Serbia, trincea scomoda dell’autonomia europea
di Gianluca Savoini
Serbia, trincea d’Europa? Non è una provocazione, ma è quanto emerso ieri pomeriggio nell’affollato convegno, svoltosi all’Hotel Cavalieri di Milano, che ha trattato della questione Serba, un anno dopo la guerra scatenata dalla Nato e voluta soprattutto dagli Stati Uniti. Organizzato dalle Associazioni Culturali “Rosso e Nero” è “Sinergie Europee”, il convegno ha visto gli interventi di numerosi oratori, provenienti dalle più disparate esperienze politiche e culturali: fra gli altri si sono alternati al microfono il professor Dragos Kalajc, già senatore serbo e fondatore dell’Istituto di Geopolitica di Belgrado, Tomaso Staiti di Cuddia, ex parlamentare missino, lo studioso di Geopolitica Carlo Terracciano, lo scrittore francese Yves Bataille, il responsabile belga del partito comunitarista nazionale Luc Michèle. Carlo Terracciano ha evidenziato l’ipocrisia di fondo che ha contraddistinto le cronache giornalistiche degli inviati europei in Serbia durante la guerra. «Ci hanno sempre detto che le bombe su Belgrado e sui civili serbi non erano un’azione di guerra - ha spiegato Terracciano - ma un’azione “umanitaria”. Naturalmente questo concetto è stato inventato dai fautori del “Nuovo ordine mondiale”, cioè gli Stati Uniti». Il governo americano, ha precisato lo studioso di Geopolitica è ormai al tempo stesso “poliziotto, giudice e carceriere internazionale”. «Sulla Serbia sono piovute le bombe vere, sull’opinione pubblica europea le bombe dei mass media - ha sottolineato Terracciano -. Da decenni l’Europa è colonizzata culturalmente dal modello americano che ha sfornato la dicotomia buono/cattivo: dove i “buoni” sono sempre e solo gli americani, e i “cattivi ” tutti gli altri: via via i pellerossa, i tedeschi, i russi, gli iraniani, gli irakeni, gli extraterrestri. L’esempio serbo comunque è servito - ha concluso - per dimostrare a tutti che si può resistere al mondialismo. La Serbia non è solo una trincea d’Europa, ma una speranza per l’Europa». Tomaso Staiti ha polemizzato con i mass media che hanno gettato in pasto agli europei gravi falsità sul numero delle vittime della cosiddetta “pulizia etnica” contro i Kosovari, che è diventata il pretesto utilizzato dalla Nato per attaccare Belgrado. «Prima e durante la guerra si parlava di centinaia di migliaia di vittime tra i Kosovari - ha ricordato Staiti -, adesso alcune fonti serie, citate anche dai giornali inglesi, parlano di 2.018 vittime!». L’ex deputato ha invitato tutti gli uomini liberi e i gruppi politici antagonisti al mondialismo a reagire con una forte opposizione culturale al disegno di governo unico mondiale. Molto applauditi gli interventi degli ospiti stranieri Michèle e Bataille, e in particolare quello di Kalajc. «In Serbia noi difendiamo non solo la nostra patria, ma anche l’Europa dall’assalto americano e dei loro alleati islamici - ha detto Kalajc -. Vogliono farci dimenticare la nostra storia, le battaglie, da quella del Kosovo a quella di Lepanto, combattute in difesa della nostra civiltà cristiana». Per Kalajc gli accordi di Rambouillet non sarebbe stati decisi nemmeno da Hitler. «Il Terzo Reich ha bombardato Belgrado per 6 ore, la Nato per 70 giorni - ha evidenziato il professore Serbo - per altro modificando lo statuto dell’Alleanza atlantica da difensiva ad offensiva, solo per compiacere i desideri delle lobbies mondialiste». Un genocidio pianificato contro i serbi: così lo ha definito Kalajc «ma è un odio non solo contro di noi ma contro tutti gli europei e i cristiani. Perché quando Giovanni Paolo II chiese a Clinton di sospendere i bombardamenti almeno nel giorno di Pasqua, il presidente Usa non gli ha nemmeno risposto. Questa gente non può imporre la propria legge in Europa e nel resto del mondo». Un convegno sicuramente “schierato”, quello di ieri. Ma per mesi e mesi, prima, durante e dopo la guerra, l’“interpretazione” della vicenda del Kosovo è stata, sui grandi ordini di informazioni a senso unico “filo Uck” e lastricata di notizie fasulle o inesatte. E, guarda caso, la recente ammissione del Ministro della Difesa americano William Cohen («in Kosovo siamo andati per motivi strategici, non per questioni umanitarie») non ha sollevato alcun dibattito, né (visto che vanno tanto di moda), alcun “mea culpa” da parte di chi ha sostenuto l’inutile e sanguinosa aggressione contro Belgrado.