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    Post "Cento piste, nessun aeroporto mondiale"

    Un articolo dal Corriere economia di oggi che ho già postato in un altro thread, ma è bene evidenziare con una discussione dedicata.

    Ne consiglio a tutti la lettura perché, nonostante un paio di sviste, è un'indagine sorprendentemente seria e precisa rispetto alla media di quelle prodotte dalla stampa italiana.


    Cento piste, nessun aeroporto mondiale

    All'indomani del via libera della Commissione Ue all'aumento di capitale di Alitalia e alla vigilia del Consiglio comunale di Milano sulla parziale privatizzazione della Sea; l'Italia dei monopoli rimane uno strano Paese, dove lo Stato talvolta riesce a compiere capolavori di autolesionismo. Nel corso degli anni, i governi hanno trasformato la liberalizzazione dei cieli, avviata dall'Unione Europea, in un'occasione per indebolire il sistema Paese a spese dell'erario. La mano pubblica ha finanziato e protetto la fioritura di un aeroporto per campanile e questi 110 scali fanno ponti d'oro, anche in violazione della sentenza di Charleroi che obbliga alla par condicio, alle compagnie aeree low cost che mettono in ginocchio l' Alitalia. Il medesimo Stato, incapace di resistere al sindacalismo corporativo e alle tentazioni elettoralistiche sulla piazza romana, ha impedito, e tuttora rende difficile, la ristrutturazione della compagnia di bandiera, prima azienda della Capitale. Ma, al dunque, ripiana le perdite a piè di lista. E sostiene pure (vedi il salvataggio di Volare) le compagnie private che tentano l'avventura senza capitali ne management adeguati. Alitalia ha ottenuto l'autorizzazione ad aumentare il capitale, evitando così il fallimento, perché le banche, nella speranza di altre compensazioni, sottoscriveranno parte dell'emissione azionaria, rendendo con ciò vana la denuncia di aiuti di Stato da parte dei concorrenti. Accusa peraltro pelosa quando viene da compagnie europee che hanno avuto anch'esse le loro brave spintarelle: dalla sistemazione del buco del fondo pensioni di Lufthansa, propedeutica alla privatizzazione, alla possibilità di crescere per concentrazione sul mercato domestico concessa agli scandinavi o all'estensione della cosiddetta continuità territoriale, che consente rilevanti integrazioni tariffarie a carico del bilancio pubblico, sui collegamenti Air France con i territori d'Oltremare e le ex colonie. E tuttavia accusa non priva di verità, se si paragonano i risultati della compagnia di bandiera italiana con quelli delle rivali. Si dirà: almeno voliamo più a buon mercato. Ed è vero. Tra il 1995 e il 2002, secondo uno studio di Dresdner Kleinwort Wassertsein, l'incasso medio delle compagnie aeree per passeggero trasportato si è ridotto del 60% su scala mondiale. Ma in Italia il vantaggio del viaggiatore viene pagato in parte dalla fiscalità generale e in parte, per il modo in cui questo vantaggio si determina, ha come contropartita un danno, o mancato guadagno, per il sistema economico. Il fatto che la permanenza media dei turisti intercontinentali a Francoforte sia di 4 giorni contro i 2,5 di Roma, con tutto quel che ne consegue, dipende più dalla posizione dell' hub aeroportuale e della compagnia di bandiera nel reticolo dei trasporti che non dalla capacità attrattiva della città. Non è sempre stato così. Nel 1967 , quando si presentò ai mercati finanziari, Alitalia era il settimo vettore al mondo e la quarta compagnia europea, dopo Lufthansa, Klm e Swissair , ad andare in Borsa. Ma nel 1973 era chiaro dove si andava a parare. Già allora Mediobanca, che pure aveva curato il collocamento di Alitalia, metteva in guardia gli investitori con un rapporto il cui finale era stato scritto personalmente da Enrico Cuccia. Il banchiere condizionava le buone prospettive della società al rigore manageriale: «Un programma che mirasse a trasferire sui contributi pubblici le perdite di gestione resa inefficiente da considerazioni extra-economiche -avvertiva Cuccia- creerebbe un problema al normale svolgimento delle attività sui mercati, che penalizzano le aziende "sussidiate" e porrebbe insolubili problemi alla remunerazione delle azioni collocate nel pubblico». La storia dei 32 anni successivi conferma quanto il pericolo avvistato da Cuccia fosse reale. Ma tutto precipita solo quando alla cattiva gestione della compagnia di bandiera si aggiungono gli effetti della liberalizzazione scriteriata di un settore che si fondava su due monopoli pubblici: la riserva del traffico nazionale al vettore nazionale e il monopolio naturale degli scali. Il vecchio sistema, in verità, non era privo di una sua logica. L'esosità del biglietto Alitalia per la tratta Roma-Milano aveva il compito di creare una riserva per far fronte alle perdite di altre rotte. La distruzione di valore, che calcoliamo nel riquadro, tuttavia, ci dice quanto poco virtuoso sia stato l'uso delle riserve da monopolio. E quanto giustificate fossero le ragioni della liberalizzazione. Ma, se