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    Predefinito Per l'autodifesa etnica totale

    Per l'autodifesa etnica totale - Riflessioni su "La colonisation de l'Europe" di Guillaume Faye
    Di Stefano Vaj - Numero 51 del 01/05/2001

    http://www.uomo-libero.com/articolo.php?id=298


    Guillaume Faye e il GRECE - La fine di un sogno - Il ritorno alla lotta - La colonizzazione dell'Europa - Critica all'assimilazionismo - Critica del multiculturalismo - L'autodifesa etnica totale come unica alternativa all'estinzione - Anime ed aspetti del mondo islamico - Guerra di conquista o nuova tratta degli schiavi- Etnopluralismo ed etnocentrismo - La "mobilizzazione" delle popolazioni quale strumento dello snaturamento etnico - La resistenza contro l'etnocidio come base politica per la rinascita europea
    [Traduzione spagnola di Santiago Rivas]

    Ho conosciuto Guillaume Faye a Parigi nel 1978, durante l'undicesimo congresso annuale del GRECE, il Groupement de Recherche et Etudes pour la Civilisation Européeenne, a ben pensarci nel pieno di una mia personale "crisi di identità".



    Pur molto giovane, mi aggiravo ormai da quattro o cinque anni in un ambiente che credeva di fare politica prestando il proprio impegno militante a sostegno di un partito sostanzialmente teso ad amministrare i resti italiani della sconfitta militare europea. Peggio, la strategia di tale amministrazione, consisteva nel barcamenarsi nell'attesa di essere finalmente riciclati, od offrire i propri servizi per chi volesse ingaggiarli qualche bassa mansione dalla parte più retriva della "classe dirigente" vaticano-capital-massonica - all'epoca un po' preoccupata dall'attenuarsi della guerra fredda e della garanzia americana, e dalla concorrenza dei "compari di spartizione" di osservanza sovietica.


    Lo stesso ambiente in cui mi aggiravo viveva del resto in un'assoluta schizofrenia ideologica, essendo unito pressoché soltanto dall'ansia di differenziarsi e dal rifiuto rispetto alla linea benpensante, conservatrice ed avida di rispettabilità del partito; lo stesso partito di cui pur continuava a frequentare le sedi, sostenere le liste, attaccare i manifesti, eccetera. I vari personaggi che vi si incontravano non erano d'altronde per lo più restii a mille piccoli compromessi con il "vero" partito, magari per cariche la cui denominazione altisonante corrispondeva ad un'assoluta mancanza di qualsiasi potere reale, ed alla concreta prospettiva invece di problemi personali e giudiziari; ma soprattutto appartenevano praticamente a tutte le possibili estrazioni che non corrispondevano alle mie idee, o per meglio dire alla sensibilità che mi aveva avvicinato a tale ambiente. Cattolici integralisti, anticomunisti generici, personaggi convinti che la seconda guerra mondiale fosse stata combattutta per far partecipare qualche rappresentante sindacale alle riunioni dei consigli di amministrazioni ("... come in Germania, come in Yugoslavia"), tradizionalisti ed esoteristi al limite della seduta spiritica, nichilisti, ammiratori indiscriminati del militarismo cileno, israeliano o franchista, pseudo-idealisti che non avevano mai letto una riga di Spirito o Gentile o Fichte, vestali ed adoratori di una cronaca politica passata e fraintesa, non c'era che l'imbarazzo di scegliere cosa mi ripugnasse maggiormente. Per tanti aspetti una corte dei miracoli, insomma, i cui membri erano certamente devianti (e qualche volta non solo sotto il profilo politico-religioso...), ma pure in gran parte"recuperata" al Sistema, e preda di suggestioni ideologiche la cui grande varietà era pari soltanto all'estraneità sostanziale della maggiorparte di esse alla "nuova tendenza storica" incarnata dalle grandi rivoluzioni nazionalpopolari della prima metà del secolo, così come da Nietzsche e Wagner e Stefan George, da Marinetti e D'Annunzio e Drieu La Rochelle.


    L'immagine pur caricaturale, demoniaca ed in fondo ridicola, che di tale ambiente veniva data dall'esterno era quasi più più attraente, con il suo intrigante profumo di zolfo, della mediocre realtà che sperimentavo direttamente ogni giorno.


    Il contatto con l'ambiente francese allora principalmente rappresentato dal GRECE fu perciò molto più di una piacevole sorpresa. Non mi ero inventato un'appartenenza libresca ad una comunità mitica irrimediabilmente estinta; esistevano ancora persone che condividevano davvero i valori che mi avevano attirato verso il mondo italiano che teoricamente esserne l'erede, e ne facevano argomento di azione storica e di "grande politica". Per di più, tale movimento. dopo un decennio di duro lavoro, evitando tatticismi privi di futuro e deliberate ed alibistiche autoesclusioni, era visibilmente alla vigilia di un grande successo, tanto da aggregare intorno a sé "compagni di strada", più o meno in buona fede, di notevole rinomanza, ma soprattutto tanto da suscitare un seguito piccolo, ma entusiasta e disinteressato, in numerosi paesi europei, dal Belgio alla Grecia, alla Germania, all'Inghilterra, alla Svizzera, all'Italia stessa. Un seguito che chiedeva solo di dare il proprio contributo, creando comunità locali o partecipando al lavoro di diffusione di idee attraverso conferenze, pubblicazioni e infiltrazione dei canali di comunicazione e dell'università.


    Bando alle divagazioni. Il congresso in questione era intitolato "L'inégalité de l'homme", e veniva a focalizzare uno di quelli che si erano già stabilizzati come leit-motif della battaglia culturale di questo ambiente. ovvero l'identificazione, quale scontro ed alternativa fondamentale della nostra epoca, dello scontro tra le ideologie di matrice giudeo-cristiana, democratica, marxista, etc., e la visione del mondo antiegualitaria, aristocratica e sovrumanista.


    Tra i partecipanti vi erano naturalmente Alain de Benoist l'intellettuale, Giorgio Locchi il filosofo - che diventerà poi il mio guru e maitre à penser personale, se mai ne ho avuto uno, e il cui intervento allo stesso congresso è stato pubblicato da l'Uomo libero n. 6 sotto il titolo "Mito e Comunità"- e soprattutto Guillaume Faye il militante, che fu indubbiamente il relatore che mi colpì di più.


    Oratore eccezionale, ipnotico persino nel leggere una relazione scritta nell'atmosfera ovattata di un convegno di studi in un palazzo dei congressi, Guillaume Faye assomigliava un po' fisicamente e nelle movenze al giovane Feddersen (interpretato da Gustav Froelich) protagonista di Metropolis [DVD] di Fritz Lang; ed era già indiscutibilmente l'astro nascente del movimento, oltre che l'unico dirigente nato e cresciuto all'interno dello stesso, senza compromissioni con esperienze precedenti più o meno discutibili.


    Specie su un diciottenne assetato di coerenza, passione, spregiudicatezza, anche da una breve conversazione Faye lasciava un'impressione di "lucido fanatismo" in cui si mescolavano reminescenze di Che Guevara, D'Annunzio, Ignazio di Loyola e Goebbels [alias], alquanto lontane dal materiale umano settario e arrivista, conformista e reazionario, che dominava la mia esperienza politica italiana dell'epoca. rispetto a cui le notti passate a discuteredelle questioni fondamentali della nostra epoca e del futuro dell'Europa nella campagna provenzale delle Université d'Eté diventarono ben presto una benvenuta boccata di ossigeno.


    Non sorprenderà perciò che Faye fosse semplicemente adorato da tutta la base del movimento. In particolare la componente femminile, ben oltre quante potessero essere direttamente "gratificate" dal suo pur leggendario attivismo sessuale, ed ancora di più le componenti internazionali, ovviamente meno attratte da altri esponenti condizionati da un residuo di "spirito parigino-salottiero", o da un'eccessiva preoccupazione per l'amministrazione delle vicende quotidiane e locali dell'associazione. E fu proprio con Faye, Pierre Vial [alias], Jason Hadjidinas e vari altri camerati europei di questo ambiente che ci ritrovammo qualche anno dopo in Grecia, al santuario di Apollo a Delfi, all'alba, a giurare in dieci lingue in una cerimonia privata la nostra fedeltà all'Europa, ai suoi dèi, ed al sole (ri-)nascente della sua cultura, oltre il solstizio d'inverno della nostra epoca.


    Tale speciale ruolo di Guillaume Faye venne poi ad enfatizzarsi quando di lì a poco il movimento, battezzato per l'occasione Nouvelle Droite dai media, prende il controllo della redazione del Figaro-Magazine, all'epoca diretto da Louis Pauwels, giunge sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, e si illude per un attimo di aver messo radici inestirpabili nell'ufficialità. Se si escludono pochi personaggi soprattutto dedicati a mansioni organizzative nell'ambito GRECE, Faye è infatti praticamente l'unico a non giocare le sue carte nei media tradizionali, nei circoli intellettuali accreditati e nell'università, ed a restare impegnato unicamente nel movimento, per cui lavora a tempo pieno, e dove i suoi problemi di sopravvivenza sono di natura puramente... economica.


    In tale particolare posizione, apre alcuni temi e fronti di lotta fondamentali eccheggiati poi in tutta Europa. Il sistema per uccidere i popoli, da me tradotto in italiano per le Edizioni dell'Uomo Libero e recentemente riedito dalla Società Editrice Barbarossa (acquistabile da Orionlibri) costituisce il primo manifesto contro la globalizzazione pubblicato nel nostro continente, ancora nell'epoca dei blocchi e delle ultime tappe della decolonizzazione. La versione in cui il libro è uscito costituisce il frutto di una lotta epica, tipica di Faye, contro gli editors di Copernic, la principale casa editrice del movimento. Come noto, questi nel mondo francese ed ancor più anglosassone non sono la casa editrice (o publisher), ma sono dei signori che senza aver mai pubblicato un rigo di proprio pretendono, su mandato della casa editrice, di insegnare agli scrittori cosa e come scrivere. In questo caso, tali figure non veniva solo a discutere problemi di virgole, lunghezza dei capitoli, o "attacco" sufficientemente accattivante per attirare l'attenzione di recensori che raramente vanno oltre le prime pagine e i risvolti di copertina, ma esercitavano un tentativo di attenuazione e sostanziale censura politica del messaggio considerato troppo "paradossale", "visionario", "poco realista", "poco serio" dalla stessa casa editrice della Nouvelle Droite. Il fatto che il libro sia oggi una descrizione fedele di quanto positivamente è accaduto, e sta accadendo sotto gli occhi di tutti, è il frutto e la testimonianza dell'incredibile entusiasmo ed energia spesi a convincere, illustrare, riscrivere la riscrittura di personaggi più o meno ignoti, ed alla fin fine... prenderli per stanchezza.


    Ugualmente, è forse Guillaume Faye il primo in assoluto ad aver identificato nei "Diritti dell'Uomo" la dottrina sincretica e finale della tendenza storica umanista che il marxismo non ha saputo essere e che che rappresenta il punto di convergenza finale, postideologico di tutte le correnti laiche e religiose in cui essa si è suddivisa dopo la sua affermazione in Europa con l'editto di Teodosio e la sconfitta dei Sassoni. Lo "speciale" al riguardo pubblicato su un numero di Eléments, ha costituito lo spunto per la mia tesi di laurea, che ha poi costituito il nucleo del libro del mio libro uscito sotto il titolo Indagine sui Diritti dell'Uomo (LEdE., Roma 1985, ibidem), con una prefazione del compianto Julien Freund, e che ho dedicato proprio a Faye.


    Altra pietra miliare nel percorso di Faye è rappresentata dalla pubblicazione del Nouveau Discours à la Nation Européeenne (prima ed. Editions Albatros, seconda ed. L'Aencre, ordinabile da Librairie Nationale) incitazione fichtiana alla rivendicazione della propria identità, alla riscoperta della forza dell'Europa ed alla rivolta contro la dominazione straniera e mondialista del nostro spazio vitale, che l'autore riesce a veder pubblicata da una casa editrice "ufficiale" (Albatros) con tanto di introduzione di Michel Jobert, un ex ministro di De Gaulle!


    Ancora, per quanto la cosa possa oggi apparire banale, dobbiamo a Faye la definitiva liquidazione, in L'Occident comme déclin (Le Labyrinthe), di una confusione che vedeva ancora alla fine degli anni settanta cantautori nazionalrivoluzionari inneggiare alla "civiltà occidentale", mentre alcuni epigoni francesi di coloro che avevano combattuto in Normandia contro gli americani chiamavano addirittura... Occident uno dei loro pochi movimenti politici di un certo successo. Ugualmente, è sempre lo stesso autore a riproporre, in opposizione sia al progressismo ingenuo sia al rifiuto tradizionalista e neoluddista, la visione faustiana della tecnica, riallacciandosi alla sensibilità postmoderna che lotta per emergere nella cultura contemporanea (cfr. Hermes, le retour du sacré, Le Labyrinthe). Sempre a Faye dobbiamo del resto la chiaroveggente analisi sociologica sulla Nuova Società dei Consumi (pubblicata in italiano da l'Uomo libero n. 20) o il rilancio di modelli economici alternativi basati su grandi spazi continentali autocentrati e semi-autarchici (vedi l'articolo "Per l'indipendenza economica", pubblicato in italiano da l'Uomo libero n. 13). E potremmo continuare a lungo, a partire da quanto altro tradotto in italiano su questa rivista.


    Del resto, a fronte della mia esperienza diretta di realtà italiane che si distinguevano nell'associare paradossalmente "frazionismo" e conformismo, l'azione di Faye nell'ambito della Nouvelle Droite coniuga sino all'estremo disciplina e libertà di spirito, così che lo stesso è uno dei pochi a raccogliere davvero, con altrettanti "sassi nello stagno". l'invito al "dibattito interno" - concetto che ha preoccupato per un certo periodo gli esponenti del movimento, ossessionati dall'idea di diventare, o essere percepiti come, una "setta".


    Ricordiamo ad esempio Sexe et idéologie, citato anche da Maurizio Cabona in C'eravamo tanto a(r)mati ("Fare l'amore non significa necessariamente fare la rivoluzione, ma fare la rivoluzione - in particolare culturale - può condurre a fare l'amore in modo diverso..."), in cui l'autore esplora i lineamenti di una possibile morale sessuale alternativa, al di là di posizioni, molto francesi, che si volevano formalmente pagane, per non dire libertineggianti, per finire in realtà nella più trita convenzione cattolica e piccolo-borghese.


    Ma altrettanto "forti" erano già all'epoca gli interventi sulla questione religiosa ed all'atteggiamento in materia del GRECE. È esperienza comune che quando nel neo-paganesimo, la particella "neo" viene gradualmente dimenticata, subentra facilmente l'ossessione per la "positività" e la "legittimazione". Dopotutto, mentre è perfettamente possibile essere l'unico, o l'ultimo, cristiano, musulmano o ebreo al mondo, la "religione" dal punto di vista pagano è ciò che "lega insieme" un popolo, e che lega questo alle sue origini.


    Ora, dal momento che il paganesimo innegabilmente non è più una religione positiva, o si ha il coraggio tragico e zarathustriano di tentare consapevolmente la creazione di forme originarie e di nuove "tavole dei valori", certo ispirate dal passato che ci si sceglie, ma da esso distinte, oppure diventa assolutamente centrale la ricerca di una "legittimazione" di qualche tipo. Questa per i tradizionalisti evoliani o guenoniani finisce regolarmente per essere esoterica ("i Saggi nascosti, il Re nella Montagna, la Tradizione Occulta", etc.), salvo poi finire per confluire in molti casi nell'Islam, in qualche variante minoritaria del cristianesimo cattolico o ortodosso, o peggio in sincretismi vagamente massonici o New Age. Per il GRECE invece, come prima ancora per il movimento voelkisch degli anni trenta tedeschi, tale ricerca di legittimazione è stata ed è, anziché metafisica, essenzialmente "sociologica", e portata a valorizzare come "politicamente" importante qualsiasi fossile di credenza o abitudine popolare di cui si possa ipotizzare un'origine autoctona, precristiana o semplicemente a-cristiana, dalla "festa del coniglio" alle "statuette della felicità", e via folkloreggiando.


    Rispetto a tutto ciò, è di nuovo Faye a rivendicare con un famoso articolo su Elements le ragioni di un paganesimo laico, solare e postmoderno e apertamente nietzscheano, distinguendosi nettamente dalla ossessione della "ninfa dietro ogni cespuglio" e dalle manie da "cattolicesimo invertito" di molta parte del movimento, così condizionato dalla rivalità con le confessioni cristiane da finire talora per scimmiottarle. Articolo profetico rispetto alle "evoluzioni" di un de Benoist, che partito dall'interesse per l'empiriocriticismo e l'epistemologia russelliana o popperiana, finisce paradossalmente, dopo Come si può essere pagani? e una parentesi heideggeriana, a discutere con cristiani ed ebrei di metafisica o di valori comuni, di matrice sostanzialmente neoplatonica o neostoica, sulla cui base poter attribuire la palma della superiorità morale a Seneca o a Paolo di Tarso o meglio opporsi alla secolarizzazione (vedi L'éclipse du sacré).


    ***


    Se qualcuno vuole i dettagli della fine di un sogno, non ha che da leggere le pagine della nuova, lunga introduzione di Robert Steuckers a Il sistema per uccidere i popoli, che si è aggiunta alla mia nell'ultima edizione già citata del libro di Faye.


    Verso la fine del 1986 la crisi annunciata dal profetico abbandono di Giorgio Locchi ("tutto ciò che è di moda passa di moda...") viene a maturazione. Gli originari animatori del GRECE, quando non sono stati semplicemente recuperati dal Sistema, si sono da un lato rinchiusi in una dimensione di pura testimonianza, dall'altro si sono sempre più marginalizzati dalla vita dell'associazione, affidata a burocrati principalmente impegnati a raccogliere fondi per pagare personale dedicato a raccogliere fondi per pagare personale dedicato a raccogliere fondi, e così via, in una degenerazione stile Scientology [alias]. Altri hanno deciso di giocare la carta del Front National di Le Pen, a suo tempo duramente snobbato, ed ora in posizione di snobbare a sua volta la Nouvelle Droite, che non viene più percepita come un soggetto dotato di un progetto storico o politico qualsiasi, ed appare ridotta ad un produttore di conferenze e pubblicazioni dalle ambizioni limitate.


    I temi delle pubblicazioni d'area (in sostanza Elements, Nouvelle Ecole e il suo doppione dall'infelice titolo di Krisis) si fanno sempre più rarefatti e letterari. È lo stesso de Benoist , in una sorta di regressione romantica, a confessare a Faye a metà degli anni ottanta di essere progressivamente sempre più interessato alle immagini che alle idee, al punto che quest'ultimo in una conversazione privata con me nello stesso periodo descrive la contrapposizione allora presente nell'ambiente come quella dei "germanomani non sovrumanisti" a quella dei "sovrumanisti non germanomani".


