orlando sacchelli
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Per anni è stato un cavallo di battaglia della sinistra o, per essere precisi, di una certa parte della sinistra, quella meno moderata e più sensibile alle sirene “no global”. Quella sinistra che, davanti a film come “Il pane e le rose” (il film di Ken Loach ambientato negli Stati Uniti, ndr) è andata in brodo di giuggiole, riscoprendo il sapore delle battaglie sociali dure e pure condotte per la conquista dei diritti dei lavoratori, specie se immigrati. Battaglie ideologiche, senza dubbio, ma pur sempre battaglie politiche in piena regola. Poi, il 7 ottobre 2003, come un fulmine a ciel sereno arrivò la dichiarazione del vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini, che dichiarò “maturi” i tempi per il voto agli immigrati nelle elezioni amministrative. E con la destra che “sdoganava” una questione così tanto delicata, Fini sparigliava le carte, accreditandosi, nel vasto mondo cattolico, come un leader sempre più sensibile a certe istanze sociali care alla Chiesa e fino ad allora portate avanti sempre e solo dalla sinistra. Massimo Giannini, dalle colonne de La Repubblica, parlò di «stupefacente eresia, per il leader di un partito post-fascista che nasce dalle ceneri del Msi». Ma si spinse anche oltre l’editorialista, parlando di «principio di civile buon senso». Se D’Alema e altri leader della sinistra subito appoggiarono con entusiasmo la proposta di Fini, calcando la mano anche per mettere in difficoltà il centrodestra, a causa del netto rifiuto a prendere in considerazione la cosa da parte della Lega di Bossi, certi ambienti della sinistra denunciarono «l’ipocrisia di Fini». Sulla rivista Falce e martello del 12 novembre 2003 si leggeva: «Gli immigrati rappresentano per Fini solo una pedina da utilizzare. Fini sta cercando di ergersi, agli occhi della borghesia italiana, come alternativa credibile dell’asse Berlusconi-Lega».
Comunque, nonostante il fatto che sia stato Fini il leader che, per primo, ha posto la questione “voto agli immigrati” in termini così perentori, dandogli una valenza politica nazionale, alla sinistra va riconosciuto di essersi battuta per prima al fine di introdurre tale diritto negli Statuti regionali e, di conseguenza, nelle varie amministrazioni locali. Una battaglia che, a onor del vero, ha visto schierate in prima fila anche Cgil, Cisl e Uil e, con moltissime iniziative di supporto, specie nelle regioni rosse, anche l’Arci. Aly Baba Faye, coordinatore di “Fratelli d’Italia”, il forum diessino sull’immigrazione, nel 2003 scomodò addirittura Martin Luther King, ribadendo che la concessione del diritto di voto andava «interpretata non come un favore agli immigrati ma come un atto di “egoismo altruista”, nel senso che conviene prima di tutto agli italiani, rafforza gli equilibri della società e migliora la qualità della nostra democrazia».
A destra, così come da sempre anche a sinistra, l’impressione è che del voto agli immigrati ai politici italiani sia importato sempre assai poco. Per questo, fino ad ora, si è sempre andati avanti a colpi di slogan. Ora, però, dopo la decisione del Comune di Torino, qualcosa potrebbe cambiare.


[Data pubblicazione: 23/07/2005]