti, ha un costo suo proprio, che è indispensabile coprire per assicurarne il (buono o cattivo) funzionamento. Questo significa, come scrive Antonio Martino, che «lo Stato assistenziale costa enormemente più di quanto rende»: dal momento che distribuire benefici alla collettività sotto forma di «servizi sociali» comporta anche notevoli costi di trasferimento, è evidente che la collettività riceve sempre e comunque dallo Stato meno di quello che ha dovuto pagare. E dal momento che i costi di trasferimento aumentano con il crescere delle dimensioni dei programmi assistenziali, la differenza tra il costo dell'apparato di welfare e i benefici resi da questo alla collettività aumenta con il crescere dell'assistenzialismo.