    Tra le conseguenze di tale deriva progressiva, va annoverata l'estremizzazione dell'operazione consistente nel richiamo e valorizzazione dei più strampalati componenti e settori della Rivoluzione Conservatrice per tanto che gli stessi possano vantare una qualche dissidenza rispetto ai regimi fascisti degli anni trenta. Ed ancora, la progressiva concentrazione su temi di carattere sostanzialmente storico, letterario e mitico a scapito dei grandi argomenti di natura sociologica, tecnoscientifica, politica, economica su cui negli anni precedenti il movimento non aveva esitato a prendere posizioni fortemente originali ed innovatrici.


    A fronte della crescente pressione della censura e del "pensiero unico" il movimento risponde del resto con una crescente compromissione sui temi decisivi, paradossalmente accompagnata da un irrigidimento su questioni secondarie e da "fughe in avanti" difficilmente comprensibili per il proprio pubblico immediato, come le strizzate d'occhio ad un filosovietismo del tutto onirico alla Jean Cau. Anche la capacità di non farsi mai rinchiudere nelle antitesi del dibattito politico contemporaneo (nazionalismo-cosmopolitismo, liberalismo-socialismo, aborto si o no, ecologismo-antiecologismo, femminismo-antifemminismo, imperialismo-anticolonialismo, comunismo-anticomunismo, etc.), per opporvi le proprie, si stempera e si trasforma in un'incapacità di prendere posizioni sui problemi centrali del nostro tempo, o nel gusto della battuta brillante e dello slogan fine a se stesso, puramente intellettualistici.


    Vengono poi al pettine i nodi degli errori politici e propagandistici commessi. Primo tra tutti l'ossessione di essere presi per una qualche sorta di "Internazionale nera", e la mancata comprensione del potenziale di una dimensione veramente internazionale, pure facilmente accessibile; ad esempio in termini di capacità di superare crisi locali contingenti, di diminuita vulnerabilità alla repressione ed al black-out mediatico, di mobilitazione mitica dei militanti. Secondariamente, pesa negativamente il progressivo svuotamento della funzione centrale del GRECE (del resto progressivamente preda del micro-leninismo dei funzionari sopra descritti e sempre più asfissiante nel suo tentativo di sopravvivere a se stesso e nella sua improduttività metapolitica) a favore di una supposta "corrente" e "comunità", i cui confini ed identità quanto mai indefiniti si ipotizzava fossero meglio atti a creare e mantenere la ricchezza, varietà ed organicità tipica dei grandi movimenti culturali e di costume; e soprattutto ad evitare i colpi della reazione, penetrare i gangli del potere culturale ed evitare la paventata "trasformazione in setta". Infine, finisce per diventare insostenibile per molti l'ambiguità rispetto ai temi della politica politicante, i cui contenuti vengono giustamente respinti come inessenziali, ma che pure finisce per condizionare negativamente. per una sorta di "angelismo", di "neutralità" di maniera, tutte le prese di posizioni pubbliche di Alain de Benoist, che pure non aveva esitato negli anni settanta, sponsor Maurizio Cabona, ad assumere la titolarità di una rubrica sul Candido di Giorgio Pisanò, gazzetta non esattamente arcadica.


    A questa involuzione non può rimediare da solo Guillaume Faye, con un incessante animazione di iniziative sempre più personali e "parallele" - dalla trasmissione radiofonica postmoderna Avant-Guerre, alla creazione di sigle ed attività come l'Institut des Arts et des Lettres o il Collectif de Réflexion sur le Monde Contemporain -, portate senza un soldo, un appoggio o una sponsorizzazione, e guardate con indifferenza, sufficienza e poi crescente ostilità dai vertici del movimento, apparentemente già più interessati, quando pure non si occupavano di contabilità, ai misfatti dell'arte moderna, alla poetica sugli elfi nella Sassonia del quindicesimo secolo o ai decisivi dibattiti con Thomas Molnar sulla questione se il divino si esprima "nel" mondo o "attraverso" il mondo.


    Il finale abbandono di Faye diventa così - con la morte di Locchi, del resto uscito dal giro molti anni prima, all'apparente apogeo della parabola della Nouvelle Droite - il simbolo della conclusione di un ciclo, e l'inizio di un periodo di relativa smobilitazione in tutta Europa, che vede alcuni rinchiudersi nella politica tradizionale, altri nel proprio privato, molti in confortevoli "cappelle" locali con contatti sempre più ridotti con l'esterno. Senza animare scissioni, senza tentare di portarsi via né un franco né un indirizzo, senza tanto meno "convertirsi" alla Marco Tarchi, Guillaume Faye si ritira per una decina d'anni nell'ombra, mentre il GRECE, naturalmente senza pagare diritti d'autore, continua ad utilizzarne gli scritti, non senza che vengano tollerate voci voci secondo cui Faye è impazzito, ha il cervello bruciato dalla droga o è stato reclutato dalla CIA.


    ***


    In questo scenario, la sua riemersione, alla fine dei "maledetti" anni novanta che hanno visto lo sfaldamento di tante speranze e il trionfo del Sistema mondialista inutilmente denunciato e combattuto con incredibile lungimiranza, non può che rappresentare per me un presagio di buon augurio, e uno stimolo ad una ri-mobilitazione di ciascuno, con il consueto "pessimimismo della ragione, ottimismo della volontà" che non è altro che la logica di chi non può fare altrimenti, non può trovare una dimensione esistenzialmente appagante solo nella propria vita quotidiana, professionale e familiare.


    Che i dieci anni trascorsi non siano passati invano è ben illustrato dalla apparizione del saggio L'archeofuturisme, (Paris 1998, L'Aencre, 12 rue de la Sourdière, tel. 0033 142860692, fax 0033 142 860698, ordinabile a Librairie Nationale), ora tradotto in italiano sotto il titolo Archeofuturismo dalla Società Editrice Barbarossa, (ordinabile da Orionlibri) che in trecento pagine disegna un bilancio complessivo di trent'anni di dibattito politico e culturale europeo, spaziando dalla sociologia della concertazione, alla politica ed al significato culturale dello sport, al cinema, alla genetica, alla musica, all'omosessualità, all'immigrazione, alla globalizzazione, ai modelli economici, alla religione, all'ecologia, per concludere con una "novella" archeofuturista che costituisce un suggestivo pendant del Prologo del Sistema per uccidere i popoli: allora, la raffigurazione, all'epoca considerata "paradossale", di come il mondo stava in effetti per divenire con la vittoria del mondialismo; ora, la sconvolgente descrizione del mondo come potrebbe invece trasformarsi, in uno scenario "archeofuturista" altrettanto visionario, in cui trova un piccolo posto anche un... diretto discendente del sottoscritto, nella Milano del 2073.


    Come sempre, lo sguardo penetrante di Faye disegna nuove piste mai battute prima, unisce l'impensabile, spezza gli idoli ed i luoghi comuni del pensiero egemone, persino quelli del conformismo... del pensiero non-conformista, aiutando ciascuno di noi a pensare sino in fondo quello che già pensa. La rottura con la Nouvelle Droite, della cui esperienza disegna un bilancio equilibrato e scevro da ogni logica di ressentiment personale che pure avrebbe mille giustificazioni, rende ancora più libera ed impietosa l'analisi tanto delle tendenze dominanti (rispetto a cui ci vengono del tutto risparmiati le cautele di political correctness pure presenti in tanti scritti del movimento), sia delle carenze del mondo che ha cercato di difendersi ed affermarsi in opposizione ad esse, dalla riscoperta delle identità regionali alla difesa dei cinema nazionali alla opposizione politica militante.


    A L'archeofuturisme fa seguito, per la stessa casa editrice, una riedizione, "riveduta ed aumentata", del già citato Nouveau discours à la Nation Européenne, ed infine La colonisation de l'Europe. Discours vrai sur la colonisation et l'islam, che rappresenta uno dei più interessanti studi mai apparsi in materia di politica demografica, immigrazione e colonizzazione del nostro continente.


    Diciamo "studio" per sottolineare il grado di approfondimento, quanto mai insolito in saggi sull'argomento, della trattazione; ma non sarà certo una sorpresa, per i lettori che conoscono l'autore, apprendere che le intenzioni del libro non sono affatto "innocenti".


    "Molti hanno cercato di dissuadermi dallo scrivere questo libro. Mi avrebbe attirato delle noie. Non bisogna dire le cose come sono. È pericoloso, non capisci?. Avrei potuto scrivere un saggio illeggibile e pseudofilosofico, o vagamente sociologico, sulle virtù comparate dell'assimilazione, dell'integrazione e del comunitarismo. Ma l'intellettualismo borghese non mi interessa.

    [...] La scommessa della dissidenza è oggi la più feconda. È quella del pensiero radicale... Si tratta di ritornare - lungi da ogni estremismo - alla radice delle cose, ad attaccare le questioni fondamentali dell'epoca. Non si dibatte del sesso degli angeli quando i barbari assediano Costantinopoli. Ora, la questione principale dell'epoca, è quella di gran lunga più visibile, più eclatante, quella di cui tutti hanno paura di parlare, evidentemente, che non viene abbordata se non a mezze parole ed a bassa voce, , cioè la colonizzazione demografica che subisce l'Europa da parte dei popoli magrebini, africani ed asiatici e che si accoppia con un'impresa di conquista del suolo europeo da parte dell'Islam. Non è una curiosità politica, è un avvenimento storico rimbombante, senza alcun precedente nella storia europea per tanto che possa risalire la memoria. Si tratta innanzitutto di prenderne atto, di risvegliare le coscienze a questo fatto capitale. Non per ammetterlo e "conviverci". Ma per rifiutarlo ed intavolare il dibattito sulla maniera di combatterlo ed invertire la marcia.

    [...] È urgente. La casa è in fiamme. Non si tratta di fare folklore, né di insultare, né di sprofondare in deliri odiosi o nel razzismo da portineria, si tratta di affermare. Di affermarsi con rigore e determinazione, e di difendere il diritto imprescrittibile degli Europei a restare se stessi, diritto che viene a loro negato, mentre lo si riconosce a tutti i popoli del mondo. ... Il tempo delle prudenze metapolitiche è finito". E l'autore conclude: "In questo libro preconizzo la guerra civile etnica e chiamo alla riconquista".


    ***


    Potremmo continuare. Il libro contiene una quantità di dati, aneddotti, analisi, confutazioni, spunti che smascherano la censura e la disinformazione del Sistema sull'argomento, denunciano la gravità dirompente delle conseguenze socio-politiche ed economiche che si annunciano, mettono alla berlina le illusioni di controllare il fenomeno e le "soluzioni" preconfezionate su cui dibatte la politica politicante.


    Contiene anche numerose provocazioni feconde e dissacranti anche rispetto ad alcune idee o temi ormai dati per scontati tra gli oppositori del mondialismo. Leggiamo ad esempio, riguardo ai popoli del Terzo Mondo: "Non siamo noi ad aver "distrutto le loro culture", come pretendono i difensori - in fondo rousseauiani ed adepti del mito del buon selvaggio - dell'etnopluralismo, che siano di destra o di sinistra. Dopo il passaggio degli Europei, le culture arabe, indiane, cinesi, africane, etc. sono state cancellate? Per niente. Restano in realtà molto più vivaci e molto meno occidentalizzate ed americanizzate delle povere culture europee". O ancora: "In genetale, il pauperismo di molti paesi del sud del mondo non è la conseguenza del colonialismo o del neo-colonialismo, ma della loro incapacità di farsi carico di se stessi, persino quando possedevano enormi risorse naturali. Pensavo anch'io che il colonialismo europeo si fosse reso cinicamente responsabile, per gusto del profitto, del pauperismo del Terzo Mondo. È una visione intellettualistica che ho abbandonato".


    Un'altra tendenza di un certo successo in Italia di cui il libro fa sommariamente giustizia è quella, che Faye aveva liquidato proprio insieme alla Nouvelle Droite fin dall'inizio degli anni ottanta, ma che ora torna a riemergere proprio in quello che resta di quest'ultima a seguito della sua involuzione neotradizionalista, volta ad affermare l'esistenza di una Tradizione fondamentalmente unitaria, metaculturale e metarazziale quanto metafisica, di cui l'Europa avrebbe in passato partecipato, "paritariamente" (secondo l'Evola del dopoguerra), o addirittura "parassitandola" dall'Oriente (come in Guénon), e le cui vestigia sopravviverebbero eventualmente altrove. È ovvio che l'"antimodernismo" di tali correnti non è affatto sufficiente a fondare teoricamente una prassi politica e metapolitica di opposizione conseguente alla globalizzazione. Esse non rappresentano altro infatti che una variante "a segno invertito" del progressismo linearista, universalista, omologatore del Sistema, nella comune indifferenza alla sorte delle tradizioni concrete e plurali e della conservazione e sviluppo delle identità irriducibili di cui si compone la specie umana, a base di "unità trascendentale di tutte le religioni", così come di tutte le razze e culture (che rappresenterebbero al più gradini diversi in una gerarchia di valori comuni o di decadenza irresistibile).


    Ancora, Faye è molto chiaro nel rivendicare i limiti della tolleranza "politeista" all'Altro-da-sé, limiti del resto ben presenti anche alla reazione della romanità più consapevole e meno decadente, da Nerone a Celso a Simmaco a Giuliano, contro il colonialismo, l'intolleranza ed il settarismo di importazione medio-orientale venuti a pervertire l'ìdentità etno-culturale dell'impero.


    Sul piano più politico, un altro tema soggiacente a tutta la trattazione contenuta in La colonisation de l'Europe è la implicita scelta identitaria che rende fondalmente differenti le nature dei movimenti migratori interni, intraeuropei, e la colonizzazione da parte di popolazioni estranee. Questo aspetto merita di essere tanto pià sottolineato nel nostro paese, dove i vescovi predicano l'immigrazione di domestici e lavoranti filippini, bravi e "cattolici", e dove ogni transessuale mulatto brasiliano trova rapidamente lavoro sulle strade dopo essere sbarcato con un visto turistico in qualsiasi aeroporto, mentre le rare "esibizioni di muscoli" del regime vengono riservate a Croati, Albanesi, Bulgari, Yugoslavi, unici ad essere di quando in quando ributtati a mare con donne e bambini, attaccati nelle loro basi di partenza, concentrati negli stadi alla Pinochet da ministri dell'interno "di sinistra" che si vantano "gli ho dato la mia parola d'onore, li ho fregati", mentre il loro governo di appartenenza discute dell'ammissione all'Unione Europea di Israele e Turchia. Gli stessi processi linguistici in corso non sono innocenti. L'imposizione da parte dei media e del linguaggio burocratico del termine "extracomunitario" (termine che del resto a svizzeri od americani viene applicato solo nelle barzellette, e che significa oggi in sostanza "di colore") è assolutamente eloquente del tentativo di accreditare una pretesa comune appartenenza "repubblicana" e promuovere una implicita "solidarietà", poniamo, con un giamaicano di cittadinanza inglese, o con un connazionale di religione ebraica, in contrapposizione alla "estraneità" di un ungherese o di un croato. Anche questo serve infatti a negare e dividere l'identità europea, facilitandone la fagocitazione.


    D'altronde, il libro di Faye qui più specificamente commentato è soprattutto un invito alla riflessione, alle prese di posizione ed al dibattito. "Le tesi che sostengo non sono dogmi. Portare il dibattito sulle cose essenziali, elettrizzare le coscienze, questo è il mio solo obbiettivo. Io sono un provocatore. Informatevi sull'etimologia latina di questo termine".


    Raccolgo perciò l'invito dell'autore e continuando un dialogo personale ed a distanza che dura da almeno vent'anni, prendo posizione su alcune delle questioni sollevate.


    ***


    Un punto su cui io, Faye, e quel che resta della Nouvelle Droite, siamo assolutamente d'accordo è la critica ed il rifiuto dell'assimilazionismo, o del cosidetto "razzismo integrazionista".


    La provenienza francese della più forte denuncia di questa tendenza, sia nelle sue forme esplicite e consapevoli che nelle sue forme latenti, è significativa. È infatti la Francia (oltre che in misura minore gli Stati Uniti) la patria di elezione dell'ideologia integrazionista più dura. Ideologia astratta, irrealista, che prolunga il monoteismo politico nel giacobinismo, trova il suo seme stesso nella Francia dei Quaranta Re, della Rivoluzione, e del rifiuto del modello imperiale, a favore della negazione tanto di realtà politiche, etniche e culturali sovraordinate, che delle stesse nazionalità diverse stanziate nell'"esagono" francese, represse e cancellate per ottocento anni con una durezza ma soprattutto con una tenacia che ha avuto pochi uguali in Europa.


    Tale tendenza si rispecchia nella politica e cultura coloniale francese. Anche gli altri colonialismi non ne sono andati immuni. Ma se quello italiano e tedesco si apparentava soprattutto all'idea di espansione imperiale, se quello anglosassone era in fondo l'espressione di uno sfruttamento mercantilistico di una classe di avventurieri che si autoisolavano pressoché totalmente dalle comunità locali per ricreare caricature periferiche ed impermeabili della società inglese anche nella giungla del Borneo o nella savana africana, in Francia diventa un luogo comune lo scenario dei prefetti, dei burocrati e dei gendarmi preposti all'amministrazione dei territori e domini d'Oltremare secondo il modello centralista dello stato-nazione, e degli istitutori che insegnavano ai bambini senegalesi a ripetere in coro Ils étaient grands, ils étaient blonds, nos ancêtres, les Gaulois ("erano alti, erano biondi, i nostri antenati, i Galli"!), e, a frustate, ad apprezzare le virtù repubblicane.


    Questa tendenza, oltre ad essere ben nota nella sua versione "umanitaria", "missionaria" e "redentrice", abita tuttora profondamente, nella sua versione "dura", anche lo spirito di certa destra francese, specie gollista (cfr. Charles Pasqua o Alain Griotteray), a partire da un clamoroso fraintendimento del principio sacrosanto per cui un popolo non è (solo) una razza, ma è soprattutto è un progetto comune. Non è purtroppo estranea neppure ad ambienti italiani che si vorrebbero in qualche modo anti-immigrazione, o comunque favorevoli ad un controllo della stessa, ed in particolare ad alcune componenti meno consapevoli dell'ambiente leghista. La variante pratica e meno intellettualmente paludata di questa inclinazione corrisponde del resto alla versione piccolo-borghese e "di destra" della nostalgia di "un" proletariato, qualunque esso sia, di cui si sente evidentemente la mancanza. Quante volte sentiamo dire: "L'ospite deve rispettare le regole della casa", oppure "non ho niente contro gli immigrati se rispettano la legge / parlano la lingua / fanno un lavoro onesto / si comportano come gli altri / non sono invadenti / fanno la comunione ogni domenica / si vestono come noi / si comportano da 'persone civili'". Con sottintesi più o meno allucinatori sulla possibilità di rendere l'immigrato extra-europeo "come noi", possibilmente però più gentile, sottomesso, pronto a lavorare in nero, ed a basso costo, a tempo indeterminato, ed a prestarsi per sempre a fare "i lavori che gli europei non hanno più voglia di fare".


