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    Predefinito Le lacrime di Gaza, di Davide Giacalone

    Le lacrime di Gaza

    Le lacrime degli ebrei bagnano Gaza. Non si può non piangere, dice lo stesso Sharon, che invita i rivoltosi a prendersela con lui, non con i soldati. Ma la resistenza allo sgombero, in fondo, è poca cosa rispetto al dolore che provoca. Qui c’è gente che ha coltivato la sabbia ed i sassi, che ha costruito una propria vita difendendosi dai continui attacchi terroristici, portati da quei palestinesi che oggi festeggiano per il ritiro. Fra gli israeliani ci sono degli estremisti (come fra tutti ed ovunque) che danno fuoco ai cassonetti, alle case che si lasciano, una ha dato fuoco a se stessa.



    Il peggiore ha ucciso tre palestinesi, ed in Israele, per questo, sarà condannato e sconterà una pena senza fine. Ma, nell’insieme, è gente che si butta al collo dei soldati per piangere, per convincerli a non obbedire ed a difenderli, anziché trascinarli via. E piangono, talora, anche i soldati, senza, però, venir meno agli ordini. E’ dolore puro quello provocato dalla giusta decisione di lasciare Gaza.
    Una decisione giusta perché in questa si conficca un paletto cui attaccare le speranze di pace. La speranza che due popoli convivano, due Stati confinino, senza avere ragione propria di fare la guerra. Se questo paletto venisse ignorato, se, addirittura, come dicono i terroristi di Hamas: la guerra continua, gli attacchi non cesseranno perché la lotta contro i sionisti è sacra, allora si metta nel conto che la reazione d’Israele sarà senza misura e senza pietà. Abu Mazen parli adesso, i palestinesi che non vogliono essere strumento di morte in mani altrui parlino adesso, o il frastuono delle armi coprirà ogni voce.
    Golda Meir lo disse all’egiziano Sadat, quando fra i due Paesi non s’era ancora costruita la pace (bella, duratura, che dimostra come Israele rinunci a grandi territori conquistati, pur di arrivare alla pace): noi potremo perdonarvi dell’avere ucciso i nostri figli, ma non perdoneremo mai l’averci costretto ad uccidere i vostri.

    Davide Giacalone
    www.davidegiacalone.it

    18 agosto 2005

    ....................................
    tratto da "Il Portale di Nuvola Rossa"
    http://www.nuvolarossa.org/modules/n...p?storyid=1298

  2. #22
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    Il conflitto tra Stato e Sinagoga e le nuove responsabilità dei palestinesi

    A pagina 1 del Corriere della Sera del 20 agosto 2005, Amos Oz firma un articolo dal titolo ...........

    " «Noi liberi dai coloni»




