User Tag List

Risultati da 1 a 3 di 3
  1. #1
    Iscritto
    Data Registrazione
    22 Jan 2004
    Messaggi
    232
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Il Segreto Della Repubblica

    ARAK

    Consiglio a tutti di leggere questo libro "Il segreto della repubblica" ed. Selene

    La riunione di Padova

    Freda annuncia a un proprio compagno di fede, Ivano Toniolo, l'imminente arrivo a Padova del " camerata Pino". (Rauti)
    Insieme a Rauti arriva però un secondo personaggio, Pozzan ricorda di aver rivolto a Freda una richiesta di chiarimenti circa l'identità dell'ospite inatteso e di aver ricevuto per tutta risposta un sibillino: " E' un uomo del Sid ". (Giannettini)

    Meditate gente, meditate.

    ARAK
    ARAK

  2. #2
    Iscritto
    Data Registrazione
    22 Jan 2004
    Messaggi
    232
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Pino Rauti - Istituto Pollio

    RIPORTIAMO L'INTERVENTO DI PINO RAUTI (ALL'EPOCA CAPO DI ORDINE NUOVO E OGGI DEL MS-FIAMMA TRICOLORE) AL CONVEGNO ORGANIZZATO DALL'ISTITUTO POLLIO.

    LA TATTICA DELLA PENETRAZIONE COMUNISTA IN ITALIA
    Intervento del 4 maggio del dottore
    PINO RAUTI



    Cercherò di mantenere il mio intervento nei limiti concessi dal Convegno, limiti che potranno essere ritenuti più o meno stretti ma che vanno osservati se non si vuol finire con il fare un convegno politico, con tutti i vantaggi, ma anche con tutti gli svantaggi che ne deriverebbero. Questo incontro ha invece, un suo carattere specifico che consiste nell’analisi della tecnica, della metodologia della g.r., o guerra sovversiva che dir si voglia. Ora, sulla teoria di questa guerra sovversiva ci troviamo quasi tutti d’accordo.

    Ci sono delle sfumature interpretative, ma abbiamo appreso (ed è stata una piacevole scoperta) che in varie parti d’Italia, persone diverse, gruppi diversi, circoli ed ambienti diversi, di diversa estrazione politica, si sono posti questo stesso ordine di problemi. Dobbiamo tuttavia sgombrare il campo, a mio avviso, da alcune questioni preliminari, da alcuni quesiti pregiudiziali. Si è detto ad esempio: “Ma non basterebbe la semplice applicazione delle leggi? Non basterebbe la semplice applicazione del Codice Penale, per reprimere, nella fase iniziale, le manifestazioni aggressive del comunismo per la conquista del potere?” Prima di tutto si deve osservare che la g.r. in sé e per sé, negli atti specifici nei quali essa si articola, che spesso vengono affidati a particolari agenti di esecuzione, si estrinseca in atti che non sono direttamente perseguibili dal Codice Penale. Si tratta, cioè, come diceva uno studioso, belga della g.r., di un delitto globale, che è difficilmente definibile e che quindi non è colpibile nella manifestazione con cui esso si presenta.

    E’ la somma, la globalità e soprattutto la continuità con la quale questi atti vengono compiuti, nel tessuto connettivo dello Stato, nel tessuto politico, nel tessuto costituzionale, economico e sociale, che configurano la g.r.

    Da qui la sensazione, quasi avvilente, di disarmo che una certa parte della classe dirigente contemporanea d’Italia, prova, indubbiamente, dinanzi alla situazione, dinanzi all’attivismo scatenato dei comunisti. Cioè la sensazione che gli strumenti giuridici, politici e costituzionali siano dati superati da questa nuova tecnica.

    Quesito di ordine ancora più generale è quello sulla capacità obiettiva che possono avere o non avere alcuni tipi di regimi politici nell’affrontare questa forma modera di aggressione, di marcia verso il potere, di conquista. Indubbiamente, un conto era la lotta politica condotta nel diciannovesimo secolo, che ubbidiva a certe regole, che riguardava categorie molto ristrette di persone; un altro è la lotta politica che si conduce oggi nelle grandi platee contemporanee, dove operano contemporaneamente decine di milioni di persone, le quali sono raggiunte quotidianamente, ora per ora, fino nell’intimità della casa, dallo sviluppo tecnologico contemporaneo e dallo sviluppo dei grandi mezzi d’informazione.

    Ecco quindi che, al di fuori del quadro strettamente penale, strettamente giuridico, nel quale sarebbe estremamente difficile situare il problema della repressione dell’attività sovversiva, al di fuori dello stesso quadro politico e costituzionale, che si trova ad essere superato dalla corsa dei tempi, si pone angoscioso e drammatico il problema che questo Convegno intende, appunto, sottolineare. Ci troviamo di fronte a una nuova tecnica per la conquista del potere.

    Qual è, quali sono, in linea pratica, in linea concreta, le sue caratteristiche, le sue espressioni e manifestazioni principali e quali sono i metodi con i quali a questa tecnica si può reagire? In linea teorica siamo tutti d’accordo; si chiama guerra sovversiva, guerra rivoluzionaria, guerra psicologica, noi ci troviamo di fronte ad un piano accuratamente elaborato, e che si contraddistingue in pratica in due aspetti principali; il primo è che, con questa tecnica, il comunismo ha rinunciato all’attacco frontale condotto nei confronti dello Stato.

    I più anziani fra noi, presenti in questa sala, ricorderanno certo per esperienza diretta, i meno anziani lo sapranno per averlo letto, in quali forme si espresse, nell’altro dopoguerra il tentativo comunista per il potere: era la tecnica dell’assalto frontale; non c’era istituzione dello Stato che non venisse frontalmente aggredita, che non venisse, quasi ottusamente, presa d’assalto.

