DI MASSIMO FINI
«Il problema chiave è che il nostro governo ha gestito le politiche di lotta al terrorismo spalla a spalla con gli Stati Uniti, non nel senso di un eguale potere decisionale, ma piuttosto come un passeggero sul sedile posteriore costretto a lasciare ogni iniziativa all'alleato che tiene il volante in mano... Il supporto e la partecipazione alla guerra in Afghanistan e in Iraq hanno senza dubbio aumentato a dismisura la minaccia terroristica».
Non sono parole di Fausto Bertinotti ma del rapporto del Royal Institute for International Affairs, il più importante think tank inglese, di emanazione statuale (Royal), composto da accademici e da funzionari di Sua Maestà al più alto livello, e sono riferite naturalmente al Governo della Gran Bretagna.

Beh, se gli inglesi stanno sul sedile posteriore, noi italiani, che ci siamo completamente appiattiti sulla politica dell'«amico Bush», ricevendone in cambio schiaffoni (caso Calipari), stiamo nel bagagliaio. Ma il passaggio più importante è quello in cui anche il Royal Institute ammette che le aggressioni all'Afghanistan e all'Iraq hanno aumentato le potenzialità, l'estensione e la pericolosità del terrorismo internazionale invece di diminuirlo, e che quindi, anche sotto questo aspetto, la politica di Bush e degli alleati che si sono a lui accodati è stata un completo fallimento.

E ciò è dovuto a vari fattori, psicologici e tecnici. Il nostro comportamento in Afghanistan, dove eravamo andati a cercare un uomo, Bin Laden, che non abbiamo trovato e abbiamo finito per occupare un Paese, imponendovi le nostre istituzioni, tenendo in piedi un governo fantoccio e cercando di omologare quelle popolazioni al nostro stile di vita, l'attacco, ancora più immotivato, anzi apertamente pretestuoso, all'Iraq, l'occupazione e la conseguente disgregazione di quel Paese, l'umiliazione pubblica di Saddam Hussein, (che sarà anche stato odiato ma è pur sempre un arabo), mostrato in Tv mentre qualcuno gli guarda in bocca come si fa con le vacche e i cavalli, le torture sessuali inflitte ai prigionieri di Abu Graib che han fatto emergere tutto il marcio della "civiltà superiore" (una cosa, già grave ma diversa, è la tortura per estorcere informazioni, altra è la tortura sessuale, del tutto gratuita, col solo scopo di schernire ferocemente il nemico, messa in atto, per sopramercato, da una donna che è il massimo dell'umiliazione per un musulmano, le pisciate sui prigionieri senza diritti di Guantanamo e, tanto per gradire, sul Corano), hanno grandemente aumentato ed esteso la frustrazione e l'odio delle genti islamiche nei confronti dell'Occidente, anche in quei giovani immigrati di seconda generazione che pur nei nostri Paesi sono nati e vissuti e ne hanno preso la cittadinanza, come si è visto negli attentati londinesi. Anche la pretesa Occidentale di omologare l'Islam al nostro mondo, di cambiarvi a forza le istituzioni, la posizione della donna, gli stili di vita, non è certo cosa che aiuti la simpatia nei nostri confronti. In fondo ogni cultura e ogni popolo aspira a decidere da sè cosa deve o non deve fare, senza pelose supervisioni, e l'attuale Occidente, così lontano dai suoi più moderni padri fondatori, da Montaigne a Voltaire a Locke a Mill, inebriato della propria potenza, ed efficienza, non è più in grado di capire che esistono anche sensibilità diverse dalla sua, altrettanto legittime.







Poi c'è il fatto tecnico e pratico. Benché negli Stati Uniti ci sia ancora qualcuno, come il giornalista di dubbia fama Stephen Hayes, che tenta di dimostrare i legami tra Saddam Hussein e Bin Laden (la prova "regina" sarebbe un fante dell'esercito iracheno divenuto talebano e, in seguito, un seguace di Al Quaeda), in realtà nell'Iraq di Saddam non c'era posto per il terrorismo di matrice Waahabita. Per la semplice ragione che un potere dittatoriale come quello del rais di Bagdad, non tollera, come ogni potere forte, la presenza sul proprio territorio di altri poteri forti (è per questo motivo che il fascismo è stato l'unico regime a combattere seriamente la mafia in Italia - e la mafia si vendicò aprendo la Sicilia agli angloamericani, favore che poi lo stato democratico ha dovuto pagare, e ancora paga, a caro prezzo). E infatti non c'erano iracheni nei "commandos" che hanno abbattuto le Torri Gemelle e attaccato il Pentagono. Così come non si sono trovati iracheni nelle cellule di Al Qaeda, vere o presunte, che sono state scoperte dall'11 settembre in poi: (ci sono arabi sauditi, egiziani, giordani, tunisini, algerini, yemeniti, ma non iracheni). Oggi invece un Iraq diventato "terra di nessuno", completamente disgregato e destrutturato, è diventato la base ideale per i terroristi internazionali che vi trovano armi, complicità e appoggio da buona parte della popolazione (quella sunnita sicuramente), facili bersagli nei soldati occupanti, un pascolo immenso per i sequestri a fini di intimidazione e di ricatto e, in generale, un habitat molto favorevole dal quale poter progettare anche gli attacchi ai paesi europei.
Se di tutto questo si è reso conto il Royal Institute for International Affairs, che può essere sospettato di simpatie per il terrorismo come lo può essere la Regina Elisabetta II d'Inghilterra, forse non sarebbe male, né vergognoso e tantomeno stupido che se ne rendesse conto anche il governo italiano e magari pure il Corriere della Sera che cavalca, cinicamente, le isterie senili di Oriana Fallaci.

Certo, lasciare oggi l'Iraq vorrebbe dire abbandonarlo alla già risciante guerra sunniti-sciiti. Ma ci sarebbero almeno due vantaggi, (sempre che anche gli Stati Uniti si tolgano dai piedi). Il primo è che verrebbe a mancare ai terroristi internazionali ogni pretesto per colpire in Iraq (800 morti al mese, solo fra i civili) e che quindi verrebbero finalmente isolati dalla stessa popolazione civile. Il secondo è che il conflitto fra sunniti e sciiti darebbe, alla fine un nuovo equilibrio all'Iraq. Uno dei fattori positivi della guerra è infatti quello di risolvere una tensione una volta per tutte o perlomeno per lungo tempo. Mentre la particolarità della guerra occidentale in Iraq è di prospettarsi infinita e senza scopo, né risultato.

Massimo Fini
Fonte:www.gazzettino.it
20.07.05