    I coloni ebrei di Gaza e Cisgiordania hanno un sogno per il futuro di Israele. Anch'io ne ho uno. Il loro dolce sogno, però è il mio incubo e i miei sogni, il loro veleno. I coloni sognano di creare una "Grande Israele" con insediamenti ebraici sparsi ovunque. In questi insediamenti potranno risiedere solo ebrei e ai palestinesi sarà consentito entrare solo per lavoro, per impieghi umili e sottopagati. In uno Stato simile, la democrazia dovrà inchinarsi ai rabbini. La Knesset, il governo, la Corte suprema potranno continuare a esistere a patto che i rabbini ne approvino le decisioni. I coloni credono che quando la Grande Israele sarà diventata un'entità religiosa e una "Nazione Santa", verrà il Messia e si compirà la completa redenzione del popolo ebraico.
    Nell'immaginazione dei coloni non c'è posto per i palestinesi, se non nel ruolo di servi umili e riconoscenti lavoratori. Nell'immaginazione dei coloni non c'è posto per me, non c'è posto per uno Stato di Israele laico e moderno. Chi mi è amico e io siamo "fuori", se non ci pentiamo. Almeno, ci si aspetta che non ci opporremo alla costruzione di nuovi insediamenti e all'espansione di quelli già esistenti. Se noi israeliani laici rinnegheremo noi stessi, i coloni ci inonderanno di amore fraterno. Se però ci ostineremo a sostenere una diversa idea di Israele, non saremo che traditori, amici degli arabi, nazisti.
    Anche noi, però abbiamo un sogno per Israele, del tutto diverso da quello dei coloni. Desideriamo vivere in pace e libertà non sotto il giogo dei rabbini,
    nè del Messia, chiediamo di essere guidati da un governo eletto.
    Sogniamo di essere liberi dalla lunga occupazione dei territori palestinesi. Per quasi quarant'anni Israele e Palestina sono stati il carceriere e il prigioniero, ammanettati l'uno all'altro. In tanti anni quasi nulla è cambiato - il carceriere non è libero, nè lo èil prigioniero. Israele sarà una nazione libera solo quando l'occupazione e la politica degli insediamenti saranno concluse e la Palestina, un Paese confinante.
    Per trent'anni i coloni hanno controllato Israele attraverso governi diversi. Hanno inseguito i loro sogni e calpestato i nostri. Sono stati i padroni del Paese. In questi giorni il primo ministro Ariel Sharon tenta una sorta di putsch a danno della supremazia dei coloni. Un tentativo di ripristinare l'autorità del governo eletto. Se il tentativo andasse a buon fine, il sogno dei coloni potrebbe risentirne e quello degli israeliani laici potrebbe sorgere a nuova vita.
    La battaglia di Gaza non è una battaglia tra l'sercito e i coloni, nè tra falchi e colombe. No, è una battaglia tra Chiesa e Stato (per essere piùprecisi, tra Sinagoga e Stato). Molte nazioni hanno dovuto affrontare la questione: quali dovrebbero essere ruolo e peso di religione e clero nella guida di un Paese? Alcuni Stati hanno trovato la soluzione secoli fa. Altri non hanno mai smesso di cercarla. I Paesi musulmani, ad eccezione della Turchia, non hanno neanche iniziato.
    In questi ultimi giorni a Gaza abbiamo assistito a quella che un domani, a posteriori, potrebbe apparirci la prima battaglia tra Sinagoga e Stato nella storia di Israele, la prima occasione di fare chiarezza sul significato dellìebraicità dell'unico Stato Ebraico. Siamo, prima e soprattutto, una religione o una nazione?
    In questa prima fase sembra che la componente laica, razionale, pragmatica di Israele stia dolorosamente prevalendo su quella impregnata di fanatismo. Non dimentichiamo, però che si tratta solo di una prima tappa.
    Tanto i coloni quanto noi altri israeliani possiamo essere orgogliosi del fatto che, a differenza dei sanguinosi conflitti tra Chiesa e Stato sorti nel corso della storia in tanti Paesi, questa prima fase a Gaza sia stata sì violenta ma non sanguinosa. Tanto rumore e strepito ma nessun massacro. Sarà così anche nelle prossime fasi? Sarà così anche quando verrà il tempo di rinunciare alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est in cambio della pace con i palestinesi? La risposta non dipende solo dagli israeliani, religiosi e laici, falchi e colombe, destra e sinistra. Molto dipende dai palestinesi. La Palestina considererà questo un coraggioso passo compiuto da Israele verso un compromesso storico con i palestinesi? Ricambieranno con passi altrettanto coraggiosi nei confronti dei loro fanatici? Oppure considereranno gli scontri tra ebrei il primo sintomo del processo di disintegrazione di Israele e tenteranno di peggiorare la situazione interna israeliana inasprendo violenza e terrorismo palestinesi?
    Un vecchio proverbio arabo dice: non si applaude con una mano sola. Molto ora dipende dal modo in cui i palestinesi interpreteranno la battaglia tra ebrei a Gaza.
    "

    A parte che il mondo religioso ebraico è assai diversificato (vi sono anche gli antisionisti ortodossi) e non è saggio unificarlo dall'esterno, l'articolo mette in evidenza alcuni problemi reali.

    Shalom

  3. #23
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    Disimpegno: la democrazia israeliana ha superato la prova

    A pagina 8 del quotidiano torinese La Stampa del 05 settembre 2005, Abraham B. Yehoshua firma un articolo dal titolo.........