    Andavano a dare fastidio, andavano a sciogliere non solo le dimostrazioni patriottiche, ma perfino le manifestazioni religiose, le cerimonie più intime e più care alla psicologia collettiva; andavano a strappare dai petti dei combattenti le medaglie al valore, sputavano sulla bandiera, insultavano tutti coloro che osassero presentarsi in divisa in certi quartieri notoriamente sovversivi. Ovviamente, ci fu una reazione a tutto questo, e quello che successe lo sappiamo benissimo. In questo dopo guerra (non solo per la lezione che i comunisti ebbero allora, ma anche per una serie di altre considerazioni) hanno cambiato tattica. Oggi, la difficoltà di combattere il comunismo in Italia dipende quasi esclusivamente dal fatto che i comunisti non si vedono. Essi sono tanto onnipresenti, quanto invisibili.

    Voi potete andare nei quartieri più “rossi”; voi potete andare nelle zone più rosse e più sovversive della Toscana e dell’Emilia, dove i comunisti hanno già raggiunto da molto tempo – e sotto molti aspetti hanno già superato – la maggioranza assoluta (dal 60 al 70% di voti); voi potete andare nelle cosiddette “Stalingrado rosse”, che non sono soltanto quelle di Sesto San Giovanni, ma sono anche certe zone agricole pugliesi, sono nel triangolo rosso molisano, e via dicendo (zone nelle quali i comunisti, notoriamente, controllano la situazione); ebbene non vedrete mai un distintivo comunista all’occhiello. Questo per significare, per sottolineare, quasi, che i comunisti intendono conquistare lo Stato, attraverso una lenta opera di saturazione interna.

    Questo è il primo aspetto che assume, in Italia, la guerra sovversiva per la conquista del potere. Quindi, da questo punto di vista, noi non dobbiamo credere che si ripeterà in Italia, meccanicamente, la trasposizione degli schemi organizzativi, degli schemi attivistici che contrassegnarono il periodo che va dal 1943 al 1945. Anzitutto perché allora c’era una guerra, e c’era una guerra civile, e c’erano particolari emotività scatenate dagli avvenimenti del 25 luglio, dell’8 settembre, e via dicendo; e poi perché i comunisti si sono resi conto che qualsiasi tattica che li portasse a combattere allo scoperto, alla luce del sole, facendo proclamare gli obiettivi che intendono raggiungere non potrebbe non provocare un processo di reazione contraria. Ed è questa la cosa che evidentemente essi temono di più. Quindi, io non porrei il problema del pensare a come difendersi dalle conseguenze ultime della g.r., pensando ai comunisti che, chiusi nel segreto del loro apparato, si domandano: “chi dovremo uccidere per primo col colpo alla nuca, il prefetto, il questore, il parroco o il vescovo?”.

    I comunisti, oggi, nell’Italia 1965, non sono affatto in questo ordine di idee, per quanto si sappia tutti che esiste un apparato pronto a scattare alla prima occasione, per quanto serpeggi nelle masse comuniste un certo estremismo massimalistico che già esplose, per esempio dopo l’attentato a Togliatti. In quell’occasione, infatti, le masse comuniste, per conto loro, scesero nelle piazze e andarono molto al di là di quanto non volessero i loro dirigenti.

    Il che sta a dimostrare che spesso i dirigenti comunisti non riescono a padroneggiare il cosidetto “estremismo di base”.

    Ma, fermandoci al vertice, alla sua visuale politica, alla organizzazione e alla propaganda da esso imposte, noi dobbiamo prevedere che il P.C. in Italia tenterà molto difficilmente il colpo della conquista violenta del potere, e continuerà a lavorare così come ha fatto fino a oggi, cercando di riuscire nei suoi intenti attraverso la lenta saturazione degli organi dello Stato.

    Di conseguenza, mentre una volta si doveva parlare in termini esclusivamente anti – comunisti, ora ci si deve porre il nuovo problema che deriva dalla crescente strumentalizzazione che dell’apparato dello Stato stanno facendo i social – comunisti, lasciando alle altre forze, il compito, l’onore e il rischio, quindi, di una eventuale ribellione contro i poteri costituiti. Dunque non meccanica trasposizione dei tentativi precedenti ma lenta conquista dall’interno dell’apparato dello Stato.

    Oggi per il P.C. (io l’ho detto diverse volte e lo ripeto anche in questa sede) è più importante, è infinitamente più importante disporre del posto di capo servizio alla radio e alla televisione, là dove si manipolano i programmi che disporre di cinquecento attivisti in piazza, perché i cinquecento attivisti in piazza ne possono mobilitare altri cinquemila avversi, contrari e decisi a menare le mani.

    Inoltre i cinquecento attivisti comunisti non si fanno vivi che in determinate occasioni, mentre lo sconosciuto signore che, nel chiuso di una stanza, sceglie un’opera teatrale invece di un’altra, mette in onda una certa commedia invece di un’altra, procede all’indottrinamento, al condizionamento psicologico, all’avvelenamento invisibile delle coscienze e delle volontà di centinaia di migliaia, di milioni di persone.

    Ecco la tecnica comunista per la conquista dello Stato. La quale tecnica, quindi, si contraddistingue per il tentativo di sfruttare per linee interne l’apparato dello Stato e, soprattutto, i suoi mezzi informativi, in attesa di poter conquistare e utilizzare anche i mezzi repressivi dello Stato.

    L’altra caratteristica della g.r. è la fredda, la scientifica, la razionale continuità alla quale obbedisce l’azione comunista. Mentre nel campo anticomunista, in genere, si lotta solo nel periodo elettorale, i comunisti sono ogni giorno, ogni ora, presenti nel Paese: essi lavorano sempre, perché essi sono, appunto, in guerra, mentre gli altri fanno, di tanto in tanto, delle azioni propagandistiche, che si esprimono, grosso modo, nella campagna elettorale, nell’affissione di manifesti, in una certa vita di partito più o meno organizzata, generalmente discontinua. Al contrario, i comunisti, attraverso la loro massiccia organizzazione burocratica, sono in grado di mantenere permanentemente mobilitato un piccolo esercito, il quale, dalla mattina alla sera, senza alcuna interruzione, provvede all’inquadramento e allo sfruttamento di tutti gli argomenti propagandistici che la situazione offre loro. Quindi, conquista dall’interno delle strutture dello Stato, la estrema continuità dell’azione.