    La realtà è invece che l'assimilazionismo può funzionare con minoranze demograficamente già soverchiate ed etnicamente prossime, ma in tutti gli altri casi non è altro che una via accelerata al meticciato etnico e culturale anche per gli "assimilatori", allo sradicamento brutale e criminogeno e degli immigrati dalle loro identità, appartenenze e regole comunitarie, e necessariamente ad una militarizzazione crescente della società, posto che l'integrazione forzata, sino a che davvero non si realizzi una definitiva distruzione dell'identità degli ingredienti (tanto di quello allogeno che di quello autoctono!), può essere mantenuta soltanto attraverso una pressione costante, sostanzialmente poliziesca. A partire dai gruppi spontanei di prima socializzazione negli asili d'infanzia sino alla composizione del panorama urbano, i gruppi etnoculturali continuano infatti a separarsi come i componenti di un'emulsione di acqua e olio, al punto che quando i "bianchi" sono ormai divenuti irrilevanti, la rivalità etnica esplode, con intensità ancora maggiore, tra gli etiopi e gli egiziani, tra i nigeriani ed i senegalesi, tra i cubani ed i portoricani. Un famoso fumetto di Lauzier vede una donna bianca della periferia parigina intervistata da una giornalista sul razzismo rispondere "Ah, sì, abbiamo un bel problema nel nostro quartiere con l'ìntolleranza tra i bantù e i mandingo... Cosa? Noi francesi? Boh, di solito nessuno fa a caso a noi, siamo così pochi...".


    La stessa particolare crudeltà della guerra di Algeria rispecchia del resto l'insopportazione e l'incomprensione giacobina dei motivi per cui alcuni "francesi" di oltremare potessero ad un certo punto aver concepito dei motivi per ribellarsi e per tradire la "patria", posto che pelle, religione, usanze, lingua e geografia non erano che accidenti privi di peso nella visione idealista, astratta e burocratica della patria suddetta.


    Un equivalente contemporaneo alla ideologia colonialista modello "francese" è così l'idea, non inaudita neanche in Italia, non solo in ambiente leghista, ma ancora di più tra l'elettorato di Alleanza Nazionale e dei partitini cattolici del Polo, di accoppiare un eventuale e velleitario "controllo" o "limitazione" della immigrazione con una nazionalizzazione forzata degli immigrati e delle popolazioni etnicamente estranee che hanno già acquisito la cittadinanza, a base di petizioni popolari contro l'edificazione di moschee, di monolinguismo imposto, di divieti all'utilizzo dello chador (al punto da rimettere in discussione a tale scopo la tolleranza da sempre in essere per le suore cattoliche),, etc. Atteggiamenti che riproducono esattamente tanto la repressione centralista tradizionale contro le minoranze autoctone, specie in Francia (come ben sanno corsi, baschi, brettoni, normanni, occitani...), ma anche nel nostro stesso paese (cfr. il caso del Sud Tirolo), quanto d'altra parte il tipo di ideologia "colonialista" sopra descritta, che in questo caso sarebbe applicata ad una sorta di "ri-colonizzazione", puramente ideologica e ed a prescindere dall'elemento etno-demografico,... del proprio territorio nazionale e/o di "manodopera" alla cui importazione ci si è rassegnati.


    Anzi, nella prospettiva del "razzismo assimilazionista" francese, l'ibridazione ed il meticciato, al contrario che nella prospettiva "imperiale", italo-tedesca, non solo è irrilevante, ma è un fenomeno positivo in quanto condurrebbe, in tale visione, all'"assorbimento" ed alla "conversione", ieri del "colonizzato", oggi dell'immigrato, da trasformare in un "cittadino" della "repubblica". Ora, è facile notare che tale punto di vista non è altro che la versione "nazionale", "politicizzata" ed autoritaria, della globalizzazione e normalizzazione planetaria imposta dal Sistema, come la rivoluzione francese e Rousseau lo sono di quella americana e di Locke.


    Questo atteggiamento è certamente "razzista", in quanto prende in conto l'identità culturale ed etnica dell'Altro per abolirla ed integrarla ad un modello proprio, ma non ha nulla a che vedere con l'etnocentrismo identitario europeo (o del resto africano, giapponese, etc.). La dimostrazione della assoluta confusione mentale che regna al riguardo è data dalla definizione in termini di "pulizia etnica", con riferimenti più o meno espliciti al nazionalsocialismo (!) della supposta politica di stupro di massa in Jugoslavia, il cui risultato in termini procreativi non potrebbe che essere... diametralmente opposto a qualsiasi obbiettivo di difesa o "purificazione" della identità etnica cui gli stupratori appartengono. E qui siamo ancora tra gruppi che pur denotati da forti rivalità storiche, e perciò da un'inevitabile accentuazione polemica delle differenze esistenti, vivono nella medesima regione da secoli, e presentano da secoli un forte intreccio di componenti politiche, linguistiche, genetiche, religiose, eccetera, che non ha nulla che vedere con la ipotizzata convivenza, negli stessi quartieri e negli stessi stabili, di popolazioni provenienti da tutti i possibili estremi dello spettro offerto dalla specie umana e dalla geografia.


    Così, l'assimilazionismo "di destra" pensa tuttora di celebrare i propri complessi di superiorità nel tentativo di forzare gli immigrati (che si crede di poter importare "a comando", aprendo e chiudendo il rubinetto secondo le necessità congiunturali del momento) a diventare... caricature di europei, con la riserva mentale di avere una riserva di schiavi a pronta disposizione, esattamente come l'assimilazionismo "di sinistra" vede in fondo di buon occhio l'immigrazione per l'idea di convertire meglio gli extraeuropei alla democrazia, all'umanitarismo ed alle religioni "buoniste" locali, con la riserva mentale di avere una nuova massa di diseredati su cui rilanciare le vacillanti fortune delle proprie strutture militanti. E' quasi inutile rilevare come nel medio termine i risultati sono destinatii a ripercuotersi inevitabilmente contro gli stessi apprendisti stregoni, posto che il tentativo di assimilazione forzata di importanti flussi migratori fortemente eterogenei genera in realtà, ancora più della politica "multicomunitarista" della società a macchie di leopardo, costi sociali (e cioè alla fine costi economici!) spaventosi, odio e scontri razziali, ed una società povera, poliziesca, spaventata, ibrida, sperduta, confusa, violenta, in cui né gli interessi della borghesia bianca né i valori cattocomunisti hanno più grande corso, ed in cui la politica si trasforma in una questione di pure appartenenze di tipo tribale.


    L'esplosiva situazione francese dei nostri giorni riproduce del resto, mutatis mutandis, il profondo riflusso vericatosi negli ultimi vent'anni nella nazione (o per meglio dire nel paese, essendo il concetto di nazionalità inappropriato a tale formazione politica), che del melting pot fa il suo stesso mito di fondazione, ovvero gli Stati Uniti di America, in cui sono le stesse "minoranze", o meglio le stesse componenti etniche meno favorite, a ri-ghettizzarsi, ricreando comunità omogenee in diffidente convivenza o aperto conflitto con le altre confinanti, dotate della propria vita sociale, civile e religiosa, della propria economia locale più o meno legale, dei propri leader, etc.; ed in cui l'"integrazione" tende al più, persino a livello di discorso teorico, a restare la provincia di alcune "zone franche" ed istituzioni comuni, come le forze armate, lo show-business, lo sport professionistico, etc., più che a permeare la vita quotidiana della massa della popolazione.


    Con alcune significative differenze, che Faye è il primo a ricordare. Prime fra tutte il fatto che gli Stati Uniti a differenza dei paesi europei si sono formati proprio a partire da una scelta, da un progetto collettivo di rifiuto delle identità e delle appartenenze organiche (pure come si è detto costantemente riemergenti), rifiuto che ne costituisce la stessa ragione d'essere; che tale paese gode tuttora di risorse e spazi immensi, non solo in senso geografico, dove disparate comunità etniche, religiose, etc., diverse possono permettersi, almeno al di fuori dei grandi conglomerati urbani, una condizione di relativa segregazione; che alla natura composita della base sociale americana fa riscontro un'immigrazione, legale e clandestina, fortemente limitata, ed organizzata sulla base di un sistema di quote, e non una invasione selvaggia di disperati allogeni; che infine il potere di "riduzione" e "controllo" delle identità da parte del sistema americano è comunque il più efficace del mondo, anche a partire dagli enormi mezzi di cui il sistema di potere locale dispone, grazie tra l'altro al suo dominio sul resto del mondo.


    Per non contare il fatto che la società americana è molto più brutale e pragmatica (cosa del resto normale per una società di "pionieri", o almeno di loro eredi) di quanto piaccia pensare o sa oggi tollerabile in Europa. Rispetto ad un sistema giudiziario certo più "garantista" in alcuni sensi del nostro, il cittadino americano convive benissimo, non tanto con un pena di morte raramente e tardissimamente irrogata oltre che oltremodo costosa (il costo per le procedure relative viene quantificato in molte centinaia di migliaia di dollari per ciascuna esecuzione), ma molto più concretamente con una popolazione carceraria di entità dieci volte superiore a quella italiana o francese, con un diritto penale basato su pene edittali elevatissime, e con metodi di controllo sociale - dall'inesistenza di una previdenza degna di questo nome al comportamento pratico sul territorio dei vari law enforcement officers - alquanto spicci per i nostri standard attuali.


    ***

    Merita ugualmente di essere condivisa la critica radicale di Guillaume Faye alla posizione, rispetto ai problemi posti dalla colonizzazione dell'Europa, dell'attuale Nouvelle Droite., i cui esponenti propongono oggi come alternativa all'entropia socio-culturale mondiale ed allo snaturamento della civiltà europea il fantasioso scenario di una società multiculturale e multietnica di comunità differenti, radicate ciascuna nella propria specifica identità, sul... territorio europeo!


    <>La rivista Eléments, sin dal 1998 (n. 91), ha pubblicato infatti un dossier intitolato "La sfida multiculturale", annunciato in copertina con l'immagine di una donna magrebina velata che urla con un megafono di fronte alla CRS (la celere francese) in assetto da ordine pubblico. Tale dossier, che avevo letto con attenzione data l'autorevolezza che conserva per me malgrado tutto la sede in cui è stato pubblicato, è estesamente citato in La colonisation de l'Europe, che ne critica innanzitutto il titolo. La parola "sfida", dice l'autore, suggerisce che l'immigrazione di massa, la colonizzazione demografica che subiamo sia una sfida da accettare, un dato cui far fronte e cui adattarsi. "Questo è fatalismo ed etnomasochismo. E poi, perché dire 'multiculturale' quando il problema è multirazziale e multietnico? Perché cancellare questa dimensione antropo-biologica e religiosa dell'immigrazione, quando siamo di fronte all'arrivo massiccio di popolazioni radicalmente allogene e di un monoteismo teocratico, l'Islam, e non all'apporto 'arricchente' di 'nuove culture', come sfortunatamente suggerisce Eléments? Questo atteggiamento concorre oggettivamente a travestire la realtà rendendola neutra, 'simpatica', accettabile, a far passare una colonizzazione aggressiva per una presenza pacifica e fraterna di 'altre culture'. Si concorre così all'affermazione del discorso della sinistra e dell'episcopato: l'immigrazione sarebbe una ricchezza (culturale, etc.) per l'Europa. Trovo sia un peccato che in nome di un antigiacobinismo perfettamente condivisibile gli intellettuali della Nouvelle Droite attuale siano caduti in una tale trappola. Come se il multiculturalismo non fosse già una ricchezza europa autoctona, come se avessimo bisogno di afromagrebini e musulmani... per arricchire il nostro naturale pluralismo di identità tra europei".

    Secondo l'editoriale del numero in questione della rivista, "come ogni fenomeno postmoderno, il multiculturalismo [...] cerca di conciliare la memoria e il progetto, la tradizione e la novità, il ocale e il globale; rappresenta un tentativo di sottrarre alla omogeneizzazione istituzionale ed umana" realizzata dallo Stato repressivo e terapeutico. Il multiculturalismo ed il "comunitarismo" (nel senso di promozione della costituzione e mantenimento di comunità differenziate per ragioni di appartenenza) consentirebbero così di "facilitare la comunicazione dialogica e perciò feconda tra gruppi chiaramente situati gli uni rispetto agli altri" ed offrirebbe "la possibilità per coloro che lo auspicano di non dover pagare la loro integrazione sociale con l'oblio delle loro radici".


    <>Ora, si chiede Faye: ma perché mai le loro radici dovrebbero affondare qui da noi? A tale ovvio rilievo, rinforzato dalla facile constatazione che nessun paese extraeuropeo, paesi a forte emigrazione compresi, si sogna di consentire ad altri popoli, costituiti come tali, di tentare qualcosa del genere sul proprio territorio, possiamo aggiungere che tale visione, per quanto possa apparire "moderna", "realista", "costruttiva", "spregiudicata", risulta in realtà fatalista, conservatrice, e soprattutto perfettamente irreale. Ad ogni immigrazione corrisponde necessariamente una emigrazione, che impoverisce, distrugge ed altera i naturali equilibri e le tradizioni della cultura di appartenenza, tanto nel paese abbaandonato quanto ovviamente ancor più nella popolazione trasferita. Con tutta la simpatia per gli sforzi degli emigrati italiani di conservare una loro identità nei paesi di accoglienza, non crediamo qualcuno possa provare nostalgia per i paesi svuotati e abbandonati a vecchi, criminali, parassiti, o per la caricatura di "società italiana" ricreata alla meno peggio nelle varie Little Italy da vari disperati in bilico tra la tentazione di integrarsi e la tenace conservazione di abitudini prive di un significato che non sia puramente folcloristico.

    Per non parlare della staticità di tale visione, che non considera i flussi in atto, e la loro potenziale capacità di espellere a termine dal territorio le popolazioni autoctone, dal punto di vista fisico, demografico e politico. Faye fa a questo proposito l'esempio del Kosovo, culla della nazionalità serba e divenuto oggettivamente albanese malgrado gli sforzi militari del regime di Belgrado, ma tale esempio non ci sembra appropriato, perché si tratta di fenomeni che restano ad un livello in certo modo superficiale, puramente politico e al più linguistico. Un modello più calzante di ciò cui la "società multiculturale" potrebbe portare l'Europa, è forse quello di ciò cui ha portato l'"arricchente", certo "diversificante", immigrazione extra-americana ai nativi dell'America del nord. Davvero gli amerindi si godono una società "multiculturale"? Solo se per tale definizione è sufficiente la sopravvivenza di quattro alcolizzati che fumano il calumet per i turisti nelle riserve, i cui figli d'altronde al 95% parleranno solo inglese ed esprimeranno la propria identità al massimo scegliendo a scuola se aggregarsi ad una banda di teppisti portoricani o cinesi. In ogni modo, questa prospettiva, che secondo Eléments concilierebbe "la memoria e il progetto", non ci sembra davvero lasciare alcun spazio né alla prima né al secondo.


    Certo, è più trendy, ed anche demagogico (almeno tra gli immigrati stessi e gli intellettuali condizionati dalla political correctness), "prendere atto" del carattere pretesamente "irreversibile" della ripopolazione già in essere, ed addirittura del fenomeno migratorio tuttora in atto, e studiare "soluzioni" a partire da questo dato. La soluzione proposta d'altronde è nelle sue ultime conseguenze esattamente quella combattuta sotto il nome di Sistema, di americanizzazione, di mondialismo o globalizzazione. Lo sradicamento territoriale, la proletarizzazione, lo spezzarsi di ogni legame comunitario ed identitario sulla scala che davvero conta, che è quella dei soggetti politici (l'impero, lo Stato-nazione, il popolo, la regione) trova una compensazione puramente virtuale, consolatoria e consumistica a livello di parrocchie, cappelle, "consigli degli anziani" nelle "riserve", scuole per stranieri, bocciofile tra emigrati di uguale provenienza, etc. Questo non è nemmeno il modello americano, dove esistono comunque valori federanti, se non altro appunto in negativo, è il modello dell'apartheid, dello "sviluppo separato delle culture" di sudafricana memoria, che non pare finito troppo bene per nessuna delle comunità coinvolte, salvo forse per gli interessi dei circoli affaristici anglo-ebraici locali; e modello che di sicuro non gode neppure di buona stampa in Europa e nel Terzo Mondo, se è questa che deve davvero essere la nostra preoccupazione principale.


    Non si può sfuggire a questa realtà facendo poesia. Leggiamo ancora in Eléments: "Negli ultimi trent'anni, il mondo è entrato in una nuova era marcata dalla disseminazione e reticolazione: le piramidi cedono il posto ai labirinti, le strutture alle reti, il verticale all'orizzontale, i territori ai flussi". L'immigrazione non sarebbe altro che un epifenomeno postmoderno, parte di un processo mondiale, accettabile ed ineluttabile, cui sarebbe illusorio e reazionario opporsi. Ora, sorprende come sfugga agli autori del dossier quanto tale idea risulti impregnata di determinismo e di un fatalismo davvero sorprendento in un movimento di pensiero fondato intorno al rifiuto della visione lineare, provvidenzialista o progressista che sia, della storia. Come nota Faye, tradisce inoltre una mancanza di prospettiva geografica e storica (il fenomeno in questione, a differenza della "globalizzazione" contro cui pure si combatte, non ha affatto scala globale; e l'esperienza del passato è ricca di esempi di intensi scambi che non hanno affatto condotto alla distruzione dell'identità e del tessuto sociale dei relativi protagonisti). Ancora, per "anticolonialismo", questo aspetto caleidoscopico, questa natura reticolare del mondo contemporaneo, attribuisce un diritto di spartizione e colonizzazione del territorio e della società esclusivamente alle popolazioni extraeuropee spinte a trasferirsi da noi, il che è quanto meno difficile da giustificare. Infine, dopo tanto parlare di "comunità e società", questo discorso comporta la rinuncia a (ri)costituire l'Europa ed i singoli paesi che la compongono in una struttura comunitaria ed organica, a favore appunto dell'impiantarsi sul nostro territorio di una "società di comunità" più o meno utopisticamente confederate da un contratto sociale basato su puri interessi comuni.


    Questo genere di tesi si apparenta a due ordini di ragioni. Il primo, una deriva ed un equivoco di fondo di ordine ideologico. "Si comincia" nota Faye "a difendere a giusto titolo una concezione politeista della società, contro l'universalismo assimilatore, il centralismo giacobino, il repubblicanesimo egualitario che nega le comunità organiche e le appartenenze etniche a profitto di un individuo astratto, puro consumatore sradicato, 'cittadino' disincarnato. Questa visione si oppone al modello americano (e francese) di Stato, il cui 'crogiolo' pretende di omogeneizzare i popoli in una massa nazionale animata eventualmente da un patriottismo astratto, ed in pratica da valori cosmopoliti". Questa visione mira all'inizio a difendere le identità dei popoli europei contro il centralismo degli Stati-nazione prima, e contro l'universalismo messianico e tecnocratico del Sistema poi, che mirano a radere al suolo differenze ed appartenenze; è una visione sì "plurale", ma etnica, radicata. Poi si tracima: il principio di etnopluralismo è esagerato, pervertito. Si scorda la nozione di prossimità etnica. Si mettono sullo stesso piano le sacrosante rivendicazioni autonomistiche ed identitarie dei brettoni, dei tirolesi, degli scozzesi, dei baschi, dei corsi o... degli italiani del nord - rivendicazioni centrate non da ultimo proprio sui flussi demografici e sul mantenimento del controllo economico ed etnoculturale del proprio territorio contro la minaccia di colonizzazione -, e la creazione, addirittura auspicata, di spazi di contropotere di comunità immigrate sul nostro territorio.


