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    Thumbs up Dazi e frontiere ci salveranno

    CARLO PASSERA
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    Strani tempi, questi. In bilico tra due opposte tendenze: quelle globalizzatrici, apparentemente indistruttibili, che sembrano travolgere tutti gli ostacoli (tradizioni, valori, culture); quelle localistiche, con la riscoperta delle piccole patrie, delle radici. Pensateci: “localistico” in passato veniva usato con una connotazione invariabilmente negativa. Oggi, un po’ meno. Stessa sorte per la parola “confine”: sembrava un vecchio retaggio di epoche passate, una bizzarria destinata ad essere spazzata via dalle magnifiche sorti progressive. Oggi vengono riscoperti: per reagire all’aggressione economica cinese, per darci più sicurezza, per difendere un’identità...
    Massimo Fini: il nostro appuntamento settimanale si chiama ConFini. Oggi parliamo proprio di confini. Da dove partire?
    «Dalla nozione stessa di confine. È sempre stato, anche psicologicamente, un elemento fondante per le comunità umane. È una raffigurazione, un’identità. L’abbattimento del confine fa parte di quell’ideologia di matrice illuminista sull’uomo “cittadino del mondo” e che quindi non ha confini, si trova a suo agio a New York, come a Roma, come a Ulan Bator. Ecco: è un’utopia totalmente fallita. La storia ha dimostrato che c’è bisogno di radici; qualcuno magari si diverte a girovagare da Milano a Kabul, ma in linea di massima l’uomo ha bisogno di un orizzonte definito, circoscritto, comprensibile. Da questa esigenza nasce quel grande movimento internazionale di riscoperta delle “piccole patrie” nel quale si inseriscono a pieno titolo anche le Leghe».
    Che si configurano, dunque, come risposta identitaria alle tendenze globalizzatrici dell’oggi.
    «Certo, è il movimento centrifugo che, per ciò stesso, si oppone alla globalizzazione. È un movimento magmatico, dove coesistono storie, intonazioni, accenti diversi tra di loro. Non esiste una “ideologia delle piccole patrie”. Meglio, io l’ho trovata solo tra gli indipendentisti còrsi d’ultima generazione, gli eco-indipendentisti. Camus li avrebbe chiamati “terroristi gentili”, fanno saltare i Club Med e le case di francesi e italiani, ma stando ben attenti a che nessuno si faccia del male. Loro portano avanti un discorso coerente con un serio localismo. Dicono: anche noi vogliamo lo sviluppo, ma a modo nostro, secondo il nostro habitat, le tradizioni, cultura, storia; se questo comporta uno standard economico più basso di quello europeo, pazienza, ci va bene».
    Pur di ritrovare se stessi son disposti - eventualmente - a rinunciare al frigorifero...
    «Semplificando, è così. Cito questo esempio perché nel localismo è potenzialmente sempre insita una carica di anti-industrialismo; non esiste localismo se siamo tutti battezzati in un mare di Coca Cola, consumiamo gli stessi prodotti, compriamo le stesse cose e tutto si uniforma. O meglio, ci sarebbe un localismo limitato alla riscoperta dei dialetti e poco più: per carità, istanze più che onorevoli, ma non portano ad alcun sbocco».
    Ti faccio un’obiezione. Prima criticavi l’utopia illuminista del “cittadino del mondo”. Ma non è altrettanto utopistico pensare che una comunità rinunci, oggi, al frigorifero, per tutelare le proprie radici? Che riesca davvero a fare a meno della Coca Cola? Sembrerebbe nulla di impossibile, temo invece lo sia nel concreto...
    «Attualmente hai ragione, è così. Tutto il meccanismo marcia in senso contrario, verso un mercato globale e un unico Stato governato dagli Usa, con un’unica politica, un unico governo, un unico tipo di individuo planetario: il grande consumatore. Ma questa è una direzione di marcia spaventosa. Proviamo a immaginare un’ipotesi diversa e che non sia utopistica. Ecco: secondo me un’Europa autarchica, neutrale, politicamente unita, militarmente ben armata, potrebbe essere un punto di mediazione possibile. Penso che l’Europa abbia risorse, know-how, mercato e popolazione sufficienti per fare da sola, riscattandosi dal mercato globale».
    Ci sarebbero dei prezzi da pagare...