    Ecco i problemi dinanzi ai quali si trovano oggi tutti coloro che in Italia vogliono affrontare seriamente, in maniera approfondita, il tema della g.r. Queste persone (noi, in altri termini) devono evitare, a mio avviso, un grave pericolo di impostazione in materia, che a me è sembrato di notare un po’ in tutte le indagini condotte su questo argomento.

    Di solito, si tende a dire che la g.r., come viene attuata in Italia, sia la trasposizione, in termini appena appena adeguati, delle tecniche di g.r. che i comunisti hanno seguito e stanno seguendo per la conquista del potere nei Paesi afro-asiatici o, più in generale, nei Paesi sottosviluppati.

    A mio avviso, le citazioni di Mao Tzè Tung, le citazioni dei testi classici, in materia, debbono servire soltanto come riferimento culturale, informativo, perché la tecnica per la conquista del potere, in un paese industrializzato, in un paese moderno, in un paese occidentale, ubbidisce a regole e a necessità diverse. Regole che io ho creduto appunto di riassumere prima nelle due considerazioni principali ovvero nell’infiltrazione nei gangli dello Stato con il divieto, direi quasi assoluto, per i propri attivisti di ricorrere ad azioni di violenza, e nella continuità e nella capillarità dell’azione politica.

    Ecco quindi che il fenomeno della guerra sovversiva pone alle nostre coscienze e alle nostre preoccupazioni una serie di problemi estremamente drammatici ed estremamente urgenti, perché noi tutti sentiamo che l’apparato politico e costituzionale del quale le forze anti comuniste si trovano a disporre non sembra molto adeguato alla lotta contro il comunismo. Questo spiega anche perché il comunismo in Italia stia guadagnando terreno, mentre le altre forze ne stanno, evidentemente, ogni giorno perdendo.

    Quali sono, in concreto, le risposte che noi pensiamo di poter dare a questa tecnica? Anzitutto, la illustrazione (di cui questo convegno è soltanto un primo ma efficacissimo passo) propagandistica dell’esistenza di queste caratteristiche specifiche, attuali, moderne, dell’azione comunista per la conquista del potere.

    Non c’è nulla di peggio, per i comunisti, che presumono di poter lavorare ancora nell’ombra per sviluppare questo loro piano scientificamente ideato e scientificamente realizzato, non c’è nulla di peggio che l’illustrazione più vasta possibile del particolare tipo di aggressione che essi pensano di poter effettuare in Italia. Quindi, anzitutto, non si pensi che questo convegno esaurisca la sua importanza nel dar vita al documento conclusivo.

    Ha, invece, una sua importanza agli effetti pratici: mettere in luce certi temi, puntualizzare esattamente le tecniche usate dall’avversario, diffondere questa nuova impostazione, questo nuovo angolo visuale dal quale riguardare l’azione comunista quotidiana. E ciò è quanto di più utile sul piano propagandistico si possa fare. Rappresenta, direi anzi, una novità assoluta nel quadro piuttosto deprimente delle attività attuali dell’anticomunismo italiano.

    Bisogna puntare sull’opinione pubblica al di fuori degli schemi di partito e dei riferimenti politici. Non bisogna continuare a considerare la lotta politica basata esclusivamente sugli schemi ottocenteschi dei partiti. Occorre considerare anche l’importanza che hanno le iniziative settoriali, le organizzazioni parallele, lo studio approfondito di queste nuove tecniche di indottrinamento e di condizionamento delle masse: ecco l’importanza del convegno.

    Ecco l’importanza dei risultati ai quali mi sembra che esso indubbiamente sia pervenuto, se non altro per la messe di considerazioni e per l’abbondanza di documentazioni che esso ha messo a disposizione. Se un numero crescente di italiani sarà indotto a riguardare il comunismo, non secondo lo schema ormai non più valido e sorpassato di un partito che conquista o cerca di conquistare il potere attraverso il ricorso alle elezioni e lo sfruttamento, più o meno estremista, più o meno provocatorio delle sue organizzazioni sindacali, ma sarà indotto a riguardare il comunismo in Italia, come un male che contrasta la nostra civiltà di italiani, di europei, di occidentali; se sarà indotto a riguardare alle tecniche comuniste freddamente elaborate per la conquista del potere in un Paese moderno, in una situazione storico- politica completamente diversa da quelle che ci hanno precedute, noi avremo compiuto un’opera utilissima. Spetterà poi ad altri organi, in senso militare, in senso politico generale, trarre da tutto questo le conseguenze concrete, e far sì che alla scoperta della guerra sovversiva e della g.r. segua l’elaborazione completa della tattica contro – rivoluzionaria e della difesa.
    ARAK

  3. #3
    Iscritto
    Data Registrazione
    22 Jan 2004
    Messaggi
    232
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Articolo "EPOCA "

    ARTICOLO PUBBLICATO DAL SETTIMANALE "EPOCA" (MONDADORI EDITORE) POCHI GIORNI PRIMA DELLA STRAGE DI PIAZZA FONTANA.

    Senza preconcetti lontani da ogni pregiudizio astenendoci dalle "morbidezze" tipiche non solo della stampa governativa rispondiamo francamente come sempre alla domanda che tutti si rivolgono

    CHE COSA PUÒ ACCADERE IN ITALIA

    INCHIESTA DI PIETRO ZULLINO



    Roma, dicembre "Posso capire le polemiche", confidava ai suoi collaboratori più stretti l'onorevole Rumor, appena rientrato a Palazzo Chigi dall'Aja, "ma non capisco le punte di malcealto disprezzo che tutti riservano a questo governo quando debbono nominarlo. Nelle condizioni assurde in cui è costretto a lavorare, questo governo sta facendo fin troppo. Domandiamo collaborazione e ci rispondono picche. Chiedo che sia verificata la solidarietà dei partiti alleati, e mi dicono di andare avanti senza preoccuparmi troppo della verifica, tanto non si può fare neanche quella. La nebbia è totale. Io resto al timone per carità di patria, ma un briciolo di comprensione in più non guasterebbe."