    " «Se degli ebrei chiamano nazisti altri ebrei»


    I lettori de «La Stampa» sanno che non ho mai cercato di ignorare gli errori di Israele e non ho risparmiato critiche nei suoi confronti. Mi crederanno quindi se affermo che nei giorni difficili dello sgombero degli insediamenti della striscia di Gaza ho provato grande soddisfazione e mi sono sentito orgoglioso di essere israeliano. Noi tutti abbiamo temuto una guerra fratricida, scontri duri e deprecabili. Abbiamo paventato che venisse versato sangue e che evacuanti ed evacuati divenissero bersaglio di umiliazioni e offese. Ma tutto sommato lo sgombero si è concluso senza eccessiva violenza.
    Occorre ricordare che l'evacuazione degli insediamenti di Gush Katif è un evento senza precedenti e non è avvenuto a seguito di un accordo comprensivo, o parziale, con i palestinesi. Costoro non hanno promesso nulla. Si sono limitati a parlare di un cessate il fuoco durante l'evacuazione, null'altro. Noi israeliani non abbiamo alcuna garanzia che da un giorno all’altro non riprenda il lancio di missili verso le nostre città.
    Nonostante la Knesset abbia approvato la decisione del ritiro con una chiara maggioranza i sondaggi fra la popolazione hanno mostrato solo un consenso relativo, non certo assoluto. L'evacuazione di cittadini che vivono da anni nella striscia di Gaza non è avvenuta a seguito di una sconfitta bellica. Dal punto di vista militare lo stato ebraico avrebbe potuto mantenere ancora per molto tempo il controllo su quella zona. Certo, questo avrebbe comportato un prezzo in termini di vite umane, ma non comunque tale da non poter essere tollerato dalla società israeliana. Eppure la nostra giovane democrazia ha vinto alla grande. Nello scontro fra i rappresentanti della legge e gli oppositori allo sgombero nessuno ha oltrepassato i limiti e la base di solidarietà nazionale si è mantenuta solida. I cittadini favorevoli al ritiro non si sono intromessi nella disputa e non hanno cercato di rinfocolare gli spiriti dando man forte all'esercito o alla polizia. Nonostante gran parte dei coloni della Cisgiordania si opponesse allo sgombero (e molti di loro si fossero trasferiti negli ultimi mesi nella striscia di Gaza e nel Nord della Samaria per rinsaldare la resistenza dei coloni locali) e avesse un chiaro interesse a creare un trauma nazionale per evitare un analogo, futuro sgombero dei loro insediamenti, si sono tuttavia limitati a una resistenza per lo più passiva. Un'altra cosa importante è che malgrado gli appelli di rabbini estremisti a soldati e poliziotti osservanti di rifiutarsi di eseguire gli ordini, la stragrande maggioranza di costoro ha obbedito ai propri superiori.
    L'atmosfera di intimità che si respira in Israele ha dato prova di sé. Il fatto che così tanti israeliani abbiano condiviso l'esperienza del servizio militare ha creato incontri interessanti e commoventi tra ufficiali a capo dell'operazione e loro ex sottoposti o tra ex commilitoni evacuati a forza dalle loro case.
    Questa vicenda di certo verrà analizzata in chiave religiosa e politica, sociologica e culturale ma vorrei qui evidenziare cinque punti particolarmente interessanti per un osservatore esterno.
    1) Innanzi tutto l'autocontrollo dimostrato dalle forze dell'ordine, autentico e non puramente strumentale. Lo slogan coniato per l'occasione «fermezza e sensibilità» è stato ben assimilato da soldati e poliziotti che hanno sopportato olimpicamente offese personali, la vista della bandiera israeliana lacerata da alcuni coloni e scene di sfruttamento emotivo di bambini, come quella in cui un padre ha teso la figlioletta di due anni a un poliziotto dicendo: «Prendila. Io non la voglio più». È da rimarcare in particolare l'imperturbabilità dei poliziotti, solitamente tenuti a reagire con fermezza a ogni affronto alla loro dignità. In questo caso hanno messo da parte il proprio onore in nome della causa.
    Anche il fatto che ufficiali dello stato maggiore dell'esercito fossero sempre presenti sul luogo e alcuni di loro abbiano partecipato personalmente allo sgombero, ha contribuito a creare un'atmosfera più distesa, così come il fatto che le donne siano state evacuate da soldatesse e agenti di polizia di sesso femminile. Una decisione che ha alleviato il trauma a entrambe le parti.