volare da Londra a New York con British Airways costa in tariffa base dal 42 al 50% in più rispetto al collegamento Alitalia da Malpensa, allora nella liberalizzazione all'italiana c'e qualcosa che non torna: Alitalia, infatti, perde quel che perde. Il fatto è che il Regno Unito liberale ha trovato il modi di sostenere la compagnia nazionale, peraltro privatizzata, creando un ambiente favorevole: ripartendo i compiti tra gli scali londinesi e governando la cessione degli slot (i collegamenti con gli Usa, per esempio, sempre trattati su base bilaterale: 2 vettori inglesi e 2 americani). L 'Italia statalista, invece, ha aderito all'accordo Open Sky nel 1996 a maggior gloria degli aeroporti e a scapito della compagnia, mal gestita e in concorrenza. E così Alitalia è la compagnia dell'Europa continentale che più ha ridotto il lavoro domestico. Con la liberalizzazione, la filiera del trasporto aereo è cambiata. Ma le posizioni dominanti non sono scomparse. I costruttori di aerei si sono ridotti a due, Boeing e Airbus, e non a caso hanno il miglior ritorno netto sul capitale investito: l'8%. Il 45% del leasing degli aeromobili è in mano a Gecas e Iflc. Gli stessi servizi di handling, esempio della liberalizzazione, sono affidati a non più di tre aziende per scalo e le compagnie faticano a ripagare il mero costo del capitale. In compenso, gli aeroporti, pur avendo un ritorno basso a causa dell’importo investito strutturalmente elevato, hanno il maggior margine sul fatturato, pari al 26%. La tranquillizzante prospettiva di un'ampia quota di ricavi in monopolio, il cui margine non viene rivelato nei bilanci ma soltanto all'Enac, l'Autorità di settore, ha incoraggiato la corsa all'aeroporto. L'Italia ne ha 110 contro i 55 della Spagna. Sono stati costruiti dagli enti locali, talvolta sostenuti dai poteri economici della provincia italiana, per ragioni di prestigio politico, disegni speculativi sulle aree circostanti, obiettivi finanziari legati alla quotazione in Borsa e motivi economici derivanti dalle ricadute sul territorio. Secondo Roberto Zucchetti e Oliviero Baccelli del Certet-Bocconi, nel 1999 la Aeroporti di Roma aveva attivato direttamente spese per 7 ,5 miliardi di euro, dei quali 5 fuori dagli scali, e ne aveva mosse altre, indirette, per quasi 9. E aveva attivato lavoro per 91 mila persone direttamente e per altre 115 mila indirettamente. Ma aggiunge Lanfranco Senn, presidente del Certet-Bocconi: «Negli aeroporti, piccolo non è bello». E la Roland Berger, consulente del governo, conferma: in aeroporti come Linate e Barcellona, ogni milione di passeggeri dà lavoro a 350-750 persone; in scali più grandi come Malpensa, Fiumicino, Zurigo o Monaco a 750-1.100; negli hub di successo come Londra Heathrow, Charles De Gaulle, Amsterdam a 1.100-1.500. Per queste ragioni, e ancor più pensando al traino che gli hub fanno alle compagnie di bandiera francese, inglese e tedesca, Giancarlo Cimoli, manager di estrazione industriale chiamato a risanare Alitalia, osserva amaro: «Siamo un Paese con cento piste e nessun aeroporto». Ma ricostruire la filiera implica scelte difficili sia per Alitalia che per le due maggiori società aeroportuali italiane. Scelte che vanno al di là delle querelles, pur rilevanti, sul costo e l’efficienza dei servizi aeroportuali. Certo, le società aeroportuali lamentano la rigidità delle tariffe. Piergio Romiti, consigliere di Adr, vorrebbe poterle rimodulare in base al fatturato apportato. Roland Berger, poi, le valuta del 20-40% inferiori alla media europea e Giuseppe Bencini, presidente di Sea, stima in 65 milioni di euro i ricavi aggiuntivi da adeguamento. Certo, le compagnie contestano un'efficienza non meno bassa degli scali. E Roland Berger ne colloca tre italiani tra 10 i meno capaci d'Europa. Ma è la radice romana di Alitalia a impedire il pieno utilizzo delle opportunità offerte da Malpensa, anche se Cimoli sta cercando di trasferire al Nord il trasferibile senza troppi scontri sindacali. E sono Malpensa, Linate e Fiumicino a formare il triangolo delle Bermude dove scompaiono i sogni di razionalizzazione del trasporto aereo italiano: Milano contro Roma, e Milano schizofrenicamente divisa tra un city airport, che in realtà fa da piattaforma alle compagnie estere, e un hub mal collegato con il suo bacino d'utenza. Come ricorda Lanfranco Senn, l'unica integrazione possibile passa attraverso la suddivisione del lavoro tra gli aeroporti. Ma questa, difficile in assoluto in un Paese senza una forte autorità centrale, è resa ancor più improbabile dalla privatizzazione degli scali (totale a Roma e Napoli, parziale a Venezia, Torino, Firenze e, presto, Milano) che aggiunge agli interessi elettorali dei politici quelli finanziari degli investitori. I quali hanno fatto i loro conti sul profittevole esistente. Non è forse un caso se, ormai, il presidente dell'Enac, Vito Riggio, conclude: «possiamo vivere bene anche senza hub, ma con due aeroporti internazionali». Realpolitik o rassegnazione a un declino?