    Perché l'onorevole Rumor è costretto a presiedere controvoglia un "monocolore d'attesa"? Perché nessuno spiega con chiarezza alla gente che cosa si sta aspettando? Perché nel frattempo si discute a vuoto su un ritorno al vecchio quadripartito di centrosinistra, che tutti sanno impossibile? Perché - mentre lo stato traballa e l'economia è in pericolo- si rimane nel vago e si rimandano le scelte di fondo "a primavera"? Che cosa ci aspetta alla fine di questa lunga e incomprensibile inerzia?

    La risposta a queste ed altre domande sarebbe sulla bocca di tutti, se l'opportunismo, il machiavellismo, il contorsionismo e la doppiezza congenita di tanta parte della nostra classe politica non stessero lì apposta per oscurare il linguaggio, confondere le carte ed imbrogliare il gioco. Noi pensiamo di rendere un servizio ai nostri lettori sgombrando anzitutto il campo dalle mistificazioni. La risposta, dunque, è che i problemi di fondo sono soltanto due:

    l'apertura al PCI e l'organizzazione della battaglia per la conquista del Quirinale nel '71.
    Dal modo in cui verranno risolti questi due problemi dipende l'asseto dell'Italia nei prossimi anni e la personale fortuna (o sfortuna) di moltissimi uomini politici. Le questioni sono interdipendenti e costituiscono un unico rebus: di qui la generale incertezza, il ritardo, la stasi, l'impossibilità tecnica di ricostruire un governo autorevole. Chi vuole saper che cosa potrebbe succedere nei prossimi mesi non deve perdere di vista la cornice generale dell'intricatissima situazione.

    PCI: APERTURA AL CLOROFORMIO?

    Deve o non deve il PCI partecipare prima o poi al governo? Chi conosce la natura irrimediabilmente totalitaria e oppressiva del comunismo ha già la risposta pronta. Ma nella DC e nel PSI la tendenza filocomunista è una realtà resa più o meno evidente dalle circostanze. Essa maschera robusti interessi economici particolari, e l'ambizione di personaggi che non si sentono abbastanza valorizzati nell' attuale stato di cose.

    Come ha spiegato giorni fa l'onorevole Donat-Cattin, che è uno dei pochi ad avere il coraggio delle proprie idee, l'operazione dovrebbe incominciare con una collaborazione cattolico-comunista a livello comunale, provinciale e regionale. Il fenomeno dovrebbe poi riprodursi su scala nazionale. Ma con cautela, cercando di mettere lo schieramento anti-comunista davanti a una serie di fatti compiuti. In una prima fase, il PCI appoggerebbe dall'esterno un governo "bicolore" DC-PSI o qualsiasi altro governo che non chiudesse a sinistra. Al momento giusto farebbe poi la sua diretta comparsa in una coalizione di "unità popolare". Al progetto hanno dato un nome abbastanza divertente: "apertura al cloroformio".

    Quelli che vi lavorano hanno di norma usato espressioni molto più caute e ambigue: da "nuovo patto costituzionale" (De Mita) a "centrosinistra senza preclusioni" (De Martino). Lo stesso Moro parlò a primavera di "strategia dell'attenzione" nei confronti dei comunisti. I dirigenti del PCI sono più espliciti. Al congresso di febbraio Longo e Berlinguer non avevano dubbi sulla direzione di marcia. Capo della tendenza "entrista" è tuttavia l'on. Amendola. Periodicamente, su L'Unità, egli sostiene che il PCI è ormai da considerarsi "partito di governo" a tutti gli effetti. In pratica non ha torto: è opinione diffusa che esso agisca già all'interno del sistema piuttosto che all'esterno.

    Quante probabilità di riuscita ha in questo momento, l'apertura al PCI? E in quanto tempo potrebbe essere realizzata? Fino al 19 novembre (cioè fino ai disordini di Milano) la definitiva svolta a sinistra del Paese sembrava imminente. La pressione dei sindacati era al colmo, il disordine dilagava, il PCI si offriva come "partito d'ordine" chiedendo in cambio il biglietto d'ingresso nell'area del potere. Uomini politici democristiani, noti per il loro tradizionale moderatismo, lasciavano intendere di non voler perdere l'autobus di un governo bicolore DC-PSI, anticamera dell'apertura.

    IL PAESE HA REAGITO

    I fatti di Milano (uccisione dell'agente Annarumma, reazione popolare in occasione dei funerali, e soprattutto episodi di grave nervosismo in seno alla polizia) hanno ridato un po' di linfa al governo Rumor e gravemente demoralizzato buona parte dello schieramento aperturista. Molti politici sembravano improvvisamente tornati in sé, e tentano di far dimenticare i discorsi che facevano all'inizio dell'anno.

    C'è indubbiamente un riflusso: non "a destra", ma verso il buon senso. Come affermano i comunisti e sinistre democristiane si ammette che la grande svolta è rinviata di molti mesi, forse di anni. Poiché alcuni importanti contratti di lavoro sono stati rinnovati, la pressione sindacale si va esaurendo. Gli operai sono stanchi. I "vertici per l'ordine pubblico" tenuti a Roma dopo il 19 novembre hanno deciso un energico giro di vite (numerosi arresti di elementi sovversivi, molti processi, qualche condanna severa). Il fatto più notevole è però un altro: oggi, anche nel PCI serpeggia il dubbio. Si pensa che la pera non è ancora del tutto matura.

    Gli episodio che possono far pensare ad un ripiegamento strategico dei comunisti sono due. Il primo è la radiazione dal partito del gruppetto dissenziente che si è raccolto intorno alla rivista Il Manifesto. Già da molti mesi Giorgio Amendola sosteneva la necessità di cacciar via i "frazionisti".

    Ma Longo, Berlinguer e Ingrao non erano dello stesso avviso. Un'ala dissenziente poteva far comodo, almeno finché era in corso l'avvicinamento del PCI al governo. Dava infatti al partito una patente (o una vernice) di democraticità e serviva a persuadere i perplessi della DC e del PSI che anche in seno al comunismo è ormai ammesso il libero confronto delle opinioni. Dopo i fatti di Milano lo stato maggiore comunista capì che l' "apertura al cloroformio" era ormai un sogno.