    Giungiamo così al punto che Carpentier, sempre Eléments, arriva a scrivere: "In una società plurietnica le culture non devono essere soltanto tollerate nella sfera privata, ma riconosciute nella sfera pubblica, in particolare sotto forma di 'diritti collettivi' specifici delle minoranze". Bel quadro davvero. Se il successo di tale tesi si estendesse anche agli ambienti dell'immigrazione anche noi europei di origine, una volta divenuti minoranza, potremo (forse) continuare a regolare i nostri affari interni. Ciò in attesa di essere semplicemente estinti, dopo aver debitamente collaborato con il nostro esempio di resa alla occidentalizzazione ed al suicidio culturale degli immigrati stessi. E non si speri che la tolleranza, o addirittura la promozione del potere delle comunità immigrate sui propri membri abbia effetti limitanti sulla devianza sociale criminale di questi ultimi, Le esperienze storiche di "politica del ghetto" stanno a dimostrare come tali aspettative siano del tutto utopistiche.


    Ugualmente, il richiamo fatto in proposito dalla Nouvelle Droite attuale al modello imperiale, al politeismo politico ed al "diritto alle differenze" appaiono del tutto fuorvianti. Si tratta infatti esattamente di respingere con la immigrazione la riduzione forzata delle differenze e delle appartenenze radicate e plurime, imposta da un monoteismo pratico (l'universalismo dei diritti dell'uomo e dell'indifferentismo tramite folclorizzazione, che in parte cammina anche con le gambe di monoteismi religiosi, in particolare in variante islamica), snaturamento livellatore che rappresenta esattamente la negazione di tale "politeismo". Particolarmente mal scelto risulta in particolare l'esempio dell'impero romano, quando è proprio la Nouvelle Droite ad aver tante volte sottolineato le conseguenze della sua tragica inclinazione, malgrado occasionali soprassalti di consapevolezza, a considerare superficialmente il dio giudeocristiano "un dio come tutti gli altri" e a concedergli affrettatamente cittadinanza.


    Una seconda componente, quasi più psicologica che ideologica, di questo tipo di posizioni è la disperata convinzione che la presenza di comunità organizzate, tradizionaliste ed antioccidentali sul nostro territorio limiti il meticciato (una sorta di "fiducia nel razzismo altrui") e possa persino indurre gli europei a riscoprire, per contrasto e per imitazione al tempo stesso, la propria identità. Tale convinzione non ha alcun fondamento reale. Innanzitutto, una componente comunque significativa dell'immigrazione mira decisamente e spontaneamente alla integrazione, ed i matrimoni misti, per quanto in media poco stabili, inevitabilmente si intensificano, così come si imbarbariscono le lingue e si alterano i costumi. Lo stesso improponibile sistema delle caste indiano, tragico tentativo di una infima minoranza conquistatrice di non essere riassorbita dalle popolazioni conquistate, mostra l'inevitabile erosione di politiche di questo genere; ma qui siamo di fronte non ad una società stabile, bensì ad una alluvione migratoria incontrollato, tuttora in atto, eterogenea anche al proprio interno, e denotata da una dinamica demografica superiore a quella delle popolazioni autoctone. In certo modo, questa posizione si apparenta alla cultura puramente difensiva dell'estremismo "bianco" e boero sudafricano, che alla fine del regime non appoggiava affatto il governo "nazionale", ma si diceva: siamo qui da quattro o sei generazioni, siamo qualche milione, in cosa siamo diversi dagli Zulu, facciamo come loro, e trasformiamoci in una tribù, gelosa custode dei propri interessi collettivi in competizione con le altre, invece di farci carico di tutti i "problemi". Un livello di ripiegamento che nell'Europa contemporanea sembra ancora francamente eccessivo.


    Del resto, gli immigrati che rifiutano invece l'assimilazione riescono benissimo ad essere antieuropei - e perciò a richiamarsi polemicamente e propagandisticamente a temi identitari ai fini della propria affermazione come gruppo nella nostra società, siano essi politicanti, intellettuali, mafiosi, o teppisti di quartiere - senza essere senza davvero anti-occidentali nei comportamenti e nei valori pratici. La cosa è dimostrata dalla pochissima voglia che hanno di ritornare in paesi di provenienza - il cui stile di vita e le cui regole, specie per le donne, i giovani e gli intellettuali, gli sarebbero ormai inaccettabili - anche una volta che abbiano "fatto fortuna", ed è perciò cessata la spinta della "fame" decantata dagli immigrazionisti. La rivendicazione di quote riservate od orari speciali nella pubblica amministrazione per i musulmani, non si accompagna perciò che molto raramente all'aspirazione a ritornare in paesi dove la libertà di parola è sconosciuta, il consumo di alcol è bandito, il clitoride considerato un inutile ornamento di cui liberare al più presto la sfortunata portatrice, e il taccheggio viene punito con amputazioni al termine di processi sommari. Del resto, la "fame" in senso letterale è un fattore del tutto secondario nella nuova tratta degli schiavi suscitata dal sistema. Ciò è in particolare dimostrato dal fatto che l'immigrazione proveniente dai paesi in cui le condizioni di vita sono oggettivamente peggiori è più modesta rispetto a quelli in relativamente agiati, in cui può essere utilmente agitato sotto il naso delle masse il modello consumista; dove e perciò possono essere più facilmente generati conflitti sociali e culturali tra le rutilanti immagini diffuse dalle televisioni via satellite ed una realtà locale non solo più austera, ma dove resta forte il controllo sociale dei modi di vita tradizionali.


    Una variante ancora più implicita, o addirittura inconscia, di queste convinzioni "multicomunitariste", è la speranza non detta che nell'instaurarsi del caos etnico-religioso, nel disfacimento del controllo sociale, nell'attribuzione di diritti collettivi alle "tribù" di cui si avvia ad essere composta la società europea, potrebbe scappare negli interstizi una chance per minoranze "scorrette", ad esempio antiegualitarie, pagane, "fasciste", di essere "lasciate in pace", o addirittura autorizzate, nel quadro del caleidoscopico patchwork "multiculturale", ad autocostituirsi ed autoregolarsi in qualche misura come "comunità" alla pari con le altre, con l'opportunità di farsi polo di attrazione e/o incarnazione residua della "tribù europea" . Questo naturalmente rappresenta la rinuncia ad ogni sogno di "Grosse Politik" e l'accettazione del modello, non a caso statunitense, degli Amish, o dei Mormoni fino agli cinquanta, contenti di vivere rinchiusi in un ambiente delimitato ove mettere in qualche modo in pratica le loro idee - in questo caso senza neppure uno Utah disabitato dove emigrare per sfuggire alle "contaminazioni". Ed in effetti, nella migliore (e più improbabile) ipotesi, la realizzazione di queste speranze porta dritta al "sogno americano", dove tutto può essere detto - persino ciò che in Italia, Germania e Francia ti porta oggi dritto in galera - e dove... nulla di ciò che dici ha comunque la benché minima importanza, tranne che eventualmente per il tuo piccolo codazzo di "spostati".


    Ma naturalmente questi discorsi nel nostro continente non sono altro fantapolitica salottiera. Non solo mancano gli spazi e la "cultura" per implementare un modello di questo genere, almeno sino al definitivo trionfo del Sistema, ma gli ambienti della immigrazione, al di là dei loro richiami identitari che in Europa appaiono puramente demagogici e "sindacali", sono completamente recuperati ed integrati all'ideologia dominante. La eventuale malafede con cui, da minoranza, sacrificano ovviamente ogni giorno all'altare dei Diritti dell'Uomo, del potere delle organizzazioni internazionali come l'ONU, dell'ecumenismo religioso (naturalmente solo tra religioni "del Libro"), non ha la minima importanza, posto che altrettanta "malafede" può essere ipotizzata anche nei centri del potere mondialista, senza che questo cambi minimamente i valori cui è oggi improntata la nostra società.. L'intolleranza verso valori realmente alternativi cresce, anziché diminuire, con l'instaurarsi del caos etnico nella nostra società, in cui la political correctness finisce anzi per diventare l'unico criterio di cittadinanza ed agibilità civile. Quando vedremo per la prima volta un esponente dell'immigrazione alzare la voce in difesa di un detenuto politico europeo anti-occidentale, o a favore della libertà di parola o delle minoranze etniche nel paese ospite, ne riparleremo.


    Ma c'è di più. Come nota Faye, l'"assimilazionismo forzato" è oggi un bersaglio polemico più che una prassi reale e coerente dei governi europei, che restano in realtà, nel loro sostanziale immigrazionismo, in preda ad un atteggiamento schizofrenico tra assimilazione e l'"etnopluralismo" che viene proposto come alternativa alla prima. Tra una campagna contro l'escissione femminile (ovviamente sappiamo perché la liceità della circoncisione neonatale maschile è un dato acquisito che nessuno osa rimettere in discussione...) e una protesta "verde" contro le stragi di montoni in qualche festività musulmana, sono sempre di più le voci favorevoli all'adozione di sistemi di quote e di "affirmative action", misure tipicamente comunitariste (se le razze e le religioni non "esistono", non hanno importanza, ovviamente non ha senso attribuire loro percentuali e posti), finanziamenti alle attività culturali e religiose dei gruppi allogeni, etc. Scrive Faye: "Se sei corso, alsazione, basco, fiammingo o brettone, avrai poche possibilità di ottenere una sovvenzione per una assocazione culturale, una scuola che insegna la tua lingua o la tua cultura, una iniziativa che arricchisce il tuo patrimonio etnico europeo (vedi a questo proposito la lotta per il riconoscimento delle scuole Diwan in Bretagna); ma se sei cinese, cingalese, nigeriano, e - soprattutto - arabo-musulmano, l'amministrazione sarà attenta alle tue sollecitazioni di finanziamenti, a Parigi come a Bruxelles. A Parigi le feste rituali asiatiche, i giornali "comunitaristi" sono in parte pagati dalla pubblica amministrazione. L'associazione degli Alverniati di Parigi, come quella dei Baschi o dei Brettoni non possono contare, da parte loro, che sulle proprie risorse. Il signor Tiberi, che ha senza dubbio dimenticato di essere corso prima di essere gollista e cittadino del mondo, a rifiutato di aiutare le associazioni di insegnamento della lingua corsa. Sarebbe sovversivo, capite bene... In compenso, i centri di insegnamento dell'arabo hanno ricevuto nel 1998 123 milioni di franchi, al fine di poter dispensare gratuitamente i propri servigi. A Parigi, apprendere l'arabo o il cinese è gratis. Imparare l'olandese, l'italiano o il brettone, è a pagamento".


    La tolleranza e l'opportunità concretamente offerta agli ambienti immigrati di praticare un contropotere territoriale reale, con sospensione dell'ordinamento giuridico ordinario e creazione di spazi ove è tollerata la violazione di qualsiasi norma, da quelle in materia di macellazione a quelle sulla bigamia a quelle sull'esercizio delle attività economiche, costituisce un'ulteriore esempio di discriminazione antieuropea, stante l'ossessione di controllo ogni più minimo dettaglio della vita sociale che tuttora denota le politiche comunitarie e nazionali, al di là della retorica della deregulation, e che continua ad essere applicato con mano pesante sulle popolazioni autoctone e sui territori non ancora a dominanza extraeuropea.


    ***


    Le idee di "governare la trasformazione", di "mettersi alla testa dei processi per governarli", di "affrontare virilmente la realtà", di tagliare gordiamente i nodi di qualsiasi dilemma in una sintesi superiore, sono perfettamente legittime in molti casi.


    Rischiano d'altronde in altri di farsi alibi alla smobilitazione, e di connotare posizioni storicamente perdenti e di fatto conservatrici. Dal dirigente belga rassegnato ad avere a che fare con Hitler "per mille anni" di cui racconta Degrelle, agli ambienti politici tedeschi convinti che il comunismo o la separazione della Germania fossero "realtà con cui comunque si dovrà sempre fare i conti", all'aristocrazia francese che porgeva il collo al boia, ai nazionalisti irlandesi alla Michael Collins che denunciavano l'"avventurismo irresponsabile" dell'indipendentismo radicale, molti, dopo aver ridicolizzato o criminalizzato come "utopisti" i propri rivali politici, si sono ritrovati a loro volta ridicolizzati dalla storia, talora nella speranza di "convivere" con le realtà della loro epoca e "controllarle", più spesso nella miope convizione che tali realtà fossero dati di fatto eterni.


    Ora, La colonisation de l'Europe è ben chiaro nell'affermare che, una volta che si rifiuta l'immigrazionismo selvaggio, etnomasochista e suicida degli ambienti più legati all'ideologia ed agli interessi del Sistema, l'alternativa non è tra il "controllo" e l'"integrazione forzata" dell'immigrazione da un lato, e la società neotribale dall'altro. È tra la resa a questo processo e l'autodifesa etnica globale.


    Autodifesa che si sostanzia in tutte quelle misure e reazioni immunitarie che in tutte le zone del mondo combattono, non "governano", eventuali minacce di ripopolamento e la colonizzazione demografica e culturale del proprio spazio storico e geografico.

    Questa "utopia" è tuttora la realtà quotidiana del Giappone, in cui, malgrado una sconfitta, un'occupazione militare ed un pesantissimo condizionamento politico, vediamo tuttora accompagnarsi ad un (pure contrastato) processo di occidentalizzazione dei valori una rimarchevole capacità di mantenere e sviluppare la propria omogeneità razziale, la propria dinamica demografica, la propria identità linguistica e modelli socio-economici originali. Esempi simili ci vengono del resto da prassi e mentalità, pur ovviamente contrastate, dei paesi islamici antioccidentali, delle due Cine, delle due Coree, dell'India; ed in verità, se ci si ferma al punto di vista giuridico, della maggior parte dei paesi del mondo, che a cominciare dagli stessi Stati Uniti e da Israele ben si guardano dal ritenersi osservatori indifferenti e passivi dei flussi di emigranti in entrata e della loro composizione etnica, linguistica e religiosa.


    E' del resto "irrealistico", impossibile - se non in senso logico o fisico, in senso umano e politico - che la piccola zona del pianeta coincidente con una porzione della penisola europea, le cui risorse naturali sono limitate e da secoli sfruttate al massimo, inquinata, tuttora (malgrado il declino demografico) relativamente sovrappopolata, dai delicati equilibri sociali, politicamente ed economicamente "schiacciata" dalla sudditanza a meccanismi e centri di potere internazionali, possa farsi ricettacolo di masse di disoccupati e profughi, di colonie criminali, di comunità eterogenee, di orde di schiavi ribelli, per di più destinati ad urbanizzarsi subito in misura pressoché integrale. Lo stesso improbabile scenario in cui "nulla succede", e l'evoluzione della situazione prosegue in modo lineare nella stessa direzione senza crisi significative, conduce diritto ad una immensa favela in cui bande etniche di disperati si aggireranno sulle spoglie di un territorio dilapidato e "postatomico", contendendosi (e finendo di distruggere) i resti del passato e le poche risorse rimaste, con piccole fortezze privilegiate, del tutto isolate, e pesantemente difese, da cui verrà amministrato il potere militare e culturale del sistema tramite carri armati telecomandati e antenne televisive, in un contesto comunque più simile a quello di Mad Max o 1997 Fuga da New York che di Metropolis o 1984.


    Per apprezzare tutta la "magia" di questa prospettiva, vale la pena di visitare, più ancora che i ghetti di Los Angeles o il Bronx - che dopotutto sono "privilegiati" dal fatto di trovarsi negli Stati Uniti - le periferie di Mexico City o di Rio o di Johannesburg, e del resto quello che si sta delineando nella banlieu parigina, che danno meglio l'idea di cosa il Sistema davvero riservi all'Europa.


    L'autodifesa di cui parla Faye non saprebbe del resto fermarsi alla sfera giuridico-amministrativa. Il problema non può in alcun modo essere risolto a livello "poliziesco", o di controllo delle frontiere, non fosse altro che per l'inadeguatezza assoluta, in termini culturali e di risorse, degli apparati statali. Questi ultimi sono del resto già pesantemente infiltrati, specie nei paesi in cui come la Francia a differenza che in Italia o in Germania vige lo jus soli (il cittadino è colui che è nato sul territorio) anziché lo jus sanguinis (il cittadino è il figlio di cittadini), ed in cui le minoranze in via di divenire maggioranza grazie alla "forza delle culle" prima ancora che dei continui rinforzi ricevuti, sono rappresentate in parte cospicua da immigranti di seconda e terza generazione. Il problema può perciò essere affrontato solo a livello di consapevolezza e mobilitazione sociale generale; mobilitazione esattamente dello stesso tipo che ha permesso alle minoranze basche in Spagna o germanofone in Italia di non essere sommerse e cancellate, o al Tibet di non trasformarsi sinora in una provincia cinese.


    Tale mobilitazione pratica e popolare ha inoltre il vantaggio di forzare molto più facilmente il quadro giuridico imposto dal Sistema e dalle ideologie dominanti, disgraziatamente oggi garantito a livello internazionale. Pur essendovi numerosissime misure utili, formalmente rispettose di tale quadro, che potrebbero rientrare nei poteri ordinari e nelle politiche di governi non paralizzati dal mito incapacitante della "società multietnica inevitabile" da "governare", Faye non si fa affatto illusioni che i processi in corso possano essere invertiti senza l'adozione di misure straordinarie al di fuori della legittimità borghese e socialdemocratica; misure che possono oggi nascere soltanto dal basso, e non certo da amministrazioni impotenti, da un lato in quanto asservite al Sistema, dall'altro in quanto in via di essere colonizzate, a partire dal livello locale, esse stesse.


    Diversamente, continueremo in Italia ad assistere al solito spettacolo di grida manzoniane, in cui per dare un simulacro di soddisfazione ad un'opinione pubblica inferocita l'Immigration Law nazionale diventa materia sempre più esoterica ed impossibile per gli avvocati che hanno il problema di ottenere che un manager giapponese o argentino possa venire a dirigere l'azienda italiana comprata dalla sua casa madre, mentre spacciatori, prostitute, abusivi di ogni genere e semplici disperati hanno di fatto libero accesso, e si comportano non da stranieri ma da occupanti già pochi mesi dopo essere sbarcati.


