RISCOPERTE
Scritto nel 1513 da due camaldolesi per auspicare una moralizzazione del clero, fu sottovalutato da Leone X. Ma avrebbe potuto prevenire Lutero

La Chiesa e il «libellus» dimenticato




Di Gianfranco Ravasi


Importanti sono le date. Quando l'aristocratico veneziano Paolo Giustiniani, divenuto camaldolese, d'intesa con l'amico e confratello Vincenzo Quirini, elabora e invia a papa Leone X appena eletto come successore di Giulio II il suo Libellus siamo nell'estate 1513. Ora, a tutti è noto che la data simbolica della Riforma protestante è il 31 ottobre 1517 con l'icona di Lutero che affigge le famose 95 tesi. Sono, quindi, intercorsi quattro anni: ebbene, se quel Libellus non si fosse perso nella tiepida accoglienza di un papa che pure aveva sollecitato tante speranze (si leggano le lodi dello stesso Lutero nella sua «Lettera a Leone X», premessa all'opuscolo Della libertà del cristiano) e se non si fosse alzato il muro di gomma curiale, la storia della cristianità avrebbe avuto forse un altro percorso.
Certo, coi "se" non si può fare se non fanta-storiografia. Tuttavia la lettura di quel testo, accompagnati per mano in ogni suo paragrafo da una straordinaria e sontuosa (anche stilisticamente) esegesi di un grande filologo come Eugenio Massa, apre scenari così sorprendenti da trasportarci in molti casi oltre la stessa Riforma, fino ai giorni del Vaticano II. Proviamo un po' a elencare, sia pure sbrigativamente, alcune delle proposte di quel Libellus che nel saggio di Massa sono sempre correlate al fondale dal quale sbocciano e col quale si confrontano e spesso si scontrano. Si comincia, nientemeno che con una predicazione appassionata della pace, con un'evidente dissonanza dalla figura del papa guerriero Giulio II appena sepolto. Ma si può parlare di pace autentica solo se si strappano le radici maligne della «libidine del potere e dell'ingiusta rapina». È, allora, necessario progettare un nuovo ordine sociale che intrecci libertà e giustizia e che si affidi a una rigorosa e certa riforma del diritto, fattore indispensabile di progresso civile e religioso.
Ecco, poi, il capitolo della cultura e, più in generale, de ll'educazione contro un'ignoranza imperante e un accademismo frigido, arrogante e infecondo. L'analfabetismo religioso, che dilaga tra gli stessi uomini di Chiesa, non può essere curato con "placebo" ma con terapie d'urto. È indispensabile ritornare alla Bibbia, alla "philosophia Christi", alla teologia patristica. Il papa butti al vento i preconcetti sull'intangibilità del latino, liberi la Parola di Dio dalle bende dell'incomprensibilità popolare e la faccia parlare in volgare, proprio come era stato fatto da s. Girolamo rispetto all'ebraico e al greco, le lingue sacre originarie. Tra l'altro, si raccomanda non un toscano nobile letterario ma "un volgare comune a tutta l'Italia". Bisogna avere il coraggio di operare un "repulisti" catartico sul culto dei santi, riti, santuari, su «tavolette dipinte di santi venerate con maggior onore e riverenza dello stesso sacratissimo corpo di nostro Signore Gesù Cristo». Si delinea, così, una vera e propria riforma liturgica e spirituale.
Si passa per questa via alla vita morale del credente. Da un lato, il Giustiniani punta a un'etica ecclesiale rinnovata contro le degenerazioni e le ipocrisie anche del clero per una conversione interiore. D'altro lato, segnala le condizioni aspre in cui molti fedeli vengono a trovarsi: la degenerazione e il degrado sociale causano un declino morale che non può essere sbrigativamente bollato ma sanato in radice (curiosa è anche la nota sulle "cortigiane"). Ma per operare questa liberazione profonda della società si deve puntare alla riforma e alla rifondazione degli ordini religiosi e dello stesso clero, a partire dai vescovi. Giustiniani e Quirini si erano già battuti con Giulio II nel 1512 per un capitolo generale dei Camaldolesi, dedicato alla riforma dell'ordine. Ora la loro voce si allarga a tutto il mondo ecclesiastico che spesso si distingue per ricchezza e avarizia, per una superficiale cura pastorale, per miseria morale, per invenzione di miracoli e di rituali a fini di lucro e cos ì via.
La revisione delle regole dei religiosi e dei loro statuti, l'unificazione di ordini affini, la formazione culturale e spirituale seria, una catechesi e un impegno pastorale rigoroso sono gli antidoti suggeriti perché "sarebbe davvero disonesto e vergognoso chiamare alla cura delle anime inferme uno che non conosce l'arte di curarle". E su tutti sono i vescovi che devono mutare stile di vita passando dalla figura di mercenari "rapacissimi" a pastori, pena la loro destituzione.
Una serie di considerazioni molto interessanti riguarda l'incubo dell'ondata turca che, a partire dal 1453 con la presa di Costantinopoli, avanza e che suppone da parte della cristianità un piano di reazione strategico non affidato solo al binomio semplificatorio "conversione o sterminio", "battesimo o morte" che pure è sostenuto e praticato in quel contesto storico. Ecco, allora, il tema della missionarietà e dell'evangelizzazione che si estende alle nuove Indie appena scoperte, ossia l'America, senza perdere di vista l'Asia e l'Africa.
Queste e altre proposte fanno comprendere in modo inequivocabile come il Libellus di Paolo Giustiniani fosse un testo profetico e "utopico" nel senso più alto del termine e anche come fosse dirompente per quel contesto storico-ecclesiale: comunque sia, l'essere rimasto solo un documento protocollato nella cancelleria curiale forse fece sì che quattro anni dopo ci fosse quel famoso 31 ottobre 1517.

Eugenio Massa
Una cristianità all'alba del Rinascimento
Marietti 1820. Pagine 446. Euro 38,00

Avvenire - 25 giugno 2005