    L'opposizione interna de Il Manifesto non serviva più allo scopo e si sviluppava, anzi, pericolosamente. La Rossanda, Pintor e Natoli chiedevano un vero e proprio rivolgimento nella politica del PCI: nessuna partecipazione al governo, svecchiamento dei quadri dirigenti, completa autonomia da Mosca. Allora, anche Longo, Berlinguer e Ingrao si schierarono con Amendola. Il 25 novembre il Comitato Centrale decretò la condanna degli "eretici".

    Negli ambienti filocomunisti degli altri partiti si diffusero smarrimento e sconforto. Personaggi come De Martino e De Mita, Galloni, Lombardi e Donat-Cattin hanno dovuto ammettere, con costernazione in qualche caso sincera, che il PCI è ancora immaturo per la democrazia.

    Un secondo episodio si è poi aggregato al quadro sintomatico della ritirata comunista. Tutti credevano di sapere, e dicevano, che se l'apertura avesse messo quest'autunno solide basi, i comunisti avrebbero graziosamente dato un aiuto ai cattolici (e al Vaticano) contribuendo a far cadere, alla Camera, la legge sul divorzio. Non c'era bisogno di grandi manovre e ripensamenti ideologici: sarebbe bastata l'assenza di pochi deputati al momento della votazione. Il 27 novembre invece i deputati comunisti furono presenti in massa e favorevoli al divorzio. Nessuno dà niente per niente. Perduta la battaglia d'autunno, il PCI prepara, con certosina pazienza, quella di primavera. Ma quali forme assumerà? E nel frattempo, che cosa succederà?

    PERCHÉ FANFANI E' "RISORTO"?

    A questo punto bisogna togliere di mezzo l'altra mistificazione. Dalla lettura dei giornali di partito si potrebbe dedurre che tutti cercano di risolvere la crisi del Paese in termini di politica pura e nell'interesse generale. Questo, ovviamente, è vero solo in minima parte: sono le ambizioni personali che giuocano il ruolo più importante. Se l'apertura al PCI resta il problema numero uno, il problema numero due è la conquista del quirinale dopo la scadenza del mandato di Saragat, nel '71. Le due questioni finiscono con l'essere strettamente collegate se non interdipendenti.

    Mettiamoci nei panni di uno di coloro che oggi puntano alla presidenza della Repubblica, e proviamo a seguirlo nel ragionamento che certi esperti gli fanno fare. "Il Quirinale", egli penserebbe, "si conquista solo con il massiccio apporto dei voti comunisti. L'esperienza fatta da Saragat nel 1964 l'ha dimostrato. Che cosa dovrò fare io per ottenere l'appoggio dei comunisti? Che cosa dovrò offrire in cambio?

    "Di certo so che la loro ambizione è quella di arrivare finalmente al governo. Potrei dunque mettermi a lavorare subito per la definitiva apertura a sinistra. Acquistarmi benemerenze tali da essere poi ringraziato con l'elezione al Quirinale. Essere, insomma, il fondatore della "Repubblica Conciliare". Così facendo però corro anche un grosso rischio. Chi mi assicura che i comunisti, raggiunto il loro obiettivo prima del '71, non mi getteranno a mare? Probabilmente la strategia migliore è un'altra: temporeggiare per un'altro anno. Ritardare ogni intesa di potere col PCI, della quale l'autore non sia io.

    Mi sarò conquistato, in tal modo, la fiducia dei conservatori e dei moderati, perché saprò renderli certi che in nessun caso consegnerei l'Italia ai comunisti. Allora, e soltanto allora, mi converrà riaprire un discorso col PCI sulla maniera in cui, dal Quirinale, potrei favorire un graduale ingresso dei rappresentanti comunisti nell'area del potere. Logorati dalla lunga anticamera, è probabile che i gerarchi delle Botteghe Oscure mi daranno retta: prima il quirinale a me, e poi l'apertura. Alle condizioni, naturalmente, che io da quel posto detterò".

    I candidati al Quirinale, in questo momento, sono due soli: Amintore Fanfani e Aldo Moro. Sarebbe ingeneroso attribuire all'uno o all'altro il ragionamento di cui sopra, almeno nella versione cinica che, per brevità, ne abbiamo dovuto dare. Ma è fuori di dubbio che l'uno e l'altro, se vogliono scalare la più alta magistratura dello Stato, debbono pensare fin d'ora a procurarsi l'appoggio comunista.

    Moro ha cinquantatré anni, Fanfani sessantuno. Moro potrebbe aspettare fino al '78: è umano che Fanfani possa avere più fretta. La loro rivalità si mantiene entro i limiti della più assoluta correttezza, ma è opinione diffusa che si abbastanza aspra da condizionare l'avvenire prossimo del Paese. Nessun panorama politico sarà mai chiaro se non si parte da questa premessa.

    Chi vincerà? La dirompente iniziativa di Fanfani costringe oggi Moro ad una posizione di attesa. Fanfani è di nuovo l'arbitro della Democrazia Cristiana. Segretario del partito da un mese, è il suo luogotenente e discepolo Arnaldo Forlani.

    Il parlamentare aretino si è chiaramente spostato più a destra, e ciò spiega l'appoggio che tutte le correnti moderate hanno concesso a Forlani. Il giovane segretario, dal canto suo, ha portato fieri colpi al "cartello delle sinistre", che si sta disgregando. E ha affidato tutti i posti chiave del partito a uomini che in questo momento condividono il programma suo e di Fanfani.

    Moro tace.

    A sinistra è rimasto un solo avversario dichiarato: Donat-Cattin. Per il quirinale, nel '71, il partito potrebbe essere sufficientemente compatto e sostenere Fanfani (sempre che si raggiunga un accordo-armistizio con Moro). L'idea che l'apertura al PCI avvenga sotto l'egida di un leader autoritario ed esperto come Fanfani è tranquillizzante per molti uomini della DC.

    UN GOVERNO A DUE O A QUATTRO?