    «Ovvio. Alcuni prodotti diventerebbero inarrivabili. Ma, d’altro canto, io credo che oggi non abbiamo bisogno di ingurgitare ancora di più; abbiamo bisogno di smagrirci e, piuttosto, distribuire meglio le risorse all’interno dei nostri Paesi. In realtà non abbiamo bisogno di niente, se ci stacchiamo da un’ottica di sovrapproduzione continua di n'importe qua. Abbiamo tutto per vivere».
    L’autarchia fa venire in mente Mussolini...
    «Gianfranco Fini, buttando via tutto del suo passato, ha gettato anche un concetto interessante. L’autarchia non è possibile in un solo Paese, come pensava Benito Mussolini: retrocederemmo a livelli di sottosviluppo non più accettabili da una società come la nostra. La dimensione europea, invece, potrebbe reggere il colpo. È, credo, una mediazione realistica, possibile, lo si potrebbe volere. Io sogno un’Europa unita, neutrale, armata, nucleare e autarchica».
    Armata e nucleare?
    «Non per irretire nessuno, ma per poter fronteggiare i pericoli».
    Ossia?
    «Non c’è solo il terrorismo, ma anche l’avventurismo degli Stati Uniti. Leggevo oggi un’intervista ad Henry Kissinger in cui lui non escludeva un attacco all’Iran. Questo significa voler incendiare il mondo».
    Hai definito l’Europa ideale con cinque aggettivi. Spero non sia anche un’Europa “burocratizzata” e “centralista”.
    «Penso alla prima ipotesi leghista, che mi convinceva molto: l’Europa delle macroregioni. Un continente unito politicamente e militarmente non avrebbe più come punti di riferimento localistici gli Stati nazionali, che sono troppo piccoli per garantire la difesa e troppo grandi e poco coesi per dare risposta alle esigenze identitarie che salgono dal basso. Sarebbe, invece, un’Ue con frontiere esterne ben precise, ma che al proprio interno supererebbe i confini tradizionali. Potrebbero unirsi liberamente territori che sono omogenei culturalmente, socialmente, economicamente: che so, Liguria e Provenza, Tirolo e Alto Adige... Ripeto, è la vecchia idea della Lega Nord: Nord, Centro e Sud divisi in macroregioni, perché sono effettivamente diversi dal punto di vista economico, sociale, climatico, di mentalità. Era l’ipotesi di Gianfranco Miglio, un progetto realistico e naturalmente subito avversato in modo furibondo da chi deteneva il potere».
    Allora fu Roma a opporsi, oggi sarebbe Bruxelles. Le oligarchie che dominano il continente certo non possono vedere di buon occhio questa costruzione.
    «L’Europa per il momento è, come voi scrivete, un carrozzone burocratico, ha i difetti e i limiti dell’omologazione ed è priva di un progetto più ampio. Le oligarchie si oppongono a un’idea diversa di Unione; ma, d’altro canto, credo che verrà abbastanza presto il momento in cui questo sistema crollerà».
    Perché?
    «Oggi è tutto incentrato sull’economia e l’uomo è ridotto a una sorta di terminale o di variabile dipendente. Ma se il sistema fallisce anche nell’economia - ed è quel che sta accadendo - vien meno la sua trave portante. Le persone saranno indotte a riflettere su tutto il modello e riscoprire valori senza i quali non si vive. Non si può vivere di solo mercato, lo si vede dallo sbandamento percepibile in Occidente».
    Non pensi che questa dinamica sia già innescata? Si parla tanto di riscoperta di valori... Certo, lo si fa anche perché è diventata una moda.
    «Per il momento più che una riscoperta di valori religiosi, sento quella di una faziosità religiosa da opporre a un’altra simile».
    Come già ci hai accennato in passato, non vedi di buon occhio la conversione teo-con di Ferrara.
    «Giuliano Ferrara ha capito una cosa, al di là della strumentalità della sua posizione: una società vuota di valori, per quanto super-armata, è destinata alla sconfitta contro una società ricca di valori forti, giusti o sbagliati che siano, come quelli dell’Islam. Di là abbiamo i kamikaze, qui una settimana di lacrime per diciassette soldati uccisi per la loro incapacità a difendersi».
    Torniamo alle piccole patrie. Il binomio global-local è destinato a perpetuarsi nel tempo? Vivono e muoiono insieme, come si dice della coppia Berlusconi-Prodi, o qualcuno prevarrà in maniera definitiva?