    2) La rabbia dei coloni si è rivolta verso una sola persona: Ariel Sharon. Quasi che il primo ministro avesse deciso da solo lo sgombero, senza il sostegno di chicchessia. Come se, in forza di un'assurda dittatura, fosse riuscito a ipnotizzare l'intera nazione e l'avesse costretta a seguire le sue direttive. I coloni non hanno fatto alcun tentativo di capire le ragioni militari ed economiche alla base di questa decisione. Di conseguenza, durante lo sgombero, non hanno nemmeno lanciato accuse contro la sinistra, come fanno di solito, o contro altri ministri favorevoli al ritiro. Ariel Sharon - definito in passato dagli estremisti di destra «Re d'Israele» - si è trasformato ai loro occhi in un demone solitario o, nel migliore dei casi, in un pazzo uscito completamente di senno; hanno teorizzato un baratro immaginario tra lui e il popolo, come se per anni numerosi esponenti politici non avessero ripetuto che un giorno saremmo stati costretti ad abbandonare la striscia di Gaza. Hanno considerato il premier non come uno statista che agisce in base a considerazioni concrete e a esigenze politiche ma come una sorta di re biblico, malvagio e folle.
    3) I portavoce del governo non hanno dato prova di particolare efficienza. Poiché la maggior parte dei politici e degli alti ufficiali dell'esercito favorevoli allo sgombero si erano in passato dichiarati contrari a tale eventualità (Sharon non era il solo, fino a due anni fa, a dichiarare che non vi era alcuna differenza tra Gush Katif e Tel Aviv) ecco che la maggior parte di loro non ha osato pronunciare pubblicamente la frase: «Ci siamo sbagliati, scusate, abbiamo commesso un errore e ora vogliamo correggerlo». La parola «errore» non è mai stata pronunciata. Lo sgombero è stato giustificato tirando il ballo la questione demografica, il costo del mantenimento del controllo sulla striscia di Gaza. Non è stata proferita nemmeno una parola sul torto morale subito dai palestinesi per l'occupazione delle loro terre e la creazione di insediamenti. Il ritiro, quindi, non si è trasformato in una sorta di catarsi purificatrice per la società israeliana (eccetto che per i sostenitori della sinistra) ma in un calcolo pratico, in una scommessa che forse sarà vinta o forse no.
    4) Un altro punto su cui vale la pena di soffermarsi è l'uso ripetuto e ossessivo di termini riferiti in maniera specifica all'Olocausto. «Nazisti» era un epiteto ricorrente per poliziotti e soldati. «Ci cacciano dalle nostre case come durante la Shoà», era una frase altrettanto popolare. Alcuni coloni si sono stampati un numero sul braccio e hanno appiccicato una stella gialla sul petto come i prigionieri dei campi di concentramento, e altro ancora.
    Tutto ciò costringe noi tutti, ma soprattutto il ministero dell'Istruzione, a farci un esame di coscienza. L'uso di una simile terminologia non è forse eccessivo? Come mai nella coscienza nazionale non si è creata una netta distinzione tra gli eventi della seconda guerra mondiale - episodi di ineffabile crudeltà - e i «soprusi» del presente? In questo caso, però, anche la sinistra è colpevole. Chi ha inveito contro i soldati di Zahal definendoli «nazisti» nella loro lotta contro i palestinesi o chi ha paragonato un arabo costretto a suonare il violino a un posto di blocco accanto a Nablus a un ebreo obbligato a fare la stessa cosa dinanzi alle vittime delle camere a gas, non si stupisca poi di essere il bersaglio di simili epiteti nel momento in cui partecipa allo sgombero di ebrei dalle loro case, anche se li trasferisce a soli dieci chilometri di distanza e garantisce loro un adeguato indennizzo per la costruzione di una nuova abitazione. Il ministero dell'Istruzione e l'intero sistema politico hanno l'obbligo di moderare l'uso di termini propri all'Olocausto sia nel dibattito politico interno che nei rapporti tra ebrei e gentili. I palestinesi non sono nazisti e non tutti gli antisemiti sono Hitler o Goebbels. Occorre porre un limite chiaro tra gli avvenimenti della Shoà e gli episodi di attualità politica.
    5) Un'ultima osservazione riguarda i rabbini. Malgrado molti di loro fossero a capo del movimento di resistenza allo sgombero, ci sono anche stati coloro che lo hanno appoggiato. Questo dimostra ancora una volta che la posizione politica dei religiosi non è unanime. Ognuno può intendere a piacere ciò che è scritto nella Bibbia e quindi faremmo meglio a moderare la veemenza e la fermezza con cui si vuole imporre una particolare interpretazione.
    Torno ora all'inizio dell'articolo. In fin dei conti sono molto orgoglioso del modo in cui la democrazia israeliana ha affrontato questo ritiro, un evento estremamente complesso. E sono anche orgoglioso del comportamento mantenuto dalla maggior parte degli israeliani di ambo le parti politiche. Siamo usciti rafforzati da questa difficile prova e con la speranza di proseguire il processo di pace. Adesso sta ai palestinesi rivelare le loro intenzioni. Vogliono la pace e la fine del terrorismo oppure intendono proseguire le violenze nei territori lasciati liberi dall'esercito e dagli insediamenti civili israeliani?
    "