    Se ascoltiamo con attenzione i discorsi dei maggiorenti politici di qualsiasi partito, ci accorgiamo che non esiste un curioso abbinamento tra la loro idea delle fortune politiche dell'Italia e la loro personale fortuna.

    Quando, ad esempio, gli uomini del PSU (Partito Socialista Unitario di orientamento social-democratico, N.d.R.) affermano: "O governo quadripartito di centro-sinistra, o nuove elezioni", è facile constatare che qualsiasi altra ipotesi nuocerebbe al PSU e di conseguenza agli uomini del PSU. I socialdemocratici, con un milione e mezzo di elettori, hanno un peso politico finché affiancano e controbilanciano la Democrazia Cristiana: il giorno che si trovassero schiacciati tra i comunisti e i cattolici perderebbero gran parte dell'importanza che hanno oggi. Sono nemici acerrimi dei comunisti per questioni ideologiche e di principio. E poiché, in fondo, non si fidano dei democristiani, sospettano che qualsiasi formula di governo diversa dal quadripartito potrebbe essere l'anticamera dell'intesa col PCI.

    La regola vale per tutti. Il PRI, con cinquecentomila elettori o poco più, è sempre stato l'ago della bilancia del centrosinistra ed ha sempre controllato almeno un grosso ministero e alcuni sottosegretariati. Con La Malfa ha occupato il Bilancio, con Reale le Finanze. Cosa dicono oggi i repubblicani? Di essere disposti a trattare per un nuovo governo solo se sarà fatta una rigorosa politica monetaria e di salvataggio dell'economia. Questa è la loro pregiudiziale.

    Il ragionamento con la vocazione di partito di "tecnici" ma anche con il loro interesse. E' un modo molto educato di far sapere che essi non intendono rinunciare al controllo di uno dei grossi dicasteri economici. Ma se rimanessero schiacciati in mezzo a un acoalizione cattolico-comunista dovrebbero rinunziarvi. Sono pertanto contro l'apertura al PCI. Davanti a una ipotesi di "tricolore" DC-PSI-PRI rimangono perplessi, perché sarebbe l'anticamera dell'apertura al PCI. D'altra parte si rendono conto che il vecchio quadripartito non si potrebbe riformare perché il PSI non lo vuole. Il monocolore democristiano naturalmente non li soddisfa.

    Allora si ritirano nel loro campo e dicono "Prima che delle formule, preoccupiamoci dell'economia". Il PSI vuole andare al governo da solo con la Democrazia Cristiana. Il "bicolore" avrebbe vita abbastanza lunga con l'appoggio del PCI e preparerebbe la grande svolta a sinistra.

    Prima dell'elezione di Forlani a segretario del partito, sembrava che la Democrazia Cristiana fosse sul punto di aderire ad un simile progetto. Oggi la prospettiva è più lontana, e si parla piuttosto di conservare il monocolore Rumor fino alle elezioni amministrative o di fare un altro monocolore più robusto, nel mese di gennaio. Per questa seconda ipotesi si fa il nome di Amintore Fanfani.

    Il parlamentare aretino è uno specialista delle situazione difficili. dopo il 1960, fece uscire la classe politica da una grave crisi, sperimentando per la prima volta la collaborazione del PSI con i partiti che poi avrebbero dato vita alla coalizione di centro-sinistra. la grande risorsa di Fanfani è il suo attivismo. Ma questa volta, la posta in palio è talmente importante, che non è improbabile che amici e avversari saprebbero costringersi a tenergli testa. Qui torna in ballo il discorso del Quirinale. Perché è difficile immaginare che Fanfani, accettando un incarico rischioso com'è attualmente la presidenza del Consiglio, lo farebbe perché ha rinunciato in cuor suo alla presidenza della Repubblica.

    Il sospetto che egli potrebbe utilizzare il periodo di governo pe rpreparae a lunga scadenza l'accordo con i comunisti sarebbe perdonabile. Di conseguenza, chi è contrario all'apertura al PCI sarà contrario anche al monocolore Fanfani. Eppure, al di là di qualsiasi sospetto, non si vede chi, oltre Fanfani, potrebbe essere in grado di restituire al governo fiducia ed energia. L'uomo è abile, coraggioso, ostinato, capace di programmi a lunga scadenza e di intuizioni che il tempo si incarica oggi di dimostrare esatte. ma di troppi machiavelli, di troppe contorsioni mentali si nutre la nostra politica. Per cui la conclusione non può essere forse che una sola.

    Hanno ragione i pessimisti quando affermano che il contrasto è giunto ad un punto tale, che ben difficilmente potrà risolversi per vie normali. La pressione "entrista" del PCI è un fatto nuovo che sconvolge il panorama politico, minaccia di ridimensionare partiti, uomini, ambizioni, prelude ad un cambiamento di regime e a uno scivolone totalitario e, forse, "cecoslovacco". Tutti sentono che la battaglia sarà durissima e che a vincerla saranno in pochi. Allora, cercano di rimandarla o di entrarvi nel momento più favorevole ( che per tradizione tutta italiana, è quello in cui si comincia a capire chi sta vincendo).

    Queste e non altre sono le ragioni della paralisi, dell'attesa, dell'impossibilità tecnica di rifare un governo serio sui due piedi. E' una situazione che in linguaggio scacchistico si chiamerebbe di "stallo". Ma se dovesse prolungarsi con evidente danno pe ril Paese, il Presidente della Repubblica potrebbe sciogliere le Camere e rimettere ogni decisione al popolo, indicendo nuove elezioni generali.

    NUOVE ELEZIONI: A CHI GIOVANO?

    L'articolo 88 della Costituzione dice: "Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le camere o anche una sola di esse. Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato". Saragat potrebbe esercitare questa facoltà entro il mese di giugno del 1971. Sarebbe la prima volta che un fatto del genere accade in Italia ad quando è in vigore la Costituzione repubblicana.

