di Maurizio Blondet


Il principe Bandar bin Sultan, ambasciatore saudita a Washington, ha lasciato l’incarico (che occupava da 22 anni!) ed è tornato in fretta a Ryad.
Al suo posto è stato piazzato il principe Turki bin Faisal, già capo dei servizi segreti sauditi.
Ciò significa una cosa: che le grandi manovre per succedere a re Fahd, il re in carica che è morente da anni (e forse già morto), sono cominciate.
Sotto l’occhio attentissimo degli USA.



Arnaud De Borchgrave, direttore di Washington Times e uomo di servizi segreti (1), ha tratteggiato un acuto, e a volte maligno ritratto dei due personaggi.
Dipingendo Bandar bin Sultan come “il James Bond” saudita, e Turki come lo “Smiley”, il soffice, schivo, ma astutissimo capo dell’MI6 dei romanzi di Le Carrè.



Il primo, principe Bandar bin Sultan, è pilota da caccia (addestrato in USA, ovviamente) ed è un probabile successore: è figlio del principe Sultan e di una delle sua quattro mogli, una serva yemenita che lavorava nel palazzo principesco.
La Difesa dà a papà Sultan il controllo delle forze armate, e ne fa il terzo in linea di successione.
In USA, il figlio Bandar si è fatto molti amici, il che può parecchio aiutarlo quando suo padre, eventuale re, morirà.
Si è anche fatto, insinua De Borchgrave, “una fortuna di molti miliardi di dollari”, assistendo “con fiuto sicuro le industrie della difesa americane e additando loro invariabilmente le persone giuste in Arabia Saudita per ottenere lucrosi contratti di servizio e manutenzione dopo-vendita”.
Il suo “Hala Ranch”, una reggia con 19 bagni nelle montagne di Aspen in Colorado, comprende “la replica di un tipico pub inglese dove Bandar serve abbondantemente i suoi ospiti, invariabilmente famosi, da dietro il banco”.
Non serve, ovviamente, aranciata, ma bevande assai anti-islamiche.



L’ambasciatore Bandar e sua moglie, la principessa Haifa (figlia del defunto re Feisal, è una delle migliori carte di Bandar) “si fanno vedere pochissimo nella sede dell’ambasciata a Washington”, nonostante questa modesta residenza comprenda 26 stanze per la servitù e 15 camere padronali.
La famigliola fa la spola fra le sue altre proprietà: il palazzo di Ryad, la villona al mare a Jeddah, una residenza di lusso in Marocco, una magione da Lord, con annesso l’intero villaggio di Glympton, presso Londra.
Ma non si deve pensare che Bandar sia un fannullone.
Dice Borchgrave: “e’ l’uomo di centro di missioni segrete condotte per i reali sauditi, i presidenti Reagan, George W. Bush, Clinton, Bush ‘figlio’; ed è anche, soprattutto, membro del Gabinetto Saudita (il governo), carica che non ha lasciato quando ha fatto le valige per venire a Washington come ambasciatore”.
E quando viene indetta una riunione di gabinetto, il James Bond saudita “salta sul suo gippone a Colorado Springs e da qui a Ryad, pilotando di persona il suo Airbus privato, 17 ore di volo non-stop”.



D’altra parte, Bandar non ha fatto che pilotare jet per “facilitare gli incontri Reagan-Gorbachev”, indurre “suo padre, ministro della Difesa saudita, a trasferire fondi segreti ed armi agli anticomunisti del Nicaragua, ai tempi in cui ogni ulteriore aiuto ai sandinisti era stato vietato da un voto del Congresso”; ha “convinto l’imprevedibile colonnello Gheddafi a confessare l’attentato del PanAM 103”, ed ha posto i suoi buoni uffici “per l’uscita di Yasser Arafat da Libano nel 1983”. Insomma, un vero amico, che conosce tutti quelli che contano.
Del resto la residenza di Bandar a Washington è a due passi dalla CIA, e George Tenet, quando era capo dell’Agenzia, “faceva capolino la sera per un drink (non aranciata) e qualche pettegolezzo sul Palazzo”.



E’ umano che Bandar voglia essere vicino al trono saudita “quando e se avrà luogo un’evoluzione verso una monarchia costituzionale”.
Quando re Fahd morirà – gli si attribuiscono 80 anni – è pacifico che gli succederà l’attuale reggente, principe Abdullah, che di fatto governa da un decennio.
Ma anche Abdullah non è un giovanotto: ufficialmente anni 79; De Borchgrave dice che ne ha 82.
Dovesse morire Abdullah, il terzo in successione è Sultan: il caro papà di Bandar, anche lui vecchio e malaticcio.
In una famiglia di 7 mila principi maschi, figli di mogli, serve ed infinite concubine, le sue amicizie americane nell’onnipotente settore militare-industriale a questo punto diventano interessanti.
La successione della terza generazione sarà un affaraccio senza esclusione di colpi.