    Shalom

  4. #24
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    ESERCITO ISRAELE VIA DA STRISCIA DI GAZA ENTRO LUNEDI'
    09/09/2005 - 075

    Gerusalemme, 9 set. (Ap) - Il ministro della difesa israeliano, Shaul Mofaz, ha detto che il ritiro dell'esercito dalla Striscia di Gaza sarà completato entro lunedì, tre giorni prima del previsto.

    Nel riportare la dichiarazione del ministro della Difesa la radio israeliana riferisce che oggi l'esercito dovrebbe demolire il suo ufficio di collegamento a Gaza e un ponte che conduce a un complesso di colonie.

    Mofaz ha detto che entro lunedì non ci sarà più alcun soldato israeliano nella Striscia e ciò significa che Israele intende ritirarsi anche dalla zona di confine con l'Egitto.

    L'unica cosa che può far rinviare il ritiro è la disputa sulla distruzione delle sinagoghe che sono ancora in piedi dopo l'evacuazione dei coloni ebrei, ha detto la radio. Il governo deciderà domenica se demolirle o no. Le case e gli altri edifici della comunità sono già stati quasi completamente demoliti.

    Proprio questa mattina intanto l'esercito israeliano ha subito chiarito il significato delle forti esplosioni avvertite nella zona di Sderot: nessuna bomba o razzo, è soltanto il lavoro di demolizione degli uffici di collegamento dell'esercito nella Striscia di Gaza. Poco prima, la radio israeliana aveva riferito che le due forti esplosioni erano state avvertite a Sderot, città israeliana al confine di Gaza, spesso bersaglio di razzi palestinesi.


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  5. #25
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    dal sinistro quotidiano LA REPUBBLICA del giorno dell'Epifania...


    "
    Le reazioni dei coloni; "Così viene punito chi tocca la terra d'Israele"


