Da dottrina per professori, sta diventando opinione diffusa, idea che sposta consenso. Offre un´interpretazione del mondo che sembra al passo con i tempi e le loro angosce, fa presa sulle coscienze, è capace di orientare la mente dei giovani.
Non coincide con l´insegnamento della Chiesa cattolica, ma si muove nel suo stesso vento e sotto il suo stesso cielo; talvolta ne rappresenta il braccio secolare. È una macchina intellettuale efficiente: produce senso, fornisce risposte, semplifica in modo non volgare la complessità, costruisce discorsi in grado di persuadere.
Ha quattro dogmi, che sono la sua bandiera: la natura come ordine e sacralità, l´individuo quale motore universale della storia, la forza in quanto principio di realtà, e il mercato come decisore del destino sociale di ogni essere vivente. (Ma nella versione che sta prendendo piede nel nostro paese il secondo e il terzo punto - l´individuo e la forza - risultano più sbiaditi, perché meno compatibili con pezzi importanti e profondi dell´ideologia italiana: mentre il primo e il quarto - la sacralità della natura e l´onnipotenza del mercato - finiscono con il tenere quasi da soli il campo).
Basta già aver isolato la sequenza, per valutarne l´efficacia. La nuda vita vi appare saldamente scandita fra il disciplinamento dettato dell´ordine naturale, e la potenza della mano invisibile (ma non casuale) delle leggi economiche; il protagonismo delle individualità può liberamente esaltarsi purché serrato fra queste barriere. E la politica e la democrazia devono scorrere anch´esse entro gli stessi limiti: guidate da una realistica presa d´atto di rapporti di forza globali, dietro i quali si intravede l´estremo contrasto fra amico e nemico.
È una scena severa e persino aspra, quella che prende corpo in una simile visione: ma almeno è rischiarata dal riconoscimento di princìpi superiori e non negoziabili. E poi, chi ha mai detto che il mondo è fatto per le anime belle?
Il successo di questo modo di ragionare sta incontrando dovunque assai poca opposizione. Ha il coraggio di proporre una filosofia della storia quando ce n´è un gran bisogno, e mentre gli altri - tranne la Chiesa, che lo precede e lo accompagna - tacciono. Di fronte, l´afasia della sinistra. E non parlo della politica, che fa quello che può; ma della cultura alle sue spalle, che s´è come disfatta: e in Europa più ancora che nella stessa America, e in Italia, più che nel resto d´Europa. Mentre sarebbe il momento di tornare a pensare, e a pensare in grande: di minimalismo oggi si muore.
C´è un punto cruciale nella dottrina neoconservatrice e in quella cattolica, che dobbiamo saper cogliere, e che è al centro della loro capacità di irradiamento: l´attitudine a una critica militante della modernità, dei suoi rischi, delle sue avventure (più esplicita nell´insegnamento della Chiesa, meno evidente, ma pur sempre attiva, nel pensiero neoconservatore). Un atteggiamento che intercetta un´esigenza e un´inquietudine ormai parte ineliminabile del nostro sentire quotidiano, generative di quell´ansia e di quell´insoddisfazione per la vita che ci è concessa di vivere, che riempie sempre di più le nostre giornate. Una critica di cui la sinistra, in Europa e in Italia, ha perso il filo: come se, avendo in passato molto sbagliato su questa strada, ora provasse una repulsione invincibile a riprendere il cammino, o anche solo a parlarne. E invece è proprio da qui che bisogna ripartire. Senza una critica serrata del presente, non c´è futuro possibile per la sinistra.
Cominciamo allora da una domanda: su cosa si fonda la presa di distanza neoconservatrice? Essa rifiuta della modernità - perché ne ha paura - la sua intrinseca abolizione del limite, del confine, della misura predeterminata, la sua capacità di catturare l´infinito e farne storia e legame sociale. E vuole imporle a tutti i costi una disciplina che dia certezze non revocabili: l´ordine sacralizzato della natura (in questo trova la Chiesa al suo fianco); l´ordine globale del mercato (su cui la Chiesa, almeno quella di Wojtyla, è più prudente); l´ordine politico dell´impero (e in questa circostanza la Chiesa sembra andare decisamente da un´altra parte). Significa questo, infatti, essere conservatori: temere il nuovo, e scambiare il passato con l´assoluto.
Ma il fatto è che si tratta, in tutti e tre i casi che abbiamo indicato, di modelli vecchi, ripresi da una tradizione ormai incapace di dar forma culturale, politica e normativa alle potenzialità creatrici della nostra specie, per il livello di sviluppo che esse hanno raggiunto, senza comprimerle in gabbie inattuali (un´idea di natura immobile e sacralizzata, un´idea statica e angustamente “nazionale” di egemonia politica, una mitologia astorica dello scambio mercantile come portatore dell´unica possibile razionalità economica).
Al contrario, la critica della modernità che dobbiamo saper costruire ha da essere critica della sua incompiutezza storica, del suo trascinare ancora con sé relitti del passato, non della sua vocazione all´illimitato, che è la sua peculiare grandezza. Certo, c´è bisogno di ordine: ma non di un ordine metafisico, bensì flessibile, capace di trasformarsi; in grado di darsi regole non negoziabili, sapendo però che muteranno.
Nel relativo c´è la specificità dell´umano. Relativa è sempre la conoscenza (che non esiste se non nelle relazioni dell´osservatore con l´ambiente), e che è comunque trasformazione (qui non mi sentirei di seguire Giuliano Amato, che pure ha appena scritto su questo giornale cose importanti); relativa è la tecnica che ne nasce; relativa è l´eguaglianza; relativo il valore delle merci; relativa la natura, nella sola percezione che possiamo averne. In principio, non c´è che la relazione. Se Dio c´è, è lì che si nasconde: è un Dio relativo.
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