    Massimo Mucchetti

  2. #2
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    Predefinito Re: "Cento piste, nessun aeroporto mondiale"

    In Origine postato da Boeing747
    E sono Malpensa, Linate e Fiumicino a formare il triangolo delle Bermude dove scompaiono i sogni di razionalizzazione del trasporto aereo italiano: Milano contro Roma, e Milano schizofrenicamente divisa tra un city airport, che in realtà fa da piattaforma alle compagnie estere, e un hub mal collegato con il suo bacino d'utenza. Come ricorda Lanfranco Senn, l'unica integrazione possibile passa attraverso la suddivisione del lavoro tra gli aeroporti. Ma questa, difficile in assoluto in un Paese senza una forte autorità centrale, è resa ancor più improbabile dalla privatizzazione degli scali (totale a Roma e Napoli, parziale a Venezia, Torino, Firenze e, presto, Milano) che aggiunge agli interessi elettorali dei politici quelli finanziari degli investitori. I quali hanno fatto i loro conti sul profittevole esistente. Non è forse un caso se, ormai, il presidente dell'Enac, Vito Riggio, conclude: «possiamo vivere bene anche senza hub, ma con due aeroporti internazionali». Realpolitik o rassegnazione a un declino?
    Onore al giornalista che ha riassunto in queste 15 righe uno dei nodi cruciali del sistema trasportistico (aeronautico, s'intende).

    Grazie per averlo postato, il Corriere mi arriva a casa sempre la sera tardi e spesso leggendolo di fretta mi perdo molte cose interessanti come questa.

    DaV
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  3. #3
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    Predefinito Re: "Cento piste, nessun aeroporto mondiale"

    In Origine postato da Boeing747
    Vito Riggio, conclude: «possiamo vivere bene anche senza hub, ma con due aeroporti internazionali».
    Noi, inteso come noi cha abbiamo la forchetta in mano?

    Noi, nel senso noi Italiani, no certamente.

 

 

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