    La festa in una casa di coloni a Hebron

    GERUSALEMME - Se c'è chi piange e prega in Israele per la sorte del generale-premier, c'è chi invece festeggia l'aggravarsi delle sue condizioni. Ieri una ventina di estremisti ebrei di destra ha partecipato a Hebron, nel cuore della Cisgiordania occupata dove un insediamento di 400 coloni israeliani estremisti vive nel centro-città attorniato da 400 mila palestinesi, a una manifestazione di giubilo nell'apprendere delle condizioni di salute del premier. Sharon è l'obiettivo delle loro critiche e maledizioni dopo il ritiro da Gaza dello scorso agosto e l'evacuazione dei 7000 coloni che vi si erano installati. Sharon, che per anni aveva incarnato lo spirito dell'espansione delle colonie nei Territori occupati, dopo quel ritiro ne è diventato il bersaglio più colpito.
    Uno degli attivisti che ha organizzato la "festa" Itamar Ben-Gvir, ha brindato con gli amici a cui ha detto che il crollo fisico di Sharon "significa l'annullamento di misure draconiane che stavano per abbattersi sul popolo ebraico". "Il primo ministro - dice Ben-Gvir - stava progettando altri ritiri e l'espulsione degli ebrei da Hebron. Ancora una volta è stato dimostrato che chi tocca la Terra d'Israele viene colpito a sua volta". Evidente il riferimento alla possibilità espressa più volte da Sharon di limitare, però espandendole, la presenza delle colonie in Cisgiordania a solo cinque grandi blocchi, evacuando quelle meno popolose e significative per Israele.
    Nei giorni scorsi proprio i coloni di Hebron - che questa estate erano accorsi numerosi a dar man forte ai "fratelli" di Gaza per opporsi con la forza all'evacuazione - avevano dato vita a manifestazioni violente dopo aver appreso che dovranno presto sgomberare alcune case occupate illegalmente. "Questo è per noi il giorno del ringraziamento", dice con aria ispirata Ben-Gvir, "per celebrare l'annullamento dei decreti maligni e la fine dei problemi per il popolo d'Israele", ha aggiunto.
    Mentre questo manipolo di oltranzisti celebra la probabile morte politica di Ariel Sharon, la maggioranza della popolazione israeliana vive con angoscia queste ore drammatiche per il futuro d'Israele. Anche se l'organizzatore della festa ha parlato a titolo personale è altamente probabile che questa celebrazione sia stata organizzata da ciò che resta del movimento ultranazionalista israeliano Kach, messo fuorilegge nel 1994 dallo Stato israeliano per le sue posizioni razziste nei confronti della popolazione araba israeliana e palestinese
    . FABIO SCUTO

    (Repubblica, 6 gennaio 2006) "

    Shalom


    ma festeggiano anche i palestinesi, ovviamente:

    "Stupidamente la popolazione palestinese festeggia, i vertici dell'Anp sono preoccupati