    «Secondo me il locale non ha possibilità di prevalere in quanto tale, ma sarà il globale a implodere su se stesso. Un sistema che si basa sulle crescite esponenziali - che ci sono in matematica, non in natura - prima o poi crolla, nel momento in cui non avrà più la possibilità di espandersi perché ha già preso tutto. Il momento è vicino. L’Impero romano aveva appena finito di conquistare tutto il mondo allora conosciuto e si frantumò in mille pezzi, dando origine al Medioevo europeo. La situazione è diversa ma in qualche modo paragonabile. L’Occidente globalizzato non sarà sconfitto dal terrorismo islamico né destrutturato dai vari localismi, morirà invece per implosione del modello».
    Resta da capire quanti saranno i morti e i feriti...
    «Ah beh, certamente! Ci saranno morti e feriti! Sarà un crollo planetario, una catastrofe senza precedenti. Mi ha stupito come gli americani dopo l’11 Settembre non abbiano trovato opportuno rallentare, invece che dare un’ulteriore accelerazione alla globalizzazione. Nel momento in cui raggiungono la meta, trovano anche la loro fine... Eppure dietro alle scimmie alla George W. Bush ci sono buoni pensatori... Mi ricordo che molti anni fa, a Ginevra, con Carlo Rubbia facevo questi discorsi e lui non mi prendeva sul serio, sosteneva che ero un millenarista. A un certo punto gli dissi: “Lei è Nobel per la Fisica, le chiedo: andando a questa velocità e accelerando in continuazione, accorciamo o no il nostro futuro?”. A questo punto il suo atteggiamento, da supponente, cambiò. Accettò il discorso e fece lui l’esempio del treno: va a 800 all’ora, non ha un guidatore e per sua dinamica interna deve sempre accelerare; anche se qualcuno provasse a fermarlo, sarebbe tardi. Esempio fatto da uno scienziato positivista».
    Non, precisamente, un filosofo...
    «Ciò che mi stupisce è come manchi un pensiero sulla modernità e su dove stiamo andando. Il filosofo di punta è Karl Popper, che scrive in tutt’altra situazione, con le democrazie assediate dai totalitarismi, e sostiene che questo è il migliore dei mondi possibili... Ma per dire questo basta un aborigeno australiano! L’Occidente ha espresso in passato un pensiero straordinario, da Eraclito a Heidegger: ora non più. Ha un meccanismo, efficace, efficiente, che va per conto suo e non viene governato da nessuno».
    A tuo avviso, perché manca questo pensiero? Forse perché gli Stati Uniti non hanno una tradizione d’elaborazione concettuale e noi siamo ormai trainati totalmente da questa loro locomotiva non pensante?
    «Certamente gli Usa sono un Paese pragmatico e non hanno mai espresso grandi pensatori. Come dire: è difficile trovare un film americano realmente profondo. Blade Runner l’ha girato un inglese, Ridley Scott. L’elaborazione del pensiero astratto non è il loro punto forte. Guardando oggi Bush, Wolfowitz, Pearle, i neo-con, non si avverte un pensiero, ma una violenza. Ma di quella, son stati capaci tutte le potenze egemoni, nel momento in cui erano egemoni. Niente di nuovo. Gli antichi greci avevano elaborato una teoria del limite: l’ubris, l’arroganza, provoca la ftenos teon, l’invidia degli dei. Insomma: non bisogna andare oltre misura, “nulla di troppo”. La cultura greca, poi, è la prima che accetta l’altro da sé: quando Erodoto parla dei persiani, li descrive come barbari, vestiti in modo strano, eccetera; ma non si sognerebbe mai di applicare la cultura greca a quella persiana, sa che sono cose diverse. È questa, anche, la forza della civiltà di Roma antica. Noi abbiamo invece questa idea di costringere tutto il resto del mondo ad avere i nostri valori. Questo è totalitarismo, anche se ci crediamo democratici e liberali».
    Per finire: l’attualità ci consegna la necessità di introdurre dazi e di sospendere Schengen per reazione a questioni diverse: ma altro non sono che la riscoperta dei confini.
    «Se uno è contrario alla globalizzazione è ovviamente favorevole a misure protezionistiche; io penso debbano essere prese dall’Europa nel suo complesso nei confronti dell’esterno. Sono contrario all’iniziativa anti-Schengen di Jacques Chirac perché ci frammenta. I limiti vanno posti, però insieme. Molto dipenderà dall’atteggiamento della Gran Bretagna, se resta o no legata agli Usa».


    [Data pubblicazione: 21/07/2005]
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  2. #2
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