    Ciò mentre, come sottolinea Faye, nella maggiorparte dei paesi del mondo fuori dall'Europa gli immigati o gli stranieri presenti sul territorio non sono considerati né come coloni definitivi, né come rifugiati accolti in nome della religione dei Diritti dell'Uomo, ma come "visitatori" ed "ospiti", senza che a nessuno venga in mente di contestare le norme vigenti in materia di "preferenza nazionale" o di espulsione dei clandestini, quali ad esempio quelle applicate dal "cocco" islamico del Sistema, il governo dell'Arabia Saudita, che preoccupata dall'immigrazione asiatica "ha rinforzato la 'saudizzazione' della manodopera, con conseguente licenziamento del 90% degli stranieri, e rimpiazzo degli stessi con sudditi sauditi. Il settore privato è stato anch'esso costretto a seguire tale politica. Gli effettivi di ciascuna azienda devono comprendere almeno l'80% di sauditi" (Al Quds Al-Arabi, 1 Gennaio 1999).


    Infine, un altro punto fondamentale è toccato da Faye, sia pure per accenni, nella conclusione del suo libro, un punto che riprende l'analisi attuale della Nouvelle Droite per rovesciarne volontaristicamente le conclusioni.


    Se la cosa non può evidentemente diventare un'alibi al suicidio storico dell'Europa, è semplicemente vero che il mondo attuale è diverso da quelli che lo hanno preceduto, e che sta attraversando una crisi di passaggio epocale, rispetto a cui le due guerre mondiali, la rivoluzione industriale, le rivoluzioni democratiche e comuniste non saranno che note a piè di pagina nella storiografia futura, ed il cui ordine di grandezza si apparenta a quello della rivoluzione neolitica. La tecnologia e la capacità di gestione dell'informazione e delle comunicazioni, il grado di influenza sull'ambiente in cui siamo immersi, l'annullamento delle distanze, il controllo che l'uomo sta acquisendo sulla stessa identità biologica sua e delle specie animali e vegetali con cui convive, non hanno alcun equivalente nella macchina a vapore o nella rotazione delle colture.


    <>L'attenuarsi delle tradizionali pressioni selettive da un lato, dall'altro la disponibilità di tecnologie come la diagnosi prenatale, la fecondazione artificiale, lo screening genetico, l'impianto degli embrioni ed a termine la gestazione extrauterina, la clonazione, la manipolazione diretta del genotipo e perciò delle linee germinali, rappresentano acquisizioni epocali che rendono la nostra specie integralmente responsabile della propria identità biologica, quand'anche alcune sue componenti decidano di "rimuoverle" ed ignorarle. Esattamente come il fatto di avere una pistola in mano rende il possessore unico responsabile, nel bene e nel male, della scelta di sparare o meno (indipendentemente dal fatto che ciò avvenga o non avvenga per fare una rapina, difendere un inerme o festeggiare capodanno), senza che a tale responsabilità questi si possa sottrarre; anche gettare la pistola, o fare finta che non esista, come implicitamente propone la tendenza storica giudeocristiana e democratico-umanista, rappresenta infatti esattamente una delle scelte possibili, che chi ne è privo non ha e non ha bisogno di fare.

    La sfida "postmoderna" rappresentata da questa rivoluzione è già stata ripetutamente discussa su queste colonne tanto da Locchi che da Faye che da me, ad esempio su L'Uomo libero n. 20 ("La tecnica, l'uomo, il futuro"), notando come le due uniche risposte possibili siano l'opzione prometeica, "sovrumanista", di chi si fa carico di tale destino ("Cosa voglio/vogliamo diventare?", "Quale grande progetto meglio celebra la mia libertà?"); o la rimozione freudiana ed il rifiuto del "dominio dell'uomo sull'uomo" ("nessuno potrà farvi schiavi, perché foste creati miei schiavi", dice Jahvé), che portano alla tirannia anonima, meccanicista e letteralmente "insensata", rappresentata dal Sistema.


    In questo quadro, non può essere ignorato il fatto che le culture e le razze sono nate e si sono sviluppate dalla identità, fecondità e creatività dei relativi ceppi attraverso una segregazione legata a fattori naturali di cui non è ipotizzabile la riproduzione se non in improbabili epoche neoprimitive. Perché tali epoche possano davvero vedere la luce fuori dagli studios di Hollywood, sarebbero infatti necessario catastrofi di tale portata che ne sarebbe rimessa più probabilmente in discussione la sopravvivenza dell'ecosistema, o almeno della specie umana, piuttosto che la conservazione di acquisizioni probabilmente destinate a restare con noi per sempre. Anche in campo etnico, razziale e demografico, la chiave di volta dell'analisi resta sempre l'avvento del "terzo uomo", che come il primo uomo si è staccato dal regno animale, ed il secondo si è fatto carico con la rivoluzione neolitica del destino del mondo, è chiamato ora ad assumersi tragicamente ed eroicamente il proprio destino, inclusa la sua identità biologica. Un fatto oggettivo che oggi è stato del tutto rimosso perché intollerabile, e che era perfettamente chiaro già negli anni trenta, e non solo in Germania, ma nei paesi scandinavi, in Francia, negli stessi Stati Uniti, quando pure l'ingegneria genetica e le manipolazioni dirette muovevano i suoi passi solo nella fantascienza e nella speculazione, è che in futuro la conservazione, l'evoluzione, o addirittura la nascita, di razze, lingue e culture diversificate avverrà solo in quanto frutto di una scelta deliberata in tal senso, che sola ne potrà determinare i contenuti e le caratteristiche, sulla base di valutazioni di natura essenzialmente estetica ed affettiva.


    In questo senso, non è un caso che la portata entropica della colonizzazione di popolamento dell'Europa rappresenti in fin dei conti un valore positivo dal punto di vista dell'universalismo dell'ideologia del Sistema e della fine della storia, su scala anche più ampia del mero dato politico immediato, e precisamente quale elemento di contrasto rispetto alla "tentazione" identitaria e faustiana; mentre un corrispondente disvalore viene vastamente assegnato al terribile potere di autodeterminazione di cui l'uomo oggi è chiamato a farsi carico.


    Del resto, questi elementi di fondo sono anche in qualche misura promettenti. Se l'estinzione della nostra identità etnica, da cui oggi siamo minacciati, è certo più definitiva di qualsiasi asservimento politica o culturale o economico, in quanto per definizione irrimediabile, esiste già un'esperienza storica, ancora quando l'uomo operava solo con gli strumenti tradizionali dei provvedimenti legislativi ed amministrativi, della propaganda, della medicina, e della educazione collettiva, di come trends demografici e processi apparentemente consolidati possano al giorno d'oggi essere rovesciati nel giro di una generazione. In un altro paio di generazioni, le caratteristiche e l'identità etnica e biologica delle nostre popolazioni saranno integralmente determinate (o non determinate, per pura scelta, se prevarrà la scelta della condanna e della rimozione) da opzioni individuali e collettive. In ogni modo, la relativa responsabilità non sarà più né della "natura", né dei processi storici "parabiologici" che hanno sinora governato l'affermazione, il declino e la scomparsa delle razze e delle civiltà. I "cicli spengleriani" descritti nel Tramonto dell'Occidente sono in ogni modo finiti.


    ***


    Se le nostre visioni di fondo continuano a manifestare un'assoluta consonanza, emergono d'altra parte nelle attuali posizioni "politiche" in senso ampio di Faye, ampiamente discusse anche nel già citato L'archeofuturisme e nella riedizione del Nouveau Discours à la Nation Européenne, elementi meno convincenti. Ne tratto qui non solo per rispondere all'invito al dibattito formulato dall'autore nel libro che commentiamo, ma anche perché molto di tali posizioni riguarda anche il dibattito in corso nel nostro paese.


    La prima fondamentale questione è annunciata dal sottotitolo stesso del libro, in cui la colonizzazione dell'Europa è trattata in un "discorso di verità" (riprendendo la suggestiva formula dell'Alethes Logos di Celso) sulla immigrazione e sull'Islam.


    Riguardo di quest'ultimo, la posizione di Faye è cristallina. "Nel corso di conferenze che ho potuto fare, nel corso delle quali abbordavo incidentalmente la questione dell'Islam in Europa, giovani musulmani mi hanno accusato di 'ostilità viscerale all'Islam' e di 'complotto contro l'islam'. La mia risposta è sempre stata molto pacifica e determinata: sì, nutro un'ostilità viscerale contro l'Islam, avete ragione. No, non fomento alcun complotto contro di esso, perché il 'complotto' fa riferimento ad una ostilità dissimulata, mentre la mia è franca ed aperta".


    L'autore ha altresì ragione a sottolineare come la "islamofilia" di molti ambienti, con in prima linea paradossalmente settori dell'episcopato cattolico, progressisti, pagani, borghesi ed estremisti di varia estrazione, si fonda soprattutto sull'ignoranza. "Nessuno di costoro ha mai letto il Corano, nessuno parla arabo, nessuno ha mai messo piede in un paese musulmano (salvo forse nell'enclave di un Club Med), nessuno ha mai vissuto in una città a maggioranza musulmana. Per loro l'Islam - e l'immigrazione - sono fatti astratti, lontani, simpatici".


    Ora, chi scrive non prova alcuna "tenerezza filosofica" per l'Islam. "Religione del deserto" quanto e più delle altre due, intriso di predestinazione quanto la confessione luterana di cui pure non ha il rigore tedesco, repressivo e ipocrita quanto il cattolicesimo, ritualista e giustificazionista quanto il giudaismo, mercantile quanto il calvinismo, iconoclasta, universalista, levantino, completamente sprovvisto del concetto di onore nel senso in cui è da tremila anni inteso sul nostro continente, non ha bisogno di un'occhiata particolarmente approfondita per evidenziare la sua profonda alterità rispetto alla sensibilità ed ai valori che mi fanno sentire europeo.


    L'accecamento che ha condotto autori e oppositori del sistema come Claudio Mutti, o alcuni militanti dell'estrema destra francese, alla conversione all'Islam, sull'"illustre" precedente guenoniano, non è altro che una variante di quello che ha condotto numerosi altri, specie in Italia, a rifugiarsi, specie dopo traumi storici o personali., tra le braccia di Santa Madre Chiesa, alla ricerca delle briciole di un'identità europea oggi chiaramente rinnegata, che sono rimaste attaccate alle vesti di quest'ultima lungo i secoli malgrado energiche e ripetute spazzolature. Abbiamo già visto come ciò derivi dall'incapacità, esattamente "pagana", di sopportare la solitudine e le vertigini zarathustriane dei "fondatori di città", e nella ricerca di legittimazioni storiche in una tradizione cui riferirsi non più solo come a un mito mobilitante, un'ispirazione, una radice mitica, ma nel senso prosaico di un "centro di gravità permanente" tangibile, preciso e rassicurante.


    È altrettanto perfettamente vero che il cristianesimo (e lo stesso giudaismo!) hanno partecipato della nostra storia, e ne sono stati di riflesso segnati, più di quanto abbia fatto l'Islam, e ci sono perciò in certo modo meno estranei.


    Questa considerazione d'altra parte può essere esattamente rovesciata nella constatazione che l'Islam è una religione araba, di matrice araba, affermatasi in Arabia e nell'immediata sfera di espansione di tale mondo, ed il cui destino in parte cospicua si associa strettamente a quello della nazione e dell'identità arabe. In questo modo, l'Islam riesce effettivamente ad avvicinarsi di più, mutatis mutandis, ad una religione ancestrale, politica ed identitaria in senso europeo; ciò in opposizione in particolare all'ebraismo, che si fonda sul rifiuto della valenza religiosa della comunità politica, per cui lo stesso Israele è l'anti-nazione, o il cristianesimo, i cui (passati) rapporti privilegiati con l'Europa sono stati frutto di una identificazione contingente e mai completa, e la cui vocazione universalista è perciò tanto più spiccata. Simbolo di quest'ultimo punto è il rispettivo rapporto delle due religioni da un lato con il latino, che viene abbandonato senza troppi rimpianti nel giro di una generazione, e quello con l'arabo coranico, che è Parola di Dio dal punto di vista musulmano financo da un punto di vista linguistico, data una volta per tutte nella sua perfetta ed insuperabile formulazione (esattamente del resto come l'ebraico della Bibbia, lingua già morta all'epoca dell'Impero romano e volontaristicamente resuscitata dal sionismo, è per i secoli dei secoli la sola lingua di di Eretz-Israel). E quanto alla pretesa "intolleranza" islamica, non si tratta forse solo e semplicemente della caratteristica di un sistema religioso in una fase meno decadente, evirata e senescente di quelli cui siamo abituati? La dolcezza e mansuetudine cristiana si sono impiantate in Europa con l'assassinio a tradimento di un imperatore reo di aver rinnegato la nuova fede, il genocidio dei Sassoni, la persecuzione degli "uomini liberi" del nord scacciati sino in Islanda; e la stessa dolcezza e mansuetudine, al momento del loro trionfo, "santificavano" le città e le campagne con i roghi di streghe ed eretici, la strage fratricida della notte di S. Bartolomeo, il regicidio, le guerre di religione sul suolo europeo, il genocidio degli Indios che rifiutavano la conversione, il terrorismo delle sette eversive ed il simmetrico terrorismo repressivo dell'Inquisizione, che per la prima volta in Europa ha elevato la tortura, il lavaggio del cervello e la perversione del procedimento giudiziario ad una forma d'arte.


    Sul piano storico e dottrinale, lo scenario disegnato per esempio dalle Mille ed una notte (cfr. la storia di Hasan al-Basri, Notti 778-831, o quella del sarto, del gobbo, dell'ebreo, dell'intendente e del cristiano, Notti 25-34) rappresenta una società crudele, e a noi profondamente estranea, ma in fondo più pluralista, flessibile ed articolata anche dal punto di vista religioso di quella rischiarata dalle "Luci del Medioevo" crociato, e poi dai fasti della Riforma e della Controriforma. Una società in cui si aggirano liberamente non solo cristiani ed ebrei riconosciuti come tale, sia pure ridicolizzati e condannati, ma persino i temuti "Magi adoratori del fuoco" - che non sono altro che la sopravvivenza (fino ai giorni nostri ed in pieno khomeinismo!) del culto zoroastriano nella Persia islamizzata - certo ammazzati di quando in quando dall'eroe di turno o dalle autorità, ma apparentemente più a loro agio di quanto non siano mai state le streghe nostrane a Toledo, o qualche anno dopo a Salem.


    Del resto, come ricorda Faye una volta di più in La colonisation de l'Europe, "se oggi la Chiesa cattolica non pratica più l'intolleranza inquisitoriale, non predica più la conversione universale e la cristianizzazione del mondo, ma si ripiega sull''ecumenismo' e sulla 'apertura all'Altro', è del tutto semplicemente perché è declinante, perché il rapporto di forza non gioca più a suo favore così che la fede è cancellata dalla carità, e quest'ultima è sempre più secolarizzata e finisce per confondersi con i Diritti dell'Uomo".


    Del resto, lo stesso libro di Faye abbonda di concessioni relativamente al fatto che i musulmani, dal loro punto di vista, fanno benissimo a essere ciò che sono, e di riconoscimenti del fatto che persino nelle loro componenti emigrate restano spesso più radicati nella loro cultura di quanto non lo siano le popolazioni presso cui si insediano. Giunge persino ad accreditare ad esse meriti che forse, come vedremo, neppure hanno, scrivendo "Ma non bisogna negare al nemico la sua nobiltà, né l'umana giustezza della sua causa. Riempie il suolo che tu abbandoni. Preserva il suo territorio ed il suo sangue, ingrandisce il suo territorio con il tuo e rimpiazza il tuo sangue con il suo. Il nemico che gioca il suo ruolo è stimabile. È il traditore a non esserlo affatto...". E altrove: "L'Islam ci considera come una civiltà un tempo temibile, oggi svirilizzata, decadente, femminilizzata, omofilizzata, Attacca perciò. E dal suo punto di vista, ha ben ragione [...] Si possono perfettamente condividere dei valori comuni con il nemico che vi invade. [...] L'Islam appare come una 'rivolta contro il mondo moderno', e per questo seduce [...] Rispetto, come nemico degno di interesse, il musulmano conquistatore, il Beur preso dall'odio e dalla vendetta".


    Alla luce di tali rilievi, non è possibile comprendere come Faye possa individuare come l'Islam come parte del "nemico principale", nelle sue conclusioni del libro aggiungendo, sia pure in modo qualificato, "Gli Stati Uniti sono, come ho spiegato in un altra opera [e più precisamente in Archeofuturismo] sono un avversario, non un nemico"!


    Certo, Carl Schmitt, spesso citato nelle opere di Faye, distingue tra inimicus (l'opponente civile, l'opposto di un alleato ed un sostenitore all'interno della comunità) e hostis (il nermico esterno, lo straniero ostile in perenne guerra, attuale o potenziale, con la comunità). In questo senso, almeno etimologicamente, "inimicus" resta un termine che denota un'alterità più blanda e meramente "concorrenziale". Senonché, l'uso corrente dei termini "nemico" ed "avversario" nel francese, italiano o inglese contemporanei, sembra indicare concetti diversi ed in parte specularmente ribaltati.


    La questione, per terminologica che possa essere, è grave, perché comunemente, quando viene fatta la relativa distinzione, si attribuisce all'"avversario" esattamente la posizione sopra descritta per l'Islam, ovvero una rivalità ed una concorrenza nutrite in sostanza da un mero conflitto di interessi e di volontà di potenza contrastanti, tra soggetti tra loro distinti, ma non "metafisicamente" alternativi, ed in posizioni in qualche modo simmetriche ed equivalenti nel rispettivo ambito, che possono anche trovare occasionalmente ragioni di alleanza (ad esempio contro un nemico comune) e di rispetto reciproco. Mentre il "nemico" sembra esattamente proprio ciò che il Sistema rappresenta per tutte le culture e le razze vitali, la radicale negazione stessa della loro legittimità e possibilità di esistere. L'affermazione di Faye suona così paradossale e simile a quella di un pretendente al trono degli zar che dichiarasse che il vero nemico è il suo contendente alla successione, riconoscendo i bolscevichi che stanno per assaltare il Palazzo d'Inverno come legittimi "avversari", sportivi opponenti rispettosi delle regole e dei valori della società russa tradizionale; ora, il senso comune ci dice invece che nel linguaggio corrente il vero "nemico" dei ragazzi della via Paal non era la banda che gli contendeva l'uso del loro campo giochi, ma l'impresa che finisce per smantellarglielo per costruire un palazzo dopo tanti sacrifici inutili per difenderlo.


    Il rovesciamento di questa distinzione ci sembra confinare pericolosamente con una deriva per cui si finisce per riconoscere, nella più pura ideologia delle burocrazie di Strasburgo e Bruxelles, una comune appartenenza "concorrenziale" di Stati Uniti ed Unione Europea al medesimo "club occidentale", contrapposto in quanto tale a tutti gli altri. E del resto, dato che i "traditori" cui Faye riserva il giudizio peggiore sono esattamente i partigiani del Sistema e del potere internazionale e fondamentalmente americano, pare bizzarro considerare degno di rispetto il partito "nemico" e di disprezzo ed ignominia il partito soltanto "avversario".