    GERUSALEMME - C'è una grande inquietudine fra i dirigenti palestinesi dell'Anp per la salute del premier israeliano Sharon e per le possibili conseguenze di una sua uscita di scena, almeno dal punto di vista politico. Se da una parte danno mostra di "fair play", augurando al premier una pronta guarigione, la piazza palestinese reagisce in modo completamente diverso; canti, manifestazioni di gioia e dolci offerti per le strade di Gaza dove i gruppi estremisti islamici invocano a gran voce una sua rapida morte. La scomparsa di Sharon potrebbe significare la scomparsa di ogni ipotesi di trattativa, la dissoluzione del suo giovane partito Kadima nato proprio sull'ipotesi di portare avanti il negoziato con l'Anp. Una situazione che nella movimentata galassia palestinese gioverebbe solo ai nemici di ogni accordo con Israele.
    Ieri il presidente Abu Mazen ha telefonato all'ufficio del premier israeliano per manifestare la sua personale solidarietà ed esprimere i suoi "migliori auguri" per una pronta guarigione confermando che sta seguendo con grande preoccupazione le notizie sulle condizioni di salute di Ariel Sharon. Ma comunque, ha voluto ribadire, "quanto accade a Sharon interessa Israele prima di tutto e ha ripercussioni sulla regione, ma non causerà un ritardo nelle consultazioni palestinesi" previste per il prossimo 25 gennaio. Sulla stessa linea anche il contestato premier palestinese Abu Ala, che scritto una lettera al premier israeliano ad interim Ehud Olmert. "Gli israeliani lo rimpiangeranno, rimpiangeranno l'uomo e anche il suo decisionismo".
    Dichiarazioni misurate anche per non offrire troppo il fianco alle violente critiche dei gruppi islamici come Hamas, il movimento islamista che potrebbe vincere le prossime elezioni legislative palestinesi, che invece si rallegra della sorte del primo ministro, la cui malattia è un "intervento divino" volto a punire i "despoti". Il suo portavoce, Sami Abu Zuhri, sostiene che "la regione sarà un posto migliore senza Sharon. Il mondo sta per liberarsi di uno dei suoi peggiori leader".
    Non meno violenti i commenti della Jihad Islamica che ha espresso soddisfazione per il grave stato di salute di Sharon. "Deve andare all'inferno. Con o senza Sharon, la Jihad islamica è determinata a continuare la lotta armata fino a quando il popolo palestinese non otterrà i suoi legittimi diritti". "Certo non ci mancherà", dice il suo leader Khaled al-Batish, "Dio ne ha abbastanza di Sharon, il torturatore di Sabra e Shatila, e sta liberando il mondo da lui", ha aggiunto, facendo riferimento ai massacri dei palestinesi perpetrati nel 1982 nei campi profughi in Libano da formazioni cristiane filo-israeliane. Le stragi costarono a Sharon l'incarico di ministro della difesa quando nel 1983 fu riconosciuto responsabile delle violenze. "Dio è grande ed è capace di prendersi la vendetta su questo macellaio", manda a dire da Damasco Ahmed Jibril, leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina - Comando generale, una delle fazioni più contrarie alla linea negoziale dell'Anp.
    La piazza palestinese si lascia andare a manifestazioni di gioia. Alcuni giovani palestinesi scortati da un dirigente del movimento Fatah, Abdel Raouf Barbakh, hanno distribuito dei dolci nella striscia di Gaza. I ragazzi brandivano anche dei cartelli con su scritto: "Morte a Sharon, l'assassino dei bambini". Dello stesso avviso lo scrittore palestinese Ali Badwan, che non esita a definirlo "un dinosauro della destra israeliana" e il leader "più sanguinario" nei suoi rapporti con il popolo palestinese.
    Fin qui la propaganda, ancora più eclatante che mai, visto che la campagna elettorale palestinese per le elezioni del 25 gennaio è già iniziata. Ma i dirigenti dell'Anp più vicini ad Abu Mazen valutano diversamente gli ultimi drammatici avvenimenti. In molti, a patto di non essere citati, sostengono che solo un leader forte e popolare come Sharon, alla testa del suo nuovo partito Kadima poteva firmare un accordo di pace con i palestinesi dando prova di pragmatismo, come avvenuto la scorsa estate per il ritiro israeliano da Gaza - così sofferto da gran parte della società israeliana - dopo 38 anni di occupazione militare. "E' tutto diventato d'un tratto così incerto", ammette uno dei consiglieri più vicini al presidente palestinese, "non credo che ci sia niente da gioire, l'uomo che gli succederà potrebbe rivelarsi ancora più duro contro di noi, come del resto lo è stato Sharon negli anni Ottanta e Novanta".


    (FABIO SCUTO Repubblica 6 gennaio 2006) "

    Saluti liberali

  6. #26
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    " La sfida di Hebron

    Da un editoriale di Ha'aretz

    I disordini incontrollati di domenica ad opera di estremisti israeliani a Hebron (Cisgiordania) hanno fornito un’ulteriore, inutile dimostrazione di una realtà già ben nota: Hebron è di fatto fuori dal controllo del governo di Israele e dal governo della legge, è una enclave di teppismo che si avvale della difesa dalle Forze di Difesa israeliane, ma nel contempo si rifiuta di obbedire ai loro ordini. In diretta continuazione del tumulto che ha accompagnato il tentativo da parte della polizia, due settimane fa, di recapitare l’ordine di sgombero agli estremisti che si sono installati nella zona del mercato di Hebron – un incidente durante il quale agenti e soldati israeliani sono stati aggrediti e feriti da lanci di sassi e uova –, anche domenica gli estremisti hanno voluto mettere in chiaro a esercito e governo chi davvero detiene il controllo della zona. Sono state scagliate pietre, sono state attaccate case di residenti arabi, un’abitazione è stata data alle fiamme. Ma sono stati arrestati solo pochi delle centinaia di facinorosi.
    Sgomberare il mercato di Hebron dagli estremisti che l’hanno occupato è un impegno che il governo ha preso davanti all’Alta Corte di Giustizia israeliana. Questo è il momento in cui Ehud Olmert e il suo governo, per quanto provvisorio, devono sbarazzarsi delle contestazioni e mettere in chiaro una volta per tutte chi è che governa in Israele.
    (Da: Ha’aretz, 16.01.06)"

    Shalom

 

 
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