    Solamente un partito oggi (nell'ambito del centro-sinistra) si dichiara favorevole ad elezioni anticipate: il socialdemocratico PSU. Che è, per coincidenza, anche il partito d'origine di Giuseppe Saragat. Fino a che punto è sincera la posizione del PSU? Sono in molti a pensare che i socialdemocratici agitino lo scioglimento delle Camere come uno spauracchio per le altre forze politiche, come un grosso atout per non vedersi tagliati fuori dalle prossime combinazioni di governo. In realtà neanche Ferri, Tanassi e Preti possono dirsi certi che il loro partito uscirebbe rafforzato ad nuove elezioni. Tutti gli altri partiti queste elezioni non le vogliono. Se Saragat consultasse oggi il Presidente del Senato, Fanfani, e il Presidente della Camera, Pertini, si vedrebbe gettare sul tavolo il "no" quasi compatto dell'intero Parlamento.

    Proviamo a decifrare le ragioni di un "no" tanto deciso. I parlamentari sono contro nuove elezioni innanzitutto per un motivo pedestre, che nulla ha a che vedere con i destini della Repubblica. Deputati e senatori devono ancora pagare i debiti d'ogni specie contratti per la campagna del 198. Dopo due anni scarsi di legislatura non se la sentono di ricominciare a patire. Così affermano che nuove elezioni non servirebbero a sciogliere i nodi politici del momento. Ammettiamo però che il Capo dello Stato giudicasse indispensabile il ricorso alle elezioni anticipate, passando sopra la testa dei deputati e dei senatori riluttanti.

    Che cosa potrebbe accadere? Viene subito in mente che l'elettorato, rafforzando alcuni partiti ed indebolendone altri, farebbe conoscere in definitiva la sua opinione sul problema di fondo, che è quello dell'ingresso del PCI nell'area di governo. Se questa fosse una ipotesi realistica, ogni buon democratico dovrebbe augurarsi che le elezioni venissero indette per domani mattina. Ma è una ipotesi che pecca, quanto meno, di semplicismo. I socialdemocratici del PSU hanno probabilmente ragione quando affermano che il loro partito ruberebbe molti voti a al PSI di De Martino. E che lo stesso PSI, subendo anche una emorragia a sinistra, finirebbe praticamente di contare qualcosa sulla scena politica. Anche il MSI e il PLI possono aver ragione quando pensano che il "riflusso a destra" dell'opinione pubblica si risolverebbe a loro vantaggio. Che tuttavia il parziale rafforzamento di singole formazioni anticomuniste riesca ad impedire l'apertura al PCI è una cosa tutta da dimostrare.

    Tutto dipenderebbe, infatti, dal modo in cui verrebbe impostata la campagna elettorale. L'elettorato italiano è lento di riflessi. Per ottenere da un simile elettorato una risposta significativa sl dilemma "PCI o non PCI" sarebbe indispensabile proporre l'interrogativo in modo chiaro, quasi trasformando le elezioni in un referendum.

    In secondo luogo, bisognerebbe drammatizzare l'appello al popolo. Facendo leva, in egual misura, sulla ragione e sul sentimento. Ripetere in sostanza - con gli opportuni aggiornamenti - la campagna del 18 aprile 1948. Una simile impostazione non potrebbe essere decisa dal PSI e tanto meno dal PLI e dal MSI. Le formazioni minori non hanno né i mezzi né l'autorità per far salire la temperatura elettorale al giusto livello.

    Come nel 1948, soltanto i colossi potrebbero riuscirvi: la DC da una parte e il PCI dall'altra. Ma i comunisti, oggi, non hanno alcun interesse a scontrarsi alla morte con un partito e con un sistema ai quali cercano rispettivamente di allearsi e di integrarsi. I democristiani, a loro volta, non dispongono più della compattezza necessaria per dare battaglia aperta al PCI. E non potrebbero ricostruire in pochi mesi un fascio di forze che nel corso di ventuno anni si è in gran parte liquefatto. La Chiesa ha cambiato faccia, e non scomunica più nessuno. Le associazioni cattoliche e le parrocchie sono in crisi. La radio e la televisione sono infiltrate da socialisti e comunisti. I candidati al Quirinale Vedrebbero in pericolo la loro elezione e farebbero la fronda. Le sinistre del partito agirebbero da quinta colonna a servizio dell'avversario.

    Nonostante questo è praticamente certo che un'alleanza DC - PSU - PRI potrebbe conquistare più che la maggioranza assoluta di voti. I democristiani nel 1968 hanno avuto il 39,1 per cento dei suffragi. Ai saragattiani si accredita un 7 - 8 per cento. I repubblicani hanno il 2 per cento e sono in ascesa. Questo 47 - 48 per cento complessivo potrebbe facilmente salire al 50 e oltre anche senza una campagna incandescente come quella del 1948: basterebbe un certo sforzo finanziario, un minimo di chiarezza e un'intelligente sfruttamento del clima di paura creato dalle scomposte agitazioni di piazza. La ricostruzione di un centro - sinistra non conservatore ma al tempo stesso "pulito" è dunque teoricamente possibile. O si tratta solo di fantasia? Indubbiamente, un ritorno alla situazione politica generale degli anni '50 è inimmaginabile. Non lo sopporterebbero i comunisti, i socialisti, i sindacati, il giovane clero. La vittoria elettorale potrebbe rivelarsi apparente, effimera, e portare con se il germe di una guerra civile? I fatti dimostrano che in Italia ormai non si scherza più.

    Sarebbe allora questione di volontà politica e di programmi. Un eventuale nuovo "centrosinistra pulito" dovrebbe fare i conti con la realtà, e prepararsi a fronteggiare in concreto la pressione delle sinistre, che sarebbe più aggressiva che mai. La legalità repubblicana andrebbe difesa con durezza, ma soprattutto dando la dimostrazione che tutte le riforme possono essere fatte senza pagare un presso al comunismo. I nostri modelli dovrebbero fermamente rimanere la Gran Bretagna, la Germania, la Scandinavia, la Francia.