    L'affernazione sopra riportata non pare però frutto un lapsus occasionale. Se Faye ripetutamente insiste nel suo libro sulla sua perdurante ed assoluta opposizione al potere americano in Europa (che del resto rimane il tema centrale del Nouveau discours à la Nation Européenne anche nella sua seconda edizione), generano notevoli perplessità un paio di spunti sulla Guerra del Golfo. Sentiamo per esempio l'autore in sostanza scandalizzarsi per gli stati d'animo dei piloti inglesi musulmani nel bombardare l'Iraq. Oppure, in un altro punto, addirittura menzionare en passant la crisi irachena come un caso in cui gli "europei" (?!) avrebbero ancora una volta saputo comportarsi da "predatori", termine certo non particolarmente insultante né per Faye né per il suo pubblico. Queste uscite sono assolutamente sorprendenti tanto in linea generale che dal punto di vista, a me anche personalmente ben noto, dell'autore, nel momento in cui si riferiscono ad un caso in cui gli Europei si sono supinamente accodati agli Americani e ad Israele nella difesa delle roccaforti del tradizionalismo islamico più oscurantista e feudale, oltre che politicamente più succube del Sistema, contro uno Stato certo arabo, certo a maggioranza musulmana, ma amministrato da un un governo laico retto da principi di socialismo nazionale, almeno nella contingenza specifica in posizione anti-Sistema, e rappresentato per tutta la crisi da un ministro degli esteri addirittura di fede cristiana!


    Situazione di cui Saddam Hussein non ha esitato del resto a servirsi propagandisticamente, ad esempio trasmettendo per televisione le messe di Natale a Bagdad intanto che i "cristianissimi" episcopali, cattolici ed avventisti americani stanziati in territorio saudita ben si guardavano dal turbare la sensibilità religiosa dei loro protetti musulmani con "inopportune" celebrazioni.


    D'altra parte, Faye cita ampiamente un libro di Alexandre Del Valle, Islamisme et Etats-Unis, une alliance contre l'Europe (Editions L'Age d'Homme), per dimostrare come se gli americani e comunque il Sistema appoggiano e promuovono l'immigrazione, ad esempio attraverso la politica delle organizzazioni internazionali, l'Islam sarebbe a sua volta l'alleato oggettivo degli Stati Uniti nella distruzione del concorrente europeo, non solo attraverso l'immigrazione, ma ad esempio attraverso la politica petrolifera, la crisi bosniaca, etc., al punto che vi sarebbe da paventare una sostituzione del condominio americano-sovietico con un condominio americano-islamico, con gli Stati Uniti stessi che potrebbero intervenire quali "pacificatori" o "garanti dei Diritti dell'Uomo" anche in paesi dell'Europa occidentale ove lo scontro etnico superasse un certo livello di soglia, ed ingenerasse una situazione appunto simile a quella bosniaca.


    In realtà, l'"anti-islamismo" e l'"anti-arabismo" di Guillaume Faye pare nutrirsi di una prospettiva in questo caso "francese, troppo francese", tanto paradossale in un autore generazionalmente e eziologicamente estraneo alla ipoteca "algerina" che tanto ha pesato dal dopoguerra in poi su tutti gli ambienti anticonformisti di oltralpe.


    È palese in numerose assunzioni dell'autore una sorta di parificazione riflessa tra "immigrato" e "musulmano", tra musulmano ed arabo, e addirittura, ancora meno plausibilmente, tra arabo e magrebino. Come del resto dimostrano gli esempi e le citazioni degli ambienti dell'immigrazione di cui il libro è ricco, quando Faye parla di immigrazione e terzo mondo fa in tutta evidenza riferimento ad una realtà rappresentata in sostanza da algerini e marocchini, o comunque da arabi con una forte predominanza nordafricana, al massimo con qualche frangia subsahariana, condendo le sue conclusioni con esperienze personali dirette, acquisite sul posto, della realtà saudita.


    Ora, la realtà dei quartieri periferici di Parigi o del meridione della Francia che Faye descrive in modo spietato ma del tutto oggettivo, non è la fotocopia precisa dei problemi di tutto il resto del continente, ed ancor meno plausibile è la sua proiezione cosmica in termini di definizione degli scenari dello scontro finale. Secondo i dati pubblicati da Il Giornale del 13 Gennaio 2001, quotidiano di sicuro non filo-arabo, gli arabo-musulmani sono secondo il Ministero dell'Interno (che pure potrebbe sovrastimarli, esistendo altre aree da cui la componente clandestina dell'immigrazione è più elevata) sono meno di un quinto di tutta la realtà dell'immigrazione italiana, e ciò solo grazie ad un recente contributo massiccio dal Marocco. L'Egitto, ad esempio, non rappresenta neanche il tre per cento, la Tunisia - a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste - il cinque, e gli altri paesi arabi sono fermi alle proverbali percentuali da prefisso telefonico, mentre le cristianissime Filippine portano a casa otto punti, e persino il Senegal o la Cina sono intorno al quattro per cento ciascuno. Parlando di trend demografici e pesi rispettivi, quest'ultima da sola ha, oltre ad un'eccezionale omogeneità etnica dominata al 95% dalla razza Han, una popolazione di sette o otto volte tutti i paesi arabi messi insieme (o forse dovremmo dire arabo-berbero-fenici, date le crescenti rivendicazioni amazigh presenti specie nell'Africa nord-occidentale, e la componente non araba in Libano). Sul Corriere della Sera del 2 Febbraio 2001, l'editorialista riporta le profetiche parole recentemente pronunciate al riguardo della attuale dirigenza cinese: volete davvero che tentiamo di amministrare un paese dove si trova fortemente concentrato un quarto dell'umanità secondo i principi della legalità borghese occidentale? siete pronti ad affrontare un crollo da cui nascerebbe un flusso migratorio senza precedenti nella storia?


    Ora, Faye sembra paradossalmente molto meno preoccupato da queste prospettive, al punto di opporre la "buona integrazione" o l'apparente tranquillità (certo, organizzata dai Tong, dalle Triadi e dai trafficanti di carne umana e di eroina) delle minoranze asiatiche rispetto a quelle arabo-musulmane dei teppisti che si fanno notare spaccando le vetrine e violentando le donne bianche nel metro parigino.


    Del resto, mentre l'India ha a sua volta da tempo superato il miliardo di abitanti, l'Africa nera stessa avrebbe una pressione demografica notevolmente superiore ai paesi arabi, se non fosse per siccità e carestia, per la perdurante mortalità infantile, ed in prospettiva per la diffusione endemica dell'AIDS, problemi che coinvolgono certo in misura minore la popolazione emigrata in Europa, dove può godere di condizioni di vita, igieniche e nutrizionali simili alla popolazione locale. Emigrati certo ancora meno facilmente "integrabili" degli arabi, come le stesse comunità negre americane, pure oggi composte esclusivamente da mulatti di varia gradazione, dimostrano.


    La Germania, come indirettamente ricorda anche La colonisation de l'Europe, soffre a sua volta più che di un'immigrazione araba di quella turca, etnia per cui Faye riesce in taluni punti ad avere addirittura singolari parole di simpatia, in ovvia funzione antiaraba. Ora, mentre i turchi ("mal islamizzati", secondo Faye) possono avere per qualche secolo schiacciato i paesi arabi e nordafricani sotto il loro dominio, per quanto possano essere stati alleati degli imperi europei centrali o avere rifondato il proprio Stato nel dopoguerra in imitazione di istituti e riforme introdotti dalle rivoluzioni nazionali europee, il "nemico musulmano dell'Europa", superati Carlo Martello, i confronti armati con i resti dell'impero bizantino e la Reconquista spagnola, è sempre stato sostanzialmente rappresentato dai turchi, a partire dalle allucinanti vicende che li hanno visto gareggiare in umanità a cavalleria con personaggi come Vlad Tepes, alias Dracul, nei Balcani, all'assedio di Vienna, alla pirateria nel Mediterraneo, alle battaglie di Creta, Malta, Lepanto. "Mamma, li Turchi!" si gridava sulle coste italiane per secoli all'arrivo dei pirati, "Mamma, gli Arabi!" è un'esclamazione plausibile nella nostra lingua solo... dalla fine degli anni novanta.


    Mentre gli arabi sono accusati di sterilità e parassitismo culturale, perché avrebbero preso tutto dai paesi conquistati (tesi che ha indubbiamente elementi di verità), sembra così doversi compiacentemente tacere sulla "raffinata" civiltà ottomana creata dai pretoriani asiatici ribellatisi ai loro padroni arabo-egizio-iracheni in una parodia del Basso Impero, che tanti discutibili tratti è purtroppo riuscita ad integrare nella storia e nella identità greca e balcanica, e che oggi è degnamente prolungata dall'edificante paese rappresentato da film come Fuga di mezzanotte e Hammam, dove per mostrare la propria civile disapprovazione alle posizioni espresse da un avversario politico non è del tutto inaudito fargli trovare il figlio crocifisso sulla porta di casa con gli occhi strappati ed i genitali in bocca, dove corruzione, terrorismo e repressione si inseguono in una gara infinita, e si consuma in tutta tranquillità l'etnocidio di curdi ed armeni con la benedizione del Sistema.


    La realtà stessa dell'Islam è una realtà complessa, che La colonisation de l'Europe bene affronta sul piano culturale ed addirittura teologico, smentendo certo molti luoghi comuni e molta propaganda tranquillizzante al riguardo, ma che meriterebbe anche un maggiore approfondimento storico-politico.


    Sembra ad esempio una considerazione ovvia che alcuni dei principali paesi musulmani, nel bene e nel male, non sono affatto arabi, né etnicamente, né politicamente, e - in parte - neppure culturalmente: vedi, oltre alla già citata Turchia, l'Iran, l'Afghanistan ed il Pakistan. Ancora, il Nord Africa è sotto vari aspetti una realtà ben distinta dal Medio Oriente. Ugualmente, la distinzione tra sunniti e sciiti riveste oggi un peso certamente superiore a quella che divide ad esempio i cristiani ortodossi dai cattolici. Pur tenendo presente che come dice Faye "non si discute del sesso degli angeli quando i barbari sono alle porte" non ci sembra di addentrarci qui in minuzie irrilevanti e smobilitanti: in fondo anche solo per combattere qualcuno, nemico o avversario che sia, è pur necessario conoscerlo.


    Ancora più rilevanti ci paiono un altro tipo di distinzioni, che vedono oggi il "mondo islamico" suddividersi in alcune grandi componenti:

    - le aree fortemente occidentalizzate, completamente integrate al sistema, come soprattutto la Tunisia, e buon secondo il Marocco, e come si avviano ad essere la Turchia, l'Algeria e l'Egitto, malgrado forti opposizioni interne;

    - i governi del tradizionalismo ed oscurantismo feudale musulmano, come l'Arabia Saudita, il Kuwait, il Qatar, ed in parte gli Emirati, di fatto tutti protettorati americani, alleati oggettivi del sistema e traditori degli interessi del popolo arabo;

    - i paesi "laico-rivoluzionari "ai margini della comunità internazionale" come la Libia, l'Iraq, ed in posizioni più ambigue la Siria e il Pakistan;

    - i paesi ed i movimenti dell'Islam militante, come l'Iran, l'Afghanistan, gli Hezbollah libanesi, il Sudan, il cosiddetto fondamentalismo islamico in Algeria, Egitto, Turchia e repubbliche ex sovietiche, le componenti "estremiste" della resistenza palestinese, etc.


    Ora, i problemi per l'Europa in materia di immigrazione provengono in sostanza pressoché esclusivamente dal primo gruppo. L'alleanza politica oggettiva con le forze del Sistema denunciata da Faye non riguarda che il primo e il secondo gruppo. Per il terzo ed il quarto, alla faccia della retorica sull'aggressività dell'Islam, parrebbero davvero contorte le analisi che tentassero di dimostrare l'alleanza "oggettiva" tra Libia e Stati Uniti, tra Nato ed Intifada, tra opposizione algerina e interlocutori internazionali del governo portato al potere dal colpo di stato che ha cancellato il responso elettorale favorevole alle forze islamiche! Ancora meno, riusciamo ad immaginare i Talebani o gli Imam sciiti incitare la propria gioventù a disertare il proprio paese e la propria comunità militante per emigrare in paesi dove l'alcool viene consumato in pubblico, una donna gode di una libertà sessuale analoga a quella di un uomo, e la blasfemia regna sovrana, salvo magari pensare di salvarsi l'anima con la firma di qualche petizione per la costruzione di una piccola moschea in nome dei diritti dell'uomo.


    La verità è che nessun italiano ha mai visto un libico in carne ed ossa nella seconda metà del secolo appena concluso, a meno di essersi recato sul posto o in ambasciata. E si tratta di un paese che è stato una nostra colonia per più di una generazione, dove la lingua italiana è ancora parlata, e quasi a portata di artiglieria o di gommone dalle coste di Pantelleria!


    Non che del resto gli ayatollah iraniani o il governo iracheno sembrino così in prima fila nell'incitare all'emigrazione, mentre i fondamentalisti egiziani manifestano tutto il proprio desiderio di mischiarsi con gli infedeli organizzando addirittura attentati contro i turisti.


    Al contrario, è possibile sostenere che gli unici immigrati che originano dai paesi non allineati a maggioranza musulmana sono dissidenti filo-occidentali o minoranze etniche - magari cattoliche, come gli armeni! Se in Algeria non avesse avuto luogo un colpo di stato anti-islamico appoggiato dall'Occidente, la Francia stessa avrebbe forse meno problemi di immigrazione in atto dalla sua più discussa ex-colonia, esattamente come l'immigrazione dall'Europa orientale non ha mai rappresentato un problema sino a che i cittadini di tali Stati dovevano richiedere un visto di uscita. E ciò benché l'Adriatico non sia in nessun modo divenuto più stretto, o gli albanesi in alcun modo più attrezzati in termini di imbarcazioni di quanto non fossero prima.


    L'Islam sarà sicuramente aggressivo, ed i paesi in cui viene praticato non hanno certo nulla in contrario ad espandere con la migliore buona coscienza il proprio territorio e sfera di influenza, ma se gli si accredita di rappresentare un movimento conquistatore, identitario, patriarcale ed autoritario, per quanto gravato dall'ipoteca universalista e monoteista propria a tutte le religioni del Libro, difficilmente lo si può immaginare spinto a promuovere l'emigrazione in un Paese dove, come ricorda Faye, il 20% dei matrimoni è oggi misto, oltre che statisticamente destinati a finire male e con la prole affidata alla moglie infedele! Ciò che è direttamente proporzionale al tasso di emigrazione, non è la povertà, tanto meno l'aggressività o riottosità dei rispettivi governi. Dall'Iraq emigrano solo i Curdi, benché il paese sia stretto dala morsa di un embargo internazionale, ed il 15% dei bambini, secondo il Giornale (!) del 19 Febbraio 2001, soffra di denutrizione. È la dominanza dei valori occidentali nelle loro società, ed il grado di asservimento politico ed economic odei loro paesi al Sistema.


    Non si dimentichi che il primo dei Diritti dell'Uomo, il primo elemento di disarticolazione - anche interna! - dei residui comunitari nelle regioni non ancora alienate ed occidentalizzate è la libertà di andare e venire, lo sradicamento delle radici territoriali, che renda le popolazioni mobili, fungibili, proletarizzate, prive di appartenenze (se non nel limite folcloristico ed immaginario rappresentato dai ristoranti e parrocchie frequentati o dal tifo calcistico), il cui apice è naturalmente l'emigrazione.


    Altra cosa è naturalmente l'islamismo "letterario" dei convertiti europei, o quello immaginario e polemico dei negri estremisti statunitensi, che si credono musulmani come il barbone americano di colore protagonista del film Ghost Dog crede, leggendo l'Hagakure di Jocho Yamoto, di essere un samurai del medioevo giapponese; entrambi più che altro patetici quanto la credenza di alcune star occidentali dello spettacolo di essere buddhiste. E altra cosa ancora è l'islamismo minoritario e sedizioso rappresentato non solo dalla componente "radicale" degli immigrati musulmani in Europa, ma ad esempio da fasce notevoli della popolazione indiana - contesto in cui pare ovvio dover prendere le parti di un grande paese la cui cultura e religiosità affonda in sia pur lontane e degenerate radici europee, contro l'intolleranza faziosa di sette fanatiche che hanno portato la maledizione di Abramo contro la sacralità del mondo e della comunità politica sino alla terra della letteratura vedica, di Indra, Varuna e Mithra.


    È poi Guillaume Faye stesso che accusando la Nouvelle Droite di confondere la prospettiva di intese geostrategiche con l'Islam, come insieme di entità politiche e statali, con la tolleranza per l'immigrazione musulmana o l'islamofilia "filosofica", sottolinea indirettamente come le due posizioni non abbiano assolutamente nessun rapporto necessario. Cosa dimostrata del resto storicamente dalla politica filo-araba degli inglesi all'inizio del secolo (in funzione anti-turca), e dei tedeschi tra le due guerre e per tutta la seconda guerra mondiale (in funzione anti-occidentale), certamente non dettata né nel primo caso né nel secondo da aspirazioni al meticciato arabo-europeo, alla conversione o alla creazione di società multirazziali nei propri paesi.


    Di nuovo, è l'autore stesso ad ipotizzare esplicitamente possibili rapporti diversi, addirittura di alleanza, tra Europa e paesi islamici, enumerando come precondizioni: il fatto che non vi sia interpenetrazione etnica né proselitismo religioso; che venga cessata la politica di alleanza sotterranea antieuropea con gli Stati Uniti; e che sia riconosciuta la sovranità europea sul territorio che va dal "Portogallo allo stretto di Behring, dal Caucaso allo spazio siberiano". Ora, quando ci si sposta sul piano politico concreto, non si stenta ad immaginare la perplessità di un dirigente politico islamico che si trovasse di fronte di queste "condizioni" o "richieste" ad un tavolo di trattative.


    Vediamole brevemente dal punto di vista di tale immaginario dirigente:

    1) La tratta di manodopera musulmana verso terre infedeli è organizzata dal Sistema e dai governi fantoccio dei paesi filo-occidentali, e persino questi ultimi non la promuovono attivamente, né nascondono la loro preferenza per mille dollari in più di "aiuti internazionali" spendibili sul posto da parte delle corrotte burocrazie al potere, rispetto a dieci peremessi di lavoro in più ad altrettanti emigrati le cui (dubbie ed eventuali) rimesse alle famiglie di provenienza sono certamente più difficili da intercettare.

    2) Mentre esiste una ovvia pressione oggettiva alla conversione nelle zone e nei quartieri europei a dominanza musulmana, per un musulmano, come sottolinea lo stesso Faye, l'aspetto religioso resta strettamente connesso all'aspetto politico ed etnico, così che lo scenario di "missionari dell'Islam" inviati a convertire altre popolazioni secondo il modello cattolico e protestante non ha alcun plausibile riscontro storico passato o contemporaneo. Per la mentalità araba l'unica vera "conquista" è tuttora la tradizionale acquisizione di territori attraverso annessioni politico-militari.