Ma la simpatia di De Borchgrave va, palesemente, alla persona che sostituisce l’irruente Bandar come ambasciatore saudita a Wasington: il principe Turki, da tre anni ambasciatore a Londra.
Tanto per cominciare, perché Turki “ha imparato l’arte di capo delle spie dal leggendario capo dei servizi francesi conte Alexandre De Marenches”, a cui lo stesso De Borchgrave deve probabilmente alcune lezioni.
Quel fiero anticomunista, con madre americana, che si dimise quando Mitterrand piazzò nel suo governo quattro ministri del PC francese.
Turki collaborò intimamente con De Marenches e la CIA.
“La sua agenzia spese la stessa cifra, 600 milioni di dollari, che la CIA investì nel 1979 presso l’ISI (il servizio segreto pakistano) che addestrava migliaia di mujaheddin per mandarli a battersi contro l’occupazione sovietica in Afghanistan”.



Ovviamente, in quest’impresa il principe Turki ha avuto “come agente prezioso Osama Bin Laden”, uno dei 56 figli del costruttore yemenita arricchitosi con il monopolio delle costruzione della monarchia nel regno saudita.
Collettore di fondi, capo carismatico dei mujaheddin internazionali per l’Afghanistan, Osama aveva raggiunto, nel 1989, “lo status di eroe dell’Arabia Saudita”.
Per cui “non fece anticamera” quando, il 2 agosto 1990, chiese di vedere Turki. Secondo quanto Turki la volpe ha raccontato a De Borchgrave (colleghi, e entrambi allievi del maestro De Marenches), quel giorno Osama gli disse di aver saputo che la monarchia saudita si preparava ad invitare sulla sacra terra araba le forze USA, per cacciare fuori Saddam dal Kuweit: “non sarà necessario, i miei mujaheddin possono bastare”, concluse.
Turki rise; Osama se ne andò furioso.
“La risata più costosa della storia”, commenta oggi la volpe del deserto saudita.
Rottura definitiva? Forse no, o non completa.
Tanto che De Borchgrave allude al “mistero non risolto” delle improvvise e preveggenti dimissioni di Turki come capo dei servizi sauditi, carica che aveva coperto da 24 anni, solo “tre settimane prima dell’11 settembre”.



Qualche maligno, ricorda De Borchgrave, ha sospettato che Turki “sapeva che qualcosa di grosso stava per succedere, con il coinvolgimento di certi sauditi. Non sapeva che cosa. Ma decise di uscire in tempo per non essere incolpato”.
Ma no, ma no, ride (di nuovo) il principe Turki: “pura coincidenza. 4 anni su una poltrona così calda mi avevano esaurito. Avevo bisogno di risentire l’aria del deserto”:
Non per molto: Turki viene rapidamente riciclato come ambasciatore nell’umida Londra.
Anche lui “ha molti amici in USA e sarà un cambiamento benvenuto rispetto a Bandar”.



Forse Bandar non ha proprio degli amici così sicuri, che vogliano davvero aiutarlo nella successione?
Abitano infatti a Ryad, gonfi di voglie legittime, i figli e i nipoti di re Abdul Aziz, il fondatore della monarchia saudita nel 1937.
Il fondatore ebbe 40 figli da differenti mogli, serve e concubine; tutta la figliolanza e nipotanza può aspirare al trono, vantando quella discendenza diretta.
Bandar è solo figlio di un fratello del re, Sultan.
La seconda generazione ha trovato un accordo spartendosi il potere militare: il reggente Abdullah la “Guardia Nazionale”, formata da elementi della kabila regale; Sultan il cosidetto esercito; il principe Naif, nipote del fondatore, la polizia segreta. Tre forze armate.
In mano alla terza generazione, numerosa, corrotta e incapace, possono diventare gli inneschi di una “guerra civile” di palazzo? (2)
E da che parte starà Washington?
Ad ogni buon conto, il principe Abdullah, il reggente, vi ha spedito il suo amico, vecchia volpe, e creatore di Al Qaeda, principe Turki.



di Maurizio Blondet





Note

1) Arnaud de Borchgrave, “Saudi Bond and George Smiley”, Washington Times, 25 luglio 2005. Il Washington Times, secondo giornale della capitale, fu fondato con fondi palesi della setta di Moon (coreana, anticomunista), e probabilmente con fondi occulti anche francesi, come organo di influenza e di controllo del potere del Washington Post. De Borchrave, amico del francese De Marenches, venne scelto come direttore.
2) John Bradley, ”Why the saudi envoy really went home”; Asia Times, 29 luglio 2005.