    Se tutto questo è semplicemente una fantasia, se tutto questo è im possibile, hanno automaticamente ragione quelli che non vogliono nuove elezioni. Quelli che dicono che esse si svolgerebbero all'insegna di un tacito e concordato attendismo della DC e del PCI. I due colossi cercherebbero di rafforzarsi a danno dei partiti minori: questo comporterebbe l'automatico loro avvicinamento sul piano delle intese di governo. L'avvicinamento è già in atto da oggi e l'apertura al PCI sembra decisa, con tutti i rischi che comporta. Per cui hanno ragione gli stessi deputati, quando dicono che tornare alle elezioni sarebbe fatica superflua.

    COLPO DI STATO: E' POSSIBILE?

    Da qualunque parte lo si affronti, il pasticcio sembra insolubile. L'Italia è senza dubbio a una svolta della sua storia. Il tono perentorio dei sindacati e del PCI la debolezza dei pubblici poteri, l'attendismo della Democrazia Cristiana, lo scarso peso degli altri partiti, la stanchezza della gente e il ricorso quasi abituale della violenza di piazza fanno temere che la situazione possa sfuggire al controllo di chiunque. In questo clima, milioni di cittadini sono automaticamente portati ad invocare un ritorno all'ordine. Altri pensano che l'apertura al comunismo debba essere impedita comunque, anche facendo appello all'iniziativa illegale e arbitraria degli ormai classici "colonnelli".

    Il 7 dicembre, alcuni giornali inglesi (Guardian e Observer) pubblicano sensazionali rivelazioni su un presunto complotto "di destra" che sarebbe in corso di organizzazione in Italia con l'appoggio -nientemeno!- dei colonnelli greci. La notizia riceve ampie smentite da Atene e da Roma: tuttavia, come è logico, l'estrema sinistra se ne impadronisce. Le informazioni che noi abbiamo( chi le ha fornite queste informazioni? che rapporti ci sono tra questo giornale e l'area dell'eversione nera?,ndr) ci portano ad escludere che in seno alle gerarchie militari stia prendendo corpo la tentazione di un intervento nella sfera politica.



    Se tuttavia la classe politica non riuscisse a risolvere il problema dei rapporti del PCI con lo Stato, se la confusione diventasse drammatica, e se -nell'ipotesi di nuove elezioni- la sinistra non accettasse il risultato delle urne, le Forze Armate potrebbero essere chiamate a ristabilire immediatamente la legalità repubblicana. Questo non sarebbe un colpo di Stato ma un atto di volontà politica a tutela della libertà e della democrazia. Così, dopo averli a lungo onorati del nostro disinteresse più completo, potremmo trovarci di colpo a dovere della gratitudine ai militari. Esiste un dramma segreto delle Forze Armate, che si sentono estranee e avulse dalla vita del Paese. Una classe politica che da venticinque anni confonde i militari col militarismo ha fatto tutto ciò che poteva per chiudere le Forze Armate in un ghetto. Vita difficile, dunque, per gli uomini in divisa. Così, specie nei gradi bassi e medi, gli ufficiali vivono con stipendi di fame e svolgono un lavoro che riserva più amarezze che soddisfazioni. Nonostante questo, nelle Forze Armate regna una disciplina esemplare e ammirevole.

    Forse è esatto dire che l'unico tentativo di sovversione, quindi, viene da sinistra. Tuttavia il ristabilimento manu militari della legalità repubblicana, possibile in una mezza giornata, potrebbe non essere sufficiente. La situazione generale è terribilmente intricata. Chi stabilisce il limite delle ambizioni personali e avverte l'opinione pubblica delle pericolosità di certe manovre? Come si può garantire un minimo di stabilità al potere esecutivo? La pazienza di Moro? L'attivismo di Fanfani? Ma è saggio affidare tutto ciò che abbiamo all'abilità e alla fortuna di pochi individui?

    Sono interrogativi che dovrebbero pesare come piombo sulla coscienza di chi ci governa. E può darsi che di fatto pesino. E che aprano la strada ad un esame di coscienza un tantino più profondo. Questa Repubblica, così com'è, funziona ancora? La confusione che stiamo vivendo non sarà dovuta al fatto che le sue istituzioni sono ormai insufficienti e superate?

    Perché i costituenti crearono l'articolo 138, che prevede la possibilità di riformare la carta fondamentale della Repubblica? Chi ci impedisce di utilizzare l'articolo 138 per correggere i difetti ormai evidenti delle nostre istituzioni? Perché non possiamo imparare qualcosa dalle grandi democrazie dell'Occidente? Perché non ci poniamo seriamente il problema della Repubblica presidenziale, l'unicaca pace di dare forza e stabilità al potere esecutivo? Vi sono giorni in cui la storia impone riflessioni di questo tipo. Forse questi giorni sono venuti. Questi giorni, forse, noi li stiamo già vivendo.
    ARAK

 

 

Discussioni Simili

  1. Risposte: 1
    Ultimo Messaggio: 05-06-08, 18:14
  2. 12 Dicembre: Il Segreto della Repubblica
    Di Muntzer (POL) nel forum Comunismo e Comunità
    Risposte: 1
    Ultimo Messaggio: 12-12-07, 19:44
  3. Il Segreto Della Repubblica
    Di T. Muntzer nel forum Comunismo e Comunità
    Risposte: 0
    Ultimo Messaggio: 07-08-05, 21:02
  4. Il Segreto Della Repubblica
    Di T. Muntzer nel forum Comunismo e Comunità
    Risposte: 0
    Ultimo Messaggio: 20-07-05, 21:23
  5. Il Segreto Della Repubblica
    Di araknerosso nel forum Comunismo e Comunità
    Risposte: 0
    Ultimo Messaggio: 21-06-05, 09:27

Permessi di Scrittura

  • Tu non puoi inviare nuove discussioni
  • Tu non puoi inviare risposte
  • Tu non puoi inviare allegati
  • Tu non puoi modificare i tuoi messaggi
  •  
[Rilevato AdBlock]

Per accedere ai contenuti di questo Forum con AdBlock attivato
devi registrarti gratuitamente ed eseguire il login al Forum.

Per registrarti, disattiva temporaneamente l'AdBlock e dopo aver
fatto il login potrai riattivarlo senza problemi.

Se non ti interessa registrarti, puoi sempre accedere ai contenuti disattivando AdBlock per questo sito