    3) Nessuna delle nazioni arabe ha rivendicazioni o domini territoriali in essere sull'Europa; semmai, è la Turchia, che abbiamo visto godere dell'indulgenza se non della simpatia di Faye, a mantenere sotto il proprio indisturbato dominio una città già nota ed importante per la storia europea sotto i nomi di Bisanzio e Costantinopoli, controllando altresì per conto degli americani gli stretti e l'accesso delle popolazioni slave dell'est al Mediterraneo.

    4) Quanto agli Stati Uniti, l'Europa attuale vive oggi non l'"alleanza sotterranea" da Faye rimproverata agli arabi - situazione che del resto descrive unicamente la posizione dei governi arabi filo-occidentali - ma una sudditanza del tutto aperta e "ufficiale" agli stessi ed alle organizzazioni internazionali da essi dominate, che si manifesta in particolare con un appoggio incondizionato degli interessi americani ed israeliani nel Mediterraneo e nel Medio Oriente!


    Non è difficile immaginare che ove mai egli avesse qualche frequentazione della Bibbia, oltre che del Corano, la prima cosa a venirgli in mente sarebbe la parabola della "pagliuzza nell'occhio del fratello quando la trave è nel tuo".


    ***


    Ciò porta ad introdurre un altro elemento critico rispetto all'analisi contenuta in La colonisation de l'Europe.


    L'utilizzo di termini quale "conquista", "guerra", "colonizzazione" è assolutamente legittimo per evocare la situazione di drammatica emergenza in cui ci troviamo, ed ha una sua efficacia e plausibilità in termini metaforici. Tale utilizzo pare invece meno giustificabile, e comunque meno utile in termini strettamente politici, quando avviene in senso letterale, ed è volto ad accreditare la tesi che esista un positivo e consapevole "complotto" da parte delle gerarchie religiose, degli emigrati e dei governi dei paesi islamici, tutti indifferentemente e globalmente intesi, volto alla realizzazione di un disegno politico unitario.


    Abbiamo visto che l'Islam, e persino la più ridotta nazione araba, purtroppo o per fortuna, non sono affatto uniti, e neppure particolarmente unitari. Mentre in alcuni paesi e componenti si annidano alcuni dei più risoluti oppositori contemporanei del sistema di potere internazionale, altri non solo sono perfettamente allineati a quest'ultimo, ma non costituiscono altro che irrilevanti fiduciari o... giannizzeri locali di una colonizzazione occidentale, che continua in tali paesi in forme nuove, privi di qualsiasi capacità o potere di iniziativa che vada al di là del fatto di negare l'estradizione di Craxi ai pubblici ministeri della Repubblica Italiana, o di costituire oggetto e pretesto per guerre occidentali contro altri musulmani.


    Ora, le fascie sociali di disadattati, omologati neo-occidentali, criminali, giovani sradicati, disperati vari, che fanno la fila per entrare in Europa, ventre molle e porta di servizio del "centro dell'Impero", al tempo stesso originale del passato e brutta copia attuale della realtà trasmessa dalle televisioni via satellite, non sono certo le orgogliose truppe di assalto di una civiltà conquistatrice. Sono molto più simili ai rifiuti di regioni e culture che soffrono a loro volta di un fortissimo disagio, a un'orda spinta sulle nostre sponde dall'allettamento di bottini immaginari, a "merci umane" riallocate dal sistema economico internazionale secondo le proprie esigenze. Rappresentano gli avamposti di una "conquista" arabo-musulmana dell'Europa esattamente quanto i Padri Pellegrini rappresentavano la conquista del continente americano da parte della millenaria cultura europea o del Sacro Romano Impero. Cosa, sia chiaro, che non impedirà per nulla agli stessi di ridurre in rovine ed all'estinzione i nostri popoli, esattamente come le culture pellerossa sono state estirpate da emigrati che pure partivano per meglio rinnegare la propria civiltà, la propria razza e le proprie appartenenze. Non a caso, del resto, quella del Nord America è stata per eccellenza, come quella che oggi ci minaccia, una colonizzazione di popolamento - così come lo sono in gran parte state quelle dell'Australia o del Sudafrica, tutte zone, per altro, a differenza dell'Europa, con una bassissima densità di popolazione autoctona -, in opposizione a colonizzazioni pure tanto diverse come quella dell'Indocina, della Malesia, della Tanzania, dell'Etiopia, delle Filippine.


    Quando, come riporta Faye, gli Imam della periferia di Parigi predicano "Questo continente si offre a noi, o piuttosto è Allah che ce lo offre, come un fiero guerriero metamoforfosato in femmina sottomessa" (da un volantino diffuso dall'Amicale des Musulmans de Créteil nel Novembre 1999), si sentono eccheggiare distintamente echi, molto arabi, di disperazione tracotante e di arroganza compensatoria, anche questi ben noti ai frequentatori delle Mille ed una notte (cfr. la storia della lotta tra il re an-Nu'man ed i suoi discendenti contro l'impero bizantino, Notti 45-145).


    Per questo i paragoni storici con Solimano il Magnifico, con il feroce Saladino o con lo stesso imperialismo ottomano appaiono senz'altro suggestivi, potenzialmente mobilitanti, ma sino a che da tali riferimenti non venga offuscata la corretta comprensione della realtà storica e degli schieramenti in gioco.


    Sembra in questo caso sia proprio Faye a fare un credito eccessivo ai governi ed ai paesi emigrazionisti, nell'attribuire loro organici e coordinati piani di conquista, quando il loro ruolo e peso attuale appare più simile a quello dei capi-tribù dell'Africa centrale ed occidentale che per almeno quattro secoli hanno venduto regolarmente i propri sudditi ai mercanti di schiavi per i mercati prima arabi, poi brasiliani e statunitensi. Può essere questa forse considerata, foss'anche con il senno del poi, una "strategia" per alterare la composizione etnica dell'Africa sahariana o degli immigrati americani, o per colonizzare geneticamente e culturalmente i relativi ambiti? C'è da dubitarne. Sicuramente tale emigrazione ha meticciato più o meno consistentemente le zone di destinazione, sicuramente nel caso statunitense e brasiliano ne ha alterato i lineamenti culturali irrimediabilmente. Ma che ciò abbia corrisposto ad una espansione, ed al successo storico, culturale e biologico, delle popolazioni coinvolte è davvero difficile da sostenere. L'autore pare in questo vittima della propaganda identitaria degli immigrati stessi, che stranieri in terra straniera cercano alla meno peggio di recuperare e mantenere una coesione interna con valenza sostanzialmente sindacale e rivendicazionista, nonché compensatoria e consolatoria del loro status di deracinés e rinnegati e meticci, cui malgrado tutto, a differenza di molti europei, americani o brasiliani, non sono evidentemente ancora del tutto abituati. Anche qui, parla in fondo in Guillaume Faye la voce di un cittadino di un paese già colonialista, che conosce da qualche decennio l'immigrazione, ma che per Emigration intende ancora oggi... l'esodo presso altre corti europee del residuo non ghigliottinato dell'aristocrazia francese durante il periodo rivoluzionario e napoleonico! Concetto ed esperienza alquanto diversa da quella che il termine "emigrazione" rappresenta ad esempio per la cultura italiana o irlandese.


    Se è vero che il venti per cento dei matrimoni francesi sono oggi matrimoni misti - anche attribuendo tutto il peso del caso al fatto significativo che si tratta in grande maggioranza di matrimoni tra immigrati e donne autoctone (ma i giudici francesi contemporanei affidano regolarmente in sede di separazione la prole alla madre esattamente come quelli italiani) -, se è vero che gli immigrati non sono (ancora) maggioranza, e se infine è vero che gli immigrati per di più non sono certo etnicamente omogenei tra di loro, non si disegna certa un futuro di "pulizia etnica" per le comunità straniere nell'esagono francese!


    Del resto, a fronte delle preoccupazioni espresse in La colonisation de l'Europe a proposito del potenziale condizionamento della libertà della politica estera europea (!) da parte degli ambienti dell'immigrazione, in particolare musulmana, è facile constatare che l'incidenza che le comunità islamiche paiono esercitare al riguardo è più simile a quella, davvero minima, delle comunità italiane e tedesche in America alla vigilia della seconda guerra mondiale, che non ad esempio a quella opposta delle comunità ebraiche insediate nei nostri paesi, o a quella esercitata, per via di ricatto economico, occupazione militare ed assoggettamento politico-culturale, dagli Stati Uniti.


    Sono perfettamente d'accordo con Faye a considerare ipocrita, gesuitico e perdente lo slogan che invita a lottare "contro l'immigrazione, non contro gli immigrati", sulla falsariga dell'anticomunismo clericale degli anni cinquanta che voleva "combattere il peccato, non i peccatori". La seconda cammina evidentemente con le gambe dei primi, e combattere l'immigrazione significa combattere l'arrivo, l'insediamento e la permanenza di questi ultimi, del resto nel nostro paese quasi sempre illegali ai sensi della stessa normativa vigente.


    Ma considerare gli immigrati consapevole quinta colonna di una guerra di conquista, quando sono invece i germi patogeni di uno sradicamento universale che svuota e distrugge le culture ed economie di provenienza quanto saccheggia e riduce in rovina quelle di destinazione (al di là di momentanei vantaggi che restano tutti da dimostrare), pare frutto di un "complottismo" che finisce per rivelarsi fuorviante e politicamente funzionale ad una "microguerra locale per bande" che è appunto uno dei modelli di società multirazziale all'americana.


    Certamente, anche quella della "tratta degli schiavi" è una metafora. Gli immigrati, non solo in Francia, appena arrivati si "sindacalizzano"; approfittano nella maggioranza dei casi di un immediato accesso a beni di consumo normalmente ben superiore a quello di cui godevano nel paese di provenienza; si integrano spesso immediatamente nell'economia più o meno illegale, quando non criminale, delle rispettive comunità; ottengono benefici, aiuti ed assistenza pubblica, a condizioni spesso discriminatorie nei confronti delle popolazioni autoctone. In una parola, si "imborghesiscono". Ma è davvero questo che intendiamo per "vittoria" e per "conquista"? Dopo aver lamentato tale sorte per le popolazioni europee, risconosceremo in essa un "successo storico" degli immigrati? Alla stessa stregua., si potrebbe sostenere che il proletariato o l'Unione Sovietica "hanno vinto", perché oggi con un po' di fortuna riescono a comperare qualche foulard di Hermes ai saldi del supermercato occidentale...


    In Archeofuturismo Faye critica forse eccessivamente quelle che lui stesso definisce essere le sue passate posizioni, ed il progetto politico riassunto dal titolo del libro Europe-Tiers Monde, même combat di Alain de Benoist. È assolutamente vero che in Arabia Saudita un "pagano" o un "ateo", a differenza di un cristiano o di un ebreo, non hanno neppure diritto di ingresso, e che i musulmani disprezzano gli europei (del resto, come riconosce Faye, perfettamente a ragione). È vero altresì che appaiono allo stato illusori "accordi" o "alleanze" tra mondi che in gran parte fanno a gara a chi meglio si compromette con il comune nemico americano. Ma non è affatto necessario che l'arresto dell'"attacco demografico", o di una "colonizzazione" che è tale solo nel senso zoologico del termine, divenga oggetto di un "accordo negoziato" Europa-Terzo Mondo, secondo l'ipotesi deBenoistiana dell'epoca (oggi disfattasi nel "comunitarismo etnopluralista" della Nouvelle Droite che si è già trattato).


    La verità è che i paesi del Terzo Mondo che conservano qualche residuo di indipendenza politica o di cultura comunitaria ed identitaria non sono e non sono stati mai paesi di emigrazione, posto che si ritiene comunemente in tali paesi che le risorse umane appartengano alla comunità nazionale, e possano e debbano essere impiegate per risolvere se possibile i comuni problemi, nonché condividere equamente il comune destino.


    E non a caso, esattamente come è del resto successo in Europa, l'accendersi, il raffreddarsi, o addirittura l'invertirsi dei flussi migratori ha sempre costantemente seguito il grado di sudditanza o indipendenza politica del paese coinvolto (cfr. nel nostro continente la Scozia dopo la battaglia di Culloden, l'Irlanda dominata dagli inglesi, la Germania dei piccoli Stati preguglielmini, l'Italietta giolittiana...). Esattamente come proporzionale al grado di sudditanza politica risulta la pressione demografica autoctona - il che lascia non sorprendentemente l'Italia e la Germania in fondo allo stesso gruppo europeo-occidentale, con il tasso di natalità più basso della storia del nostro continente, come nota Faye, dal terzo secolo dopo Cristo!


    D'altronde, in termini certamente non di "coabitazione", ma piuttosto di "coesistenza storica possibile", abbiamo già notato che il cristianesimo è intrinsecamente missionario ed universalista (e lo diventa ancora di più nelle sue forme secolarizzate), quindi inevitabilmente votato a "convertire" ed adulterare con ogni mezzo le culture altrui; il giudaismo è fondamentalmente cosmopolita e perciò portato ad insediarsi come corpo estraneo etno-religioso nelle altre culture e comunità e a minarne e negarne la coesione interna; l'Islam è oggi fondamentalmente il monoteismo identitario di una comunità etno-culturale composita, certo antifaustiano e fondato sul rifiuto della visione europea della storia, certo se possibile imperialista ed investito da una missione divina di autoaffermazione, ma soprattutto, e non a torto, preoccupato di non essere assimilato.


    Tale diversificazione trae origine non solo da differenze teologiche, ma da vicende storiche molto concrete che hanno coinvolto le tre religioni, portandole ad essere ciò che sono, così che di esse l'Islam è l'unico a poter a buon diritto rivendicare una sorta di "autoctonia" (che in ambito monoteista solo le correnti sioniste dell'ebraismo cercano, non a caso, di scimmiottare con la costituzione dello Stato di Israele). In tal senso, l'espansionismo islamico, con l'eccezione forse della complessa vicenda della prima islamizzazione della Persia, sembra certamente più vicino, malgrado tutto, ai modelli tradizionali di espansionismo politico-culturale propri a tutte le civiltà che al tipo di influenza etnocidaria esercitata in Occidente ed in tutto il mondo dal giudeocristianesimo prima, dalla sua variante secolarizzata che va sotto il nome di Sistema poi; e perciò appare certamente meno incline a riversare la propria volontà di potenza nella conversione ed adulterazione forzata e/o nella dominazione occulta. Simmetricamente, a differenza della mentalità propria al giudaismo e al cristianesimo, le popolazioni musulmane sconfitte e sottomesse, come riconosce Faye, si sono sempre rinchiuse nel fatalismo e nella preservazione delle proprie tradizioni, senza rappresentare alcun particolare potenziale di "avvelenamento" per chi si è occasionalmente trovato a dominarle. Paiono così difficilmente ammissibili, e quasi incredibili in bocca all'autore, alcune dichiarazioni cui lo stesso si lascia trascinare dalla sua pur brillante trattazione, come quella (pag. 147) secondo cui... "il pagano può vivere senza conflitti con il cristiano o l'ebreo, non con il musulmano"!


    Allo stesso livello, mi sembrano storicamente molto dubbie, e politicamente smobilitanti, le opinioni secondo cui sarebbe "più facile liberarsi da un jeans che da uno chador, da un Mac Donald che da una moschea". La storia è piena di culture che sopraffanno altre culture, per poi subirne la riscossa; le moschee sono già state estirpate senza particolari problemi dalla Spagna, dalla Sicilia e dai Balcani; la distruzione di ogni tessuto culturale nel magma indifferenziato del Sistema, specie ove divenisse completa, sembra allo stato delle esperienze odierne molto meno rimediabile.


    Anzi, questo tipo di affermazioni, che pure sarebbe certo sbagliato estrapolare dal contesto globalmente condivisibile dell'opera in commento, mi paiono molto pericolose sotto tre profili. Il primo, la disenfatizzazione che esse comportano dell'aspetto propriamente razziale e demografico del problema, su cui pure Faye insiste come una delle componenti tragicamente rimosse dalle tendenze assimilazioniste o multiculturaliste da lui criticate. Il secondo, strettamente correlato al primo, la oggettiva contiguità che esse ingenerano con le posizioni del clero cattolico "combattivo", che già pago dello scambio tra un lento declino di vocazioni e peso religioso contro i riconoscimenti e il rispetto sociale ormai unanimi spartiti in esclusiva con i "fratelli maggiori" di religione ebraica, non tollera oggi la improvvisa concorrenza dei "cugini" maomettani; così da indire crociate secondo cui la "nostra cultura" sarebbe difesa interdendo il culto islamico o buttando a mare i profughi (malgrado tutto europei) della Bosnia, mentre vanno benissimo i parroci dello Zaire, i domestici filippini, gli operai maori o andini, le suore giamaicane, i programmatori israeliani. In terzo luogo, il fatto che i Mac Donalds ed i jeans preparano e rendono possibile esattamente il tipo di società in cui mille sette convivono tra di loro, e con l'indifferentismo comunque maggioritario, tra cento razze diverse sullo stesso territorio. Tutto il mondo è paese, tutti vanno e vengono, in inglese ci si intende, non c'è ragione di non portarsi da casa il proprio piccolo pezzo di folklore o di credenze, o di organizzare la propria banda etnica dove capita di trovarsi così da trovare un surrogato di politica nello scontro tribale con il quartiere o il condominio confinante.


    ***


    Ritornando su un piano più filosofico e cosmo-storico, uno gli slogan proposti da La colonisation de l'Europe, è "dall'etnopluralismo all'etnocentrismo". Tale posizione prende le mosse da un'ulteriore critica alla estremizzazione (o meglio, si potrebbe dire, all'annacquamento) delle posizioni antiuniversaliste della Nouvelle Droite.


    Anche in questo caso, la Nouvelle Droite è partita da presupposti corretti, e soprattutto capaci di spiazzare politicamente l'interlocutore politically correct, e precisamente dalla constatazione della fondamentale irriducibilità delle civiltà e delle razze umane, così che ogni ipotesi di "eguaglianza umana" in senso interculturale è in primo luogo offensiva e lesiva per l'identità ed il legittimo orgoglio di appartenenza dell'"uguagliato". "Uguagliato" che viene abusivamente assimilato, da un punto di vista ideale prima ancora che pratico, in una generica "umanità" definita in realtà in base a parametri occidentali, in cui schellenghianamente tutte le vacche sono grigie, negando implicitamente lo stesso diritto all'esistenza dell'Altro - cosa che finisce di riflesso per negare implicitamente l'esistenza del Sé.


    La sottolineatura di tale conseguenza "razzista" iscritta nei postulati ideologici del Sistema appartiene del resto ad una più generale strategia del déplacement da sempre applicata dall'ambiente Nouvelle Droite, come abbiamo già visto ad esempio elevando a sistema il fatto di rilanciare le tesi più sconvenienti attraverso l'accorgimento di citare tra virgolette personaggi "santificati" da una qualche grana con i regimi fascisti storici (magari per uno schiaffo ad un vigile urbano, o paradossalmente proprio per... estremismo politico mal conciliabile con la "centralità" mussoliniana o hitleriana), della serie "ecco, si vogliono tacitare le idee scomode già perseguitate anche negli anni trenta, etc."; ed in questo caso invece "non rispettate il diritto alle differenza e le caratteristiche concrete e specifiche delle popolazioni extraeuropee" (accusa che non toccherebbe nessuno, se riferita alla nostra cultura e razza, ma che lascia un forte senso di disagio se generalizzata in un'accusa di "ingiustizia" verso gli altri).


    Senonché, come nell'esempio citato si finisce davvero per essere influenzati da tutte le componenti più bizzarre, lunatiche e marginali del mondo antiliberale della prima metà del secolo, anche il discorso della Nouvelle Droite riguardo la questione dell'originalità ed incomparabilità delle culture finisce oggi per sfociare nell'idea perniciosa di una fondamentale equivalenza tra le civiltà e le razze, di una "pari dignità" accordata incondizionatamente ed automaticamente in ogni direzione storica e geografica.


    Da qui, non c'è che un passo per ammettere addirittura una inferiorità della civiltà europea, o almeno della civiltà europea storicamente esistente, tesi che del resto aveva già fatto più di una breccia tanto negli ambienti tradizionalisti (ex oriente lux, l'"azione" come surrogato povero della "contemplazione", la decadenza moderna ed il regno della quantità rispetto alla conservazione altrove di costumi ed usanze più vicini a una presunta Tradizione ancestrale comune) quanto che in quelli ecologisti e neoprimitivisti (con il loro dichiarato favore per società storicamente stagnanti, in supposta armonia con la natura, "non-aggressive", antifaustiane).


    Tale insieme di idee viene giustamente respinto da Faye come come frutto e manifestazione di un cupio dissolvi, di un etnomasochismo malato che rinnega le proprie radici e di nuovo non percepisce più intellettualmente ed affettivamente la assoluta peculiarità della propria identità rispetto a quella altrui.


    In opposizione ad esso, l'autore ritiene per altro vada opposta polemicamente l'affermazione della superiorità della cultura europea, che il libro "dimostra" con esempi per la verità alquanto convenzionali ed ottocenteschi, come il confronto tra Michelangelo e le statuette precolombiane, tra Mozart e le musiche rituali d'Asia o dell'Oceania, nonché enumerando i portati della cultura europea "in campi tanto diversi quanto l'architettura, la poesia, la letteratura, le arti plastiche, la musica, l'astronomia, la fisica, le scienze naturali, la matematica, la filosofia, la spiritualità, la medicina, le tecniche applicate".


    Ora, è sicuramente apprezzabile qualsiasi tentativo di ridare "coscienza di sé" agli Europei. Ma il discorso di La colonisation de l'Europe diventa per me ambiguo e fuorviante quanto quelli cui l'autore si oppone là dove egli finisce per scrivere: "Esistono ben criteri oggettivi ed universali di comparazione tra le civiltà". O peggio ancora, in uno scivolone assolutamente insolito per Faye nel luogo comune e nel "politicamente corretto": "Vi sono religioni oggettivamente superiori ad altre perché le loro opere spirituali sono più elevate [?] e perché non hanno dato luogo a dei massacri"!


    Ora, l'idea della "superiorità oggettiva" è esattamente il punto di vista dell'estremismo "bianco" americano o del colonialismo franco-britannico, ed è viziata nei suoi presupposti quanto perniciosa nelle sue ricadute pratiche. Per quanto essa possa apparire "etnocentrista" comporta in realtà l'ammissibilità di un confronto universalista "tra mele ed arancie", come si dice in inglese, alquanto estraneo all'esperienza ed allo spirito delle grandi civiltà storiche. Scrive Faye: "I popoli di lunga durata, le civiltà vivaci, si sono sempre creduti centrali e superiori", e cita ad esempio la Cina ed il popolo ebraico. Tralasciando qui le questioni più complesse ed assolutamente peculiari che pone quest'ultimo, è perfettamente vero che tutte le grandi culture e razze si sono sempre ritenute "superiori", ma in rapporto ai valori che esse stesse si davano ed esprimevano, non importando loro minimamente che alla base di tale loro ovvie (e confliggenti) rivendicazioni ci fosse una qualche "verità oggettiva" di natura superculturale e interrazziale.


    Anche il criterio del "successo storico", apparentemente "fattuale", mi sembra equivoco. Intanto perché tale "successo" della civiltà europea è oggi appunto messo pericolosamente in discussione sul piano culturale e biologico, senza che ciò debba minimamente rimettere in discussione la fedeltà che ad essa ritengo di tributare. Secondariamente, perché tale criterio stesso è palesemente influenzato da un punto di vista esattamente occidentale-europeo, posto che il "successo" (versione pervertita dell'idea della "gloria che non muore" specifica della mentalità indoeuropea, e per nulla universale) è già un sistema di misura culturalmente intriso, e come tale può rappresentare ben poco, od essere del tutto incomprensibile, nella prospettive originale, non occidentalizzata, della cultura malgascia o di quella tibetana.


    Ancora peggio ci sembra il ricorso ai "riconoscimenti" che alla superiorità bianca-europea verrebbero tributati dalle altre culture ("In Giappone, per esempio, la musica europea è riconosciuta come più evoluta della musica nazionale"). È facile al riguardo identificare in molti di tali riconoscimenti nulla più che la manifestazione del déracinement imposto dal colonialismo culturale del sistema occidentale, quando non addirittura, ad uno stadio ulteriore di degradazione, degli equivalenti locali dell'esotismo folcloristico e della xenofilia che Faye denuncia con grande efficacia in ambito europeo (vedi i coreani che a Seoul cenano in ristoranti con i camerieri vestiti da alpini o da gondolieri). In altre occasioni, gli stessi riconoscimenti non sono altro che la manifestazione di un fenomeno legittimo di (critica e limitata) cross-pollination culturale, sempre esistito a livello di élites, ed assolutamente funzionale alla nascita, allo sviluppo ed alla fioritura delle grandi culture (che per essere se stesse hanno appunto bisogno di un Altro da cui distinguersi e con cui rapportarsi dialetticamente), cui pure Faye si oppone, dichiarandosi provocatoriamente fautore dell'"isolazionismo culturale".


    Lo stesso identitarismo novecentesco di matrice, diciamo così, italo-tedesca e mitteleuropea si fonda su un'affermazione volontaristica di valori, tradizioni, elementi culturali che vengono difesi e propugnati semplicemente perché sono quelli riconosciuti e rivendicati come propri. Ciò senza alcun bisogno di ricorsi ad una dubbia Ragione Universale, come tale ben suscettibile di smentita (che importa ad un indio boliviano mai venuto in contatto con l'Occidente del pensiero di Eraclito, o su che basi lo stesso dovrebbe riconoscerlo come "superiore" a prescindere dalla cultura irriducibilmente diversa in cui lo stesso vive?). La stessa retorica nazionalsocialista della "razza superiore", correttamente intesa, riguarda l'affermazione di certi valori ed elementi ad un livello interamente interno ad una dialettica tedesca ed europea, ad un giudizio apertamente fondato su scelte ed appartenenze già date per scontate, e ad una volontà di potenza collettiva autofondata. A nessun autore o dirigente di tale ambiente sarebbe mai venuto in mente di pensare che la civiltà europea potesse essere considerata "superiore" dal punto di visto di un ebreo, di un africano, o di un giapponese, così come era chiaro a tutti che il diverso giudizio portato ad esempio su queste tre razze e tradizioni, anzi l'unico giudizio possibile su di esse, era quello appunto formulato dal punto di vista europeo, tedesco e nazionalsocialista, e non certo da quello di un inesistente "osservatore disincarnato".


    Nel momento in cui - dopo aver riconosciuto (e poi inspiegabilmente subito dimenticato) che ciascuna razza e cultura non può che considerarsi per definizione superiore dalla sua propria prospettiva - introduciamo l'idea che esiste una possibile "discussione" al riguardo fondata su referenti comuni ed "oggettivi", giustifichiamo evidentemente la "conversione" alla "superiore" civiltà occidentale, conversione la quale a sua volta finisce per giustificare l'"accoglienza" da parte di quest'ultima di elementi umani e culturali estranei, così "convertiti" e meticciati, al massimo sotto una temporanea "tutela" bianco-europea, ma al termine, inevitabilmente, nell'entropia etnica totale.


    Sono perfettamente d'accordo sul fatto che gli europei devono (pre)occuparsi della loro identità culturale e razziale, prima di angosciarsi per quella altrui, che spesso corre meno rischi. Ma è altrettanto vero che ogni attacco occidentale all'identità altrui rappresenta una lama che taglia da entrambi i lati, perché il meticciato etnico e culturale anulla entrambe le specificità di partenza.


    E queste specificità sono, come riconosce Faye, una ricchezza che condiziona la stessa capacità della specie umana nel suo complesso di conservare la propria peculiarità rispetto al resto della biosfera, sopravvivere, e realizzare il proprio destino. Le razze e culture umane non sono solo come le razze di di cavalli o di cani. Sono anche esperimenti, su scala cosmica e macrostorica, di una autocreazione cui l'uomo è tragicamente chiamato per restare, o meglio per divenire, ciò che è. Per questo ogni grande civiltà ha bisogno dell'esistenza, della re-sistenza di altre popolazioni ben distinte, in termini genetici, spirituali, linguistici, per autodefinirsi ed acquisire, polemicamente, una coscienza di sé. Ripetiamolo ancora una volta: chi afferma aggressivamente la propria identità è al massimo un rivale contingente, chi la nega e rinnega "avvelena anche te", con esiti potenzialmente fatali.


    ***


    Faye ha al contrario perfettamente ragione là dove sottolinea la priorità assoluta, tra le varie questioni politiche attuali, di quella relativa dell'immigrazione allogena, come minaccia alla sopravvivenza etnica, fisica, biologica dei popoli europei.


    In questo senso, ogni altra questione è relativamente secondaria, in quanto questa rappresenta la minaccia ultima, la catastrofe irrimediabile che oggi ci minaccia.


    Di nuovo, però, un minimo di rilievo va a mio parere dato, se non altro a livello politico, all'inserimento di tale fenomeno in uno scenario migratorio, ed "immigratorio", più complesso, che in un certo senso costituisce anche il quadro che rende possibile, facilita od accompagna tale "immigrazione di popolamento" fondamentalmente etnocidaria.


    Intendo ovviamente fare riferimento alla immigrazione che ad esempio l'Italia subisce oggi dall'Europa sudorientale (Albania, Romania, ex Jugoslavia in prima fila), per quasi un venti per cento del totale, e che pur essendo da considerare tecnicamente un flusso interno europeo, e pur essendo l'unica attivamente repressa dal potere costituito (sia pure con risultati risibili), comporta conseguenze sociali devastanti in termini ad esempio di criminalità comune e mafiosa, di ordine pubblico, di illegalità diffusa, che a loro volta affievoliscono la già limitata capacità di resistenza e consapevolezza identitaria delle popolazioni più direttamente esposte. Ugualmente, merita di essere menzionata la migrazione dal sud al nord presente in molti i paesi europei, così come dalla periferia al centro, nelle ultime fasi di un processo di inurbamento e proletarizzazione (o meglio, "mobilizzazione" all'americana) che finisce di consumarsi ancora oggi, così come finisce di consumarsi la distruzione tuttora in corso delle identità regionali sotto l'attacco concentrico della immigrazione allogena e della "naturalizzazione" forzata centralista tuttora in atto.


    Riconoscere lo status di europei agli albanesi o ai rumeni, e sottolineare la paradossale discriminazione di cui questi sostanzialmente soffrono rispetto ai senegalesi, ai cinesi, ai filippini o agli zulu, forse per la sfortuna di essere di razza europoide, non significa perciò approvare o tollerare il trasloco di massa di costoro nelle nostre città; o l'impiantarsi di massiccie comunità estranee - e spesso parassitarie, nomadi o criminali - sul territorio italiano. Così come l'appartenenza al medesimo Stato-nazione non può rappresentare una giustificazione per il perdurare in vaste aree europee, tipicamente nel meridione di alcuni paesi, di circoli viziosi del tipo emigrazione - sottosviluppo - assistenzialismo - clientelismo - mafia - emigrazione, che generano pressioni fiscali e distorsioni economico-politiche inaccettabili nelle regioni urbane e del nord, a loro volta foriere di disgregazione sociale sul modello messicano-brasiliano, e di successiva irresponsabile importazioni di manodopera a basso prezzo su tutto il territorio (cfr. la situazione dell'agricoltura pugliese).


    Questi fenomeni, lungi dall'essere irrilevanti, costituiscono la cornice in cui l'etnocidio delle popolazioni europee autoctone si inserisce e prospera, contribuendo a scardinare i "fondamentali" comunitari di una possibile resistenza, come paiono rendersi perfettamente conto almeno le areee più consapevoli del leghismo italiano,del movimento brettone o del nazionalismo gallese.


    ***


    Infine, abbiamo visto come Guillaume Faye preconizzi la guerra civile etnica sul suolo europeo. Anzi, come egli stesso precisa, piuttosto che una guerra civile del tipo classico e fratricida, una guerra di liberazione nazionale, in senso molto letterale.


    L'autore manifesta infatti, a ragione, una sfiducia assoluta nella capacità delle nostre società di gestire l'impatto dell'insediamento massiccio di popolazioni e culture allogene ed ostili (che sia attraverso l'assorbimento forzato o attraverso l'insediarsi di un modello sociale "multiculturale" e neotribale), ed altresì nella possibilità ormai di contrastare il fenomeno a livello di pure politiche governative o nell'ambito della legalità costituzionale ed internazionale del Sistema, così che prevede il raggiungimento comunque di un punto di rottura che rimetta in discussione i processi denunciati. Non solo. Confida nel prodursi di tale crisi, come elemento necessario perché possa prodursi un rovesciamento delle mentalità e dello scenario politico contemporaneo, in un contesto sostanzialmente insurrezionale.


    Ora, che non esistano soluzioni pratiche all'interno del contesto politico e culturale contemporaneo è perfettamente vero, così come lo è il fatto che si debba avere il coraggio di uscire decisamente dai parametri mentali della political correctness e dei regimi democratico-liberali tradizionali. L'"attesa della crisi" nel pensiero di Faye, crisi etnica in La colonisation de l'Europe come economica od ecologica in Archeofuturismo, rischia però di colorarsi di aspetti messianici, nel senso in cui la Rivoluzione comunista era attesa dall'acuirsi estremo dello sfruttamento, della concentrazione della proprietà dei mezzi di produzione e della lotta di classe; o il Giudizio Universale era atteso come portato dell'Apocalisse. Anzi, posto che tale crisi è tanto più probabile quanto più brutale, quanto meno graduale è il fenomeno combattuto, tale atteggiamento porta ad una valutazione ambigua del suo aggravarsi, per le sue auspicate potenzialità "catastrofiche", in senso etimologico; valutazione che rischia di confinare, come in tutti gli "avventismi" religiosi e laici, con una "logica del peggio" a livello politico fondamentalmente smobilitante, in quanto incoerente con i valori difesi. E che appare pericolosa esattamente alla luce della potenziale irrimediabilità su cui molto insiste Faye stesso di processi che incidono sulla stessa esistenza fisica del soggetto storico europeo, inteso come come gruppo etnoculturale concreto.


    Io sono in effetti più "pessimista", in certo modo, dell'autore, e non mi nascondo, sulla falsariga delle riflessioni di Giorgio Locchi, che se la storia è davvero "aperta" la stessa fine della storia è possibile, che malgrado la resistenza ad essa sempre rinascente l'entropia culturale, razziale, e linguistica incarnata dal Sistema può perfettamente realizzarsi sino in fondo, anche se a prezzi e con scosse oggi impensabili per i suoi fautori. Della "crisi" profetizzata non è perciò affatto certo né il verificarsi - specie ove ora gradualità, ora l'accelerazione dei fenomeni spiazzino le possibilità di presa di coscienza e di reazione collettive -, né soprattutto ne è certo l'esito. Perché le guerre di liberazione scoppino, e soprattutto perché vengano vinte, deve soprattutto esserci qualcuno disposto a combatterle. L'etnocidio non genera rivolta, o almeno rivolta di rilievo politico, di per sé, più di quanto la crisi economica o lo sfruttamento non generino di per sé la rivoluzione, o il diffondersi del peccato ed i cataclismi simboleggiati dall'avvento dell'"Anticristo" generino di per sé le condizioni per la Seconda Venuta.


    Ora, mentre il mito solstiziale ("l'occasione si manifesta a chi la sa attendere", "dove il pericolo è più grande, là nasce ciò che salva", "toccare il fondo da cui non si può che risalire", "la fine del ciclo", etc.) rappresenta un riferimento ed una risorsa spirituale ineludibile per chi si batte oggi per la rinascita e la sopravvivenza stessa dell'Europa, giova riaffermare che non è la crisi che provoca la "rottura del tempo della storia", di cui rappresenta al massimo l'occasione, ma la volontà storica dei soggetti attivi che in essa agiscono. E non sapremmo come suscitare, mantenere e cementare tale volontà se non attraverso un'azione ed una prassi militante e coerente con i principi affermati, che impongono oggi di combattere la colonizzazione e l'etnocidio dell'Europa a tutti i livelli ed in tutti gli ambiti possibili e concretamente offerti alla scelta politica e personale quotidiana, pur nella consapevolezza della loro insufficienza e nella determinazione ad approfittare del mutamento delle condizioni destinato comunque a prodursi, ma nell'appoggio costante a qualsiasi iniziativa di contrasto e contenimento che concretamente ci si offra.


    Stefano Vaj
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  2. #2
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    . Contiene anche numerose provocazioni feconde e dissacranti anche rispetto ad alcune idee o temi ormai dati per scontati tra gli oppositori del mondialismo. Leggiamo ad esempio, riguardo ai popoli del Terzo Mondo: "Non siamo noi ad aver "distrutto le loro culture", come pretendono i difensori - in fondo rousseauiani ed adepti del mito del buon selvaggio - dell'etnopluralismo, che siano di destra o di sinistra. Dopo il passaggio degli Europei, le culture arabe, indiane, cinesi, africane, etc. sono state cancellate? Per niente. Restano in realtà molto più vivaci e molto meno occidentalizzate ed americanizzate delle povere culture europee". O ancora: "In genetale, il pauperismo di molti paesi del sud del mondo non è la conseguenza del colonialismo o del neo-colonialismo, ma della loro incapacità di farsi carico di se stessi, persino quando possedevano enormi risorse naturali. Pensavo anch'io che il colonialismo europeo si fosse reso cinicamente responsabile, per gusto del profitto, del pauperismo del Terzo Mondo. È una visione intellettualistica che ho abbandonato".

 

 

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