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    Post La caduta di Berlino, la fine dell'Europa

    Il recente film di Oliver Hirschbiegel Der Untergang (La caduta), sugli ultimi, drammatici giorni di Berlino, costituisce un’importante testimonianza storica. Vi vediamo rappresentati sul grande schermo, senza le eccessive deformazioni propagandistiche che contrassegnano la maggior parte delle pellicole sulla guerra, i sanguinosi eventi che segnarono la caduta dell’Europa e il suo tragico asservimento alle potenze vincitrici del conflitto. Pur se con alcuni limiti piuttosto vistosi, La caduta rappresenta una straordinaria novità. Dopo sessanta anni dalla fine della guerra, sinora ben pochi film di una certa consistenza erano stati girati, per così dire, con l’occhio degli sconfitti: l’unico che ci venga in mente è U-Boot 96 di Wolfgang Petersen, anch’esso caratterizzato da analoghi toni tragici e dalla significativa caratterizzazione dei protagonisti, pronti ad affrontare con rassegnata determinazione e alto senso del dovere tremende sciagure.

    La caduta prende le mosse nel novembre 1942 a Rastenburg nella Wolfsschanze, la “Tana del lupo” sede del quartier generale del Führer, nei boschi della Prussia sudorientale: viene rappresentata l’assunzione della segretaria personale Traudl Junge (Alexandra Maria Lara) da parte di Hitler (Bruno Ganz). La vicenda si sposta poi rapidamente alla fine di aprile 1945 e segue le vicende della Junge e del personale della Cancelleria del Reich sino alla fine della guerra. I personaggi che si alternano sullo schermo, con l’eccezione di un mostruoso dottor Goebbels (Ulrich Matthes), Ministro della Propaganda e Gauleiter di Berlino, sono ben rappresentati dal cast di attori. Spiccano in particolare tra questi le figure dell’SS Brigadeführer Wilhelm Mohnke (André Hennicke), cui Hitler aveva affidato la difesa militare del centro di Berlino, dell’architetto Albert Speer (Heino Ferch) e dell’aviatrice Hanna Reitsch (Anna Thalbach), che pilotò l’ultimo aereo che raggiunse Berlino assediata. Vi è una cura minuziosa e tutta tedesca nella ricostruzione dei minimi particolari, dagli ambienti alle uniformi, che testimonia l’accurato lavoro di ricerca che è stato svolto per la preparazione del film (ha assistito il regista lo storico Joachim Fest, autore del libro su cui la pellicola si è principalmente basata).

    Al di là di ogni agiografia, la battaglia di Berlino si situa in un territorio in cui la vicenda storica si confonde col mito, o meglio, per citare le parole di Adriano Romualdi, «ogni breve episodio si cristallizza nella memoria dei secoli, ogni figura subisce una stilizzazione eroica, ogni battaglia diventa epopea e mito». E il film di Hirschbiegel riesce a trasmettere questa sensazione proprio attraverso uno spinto e crudo realismo, sebbene vengano lasciati in secondo piano almeno due aspetti che avrebbero meritato una maggiore attenzione. Anzitutto, viene completamente ignorato il significativo apporto di volontari di ogni nazionalità accorsi alla difesa di Berlino; furono proprio alcuni di costoro, francesi della divisione SS Charlemagne e scandinavi della SS Wiking, gli ultimi difensori della Cancelleria. In secondo luogo, cosa forse ancor più grave, gli invasori russi restano per tutto il film in una sorta di zona d’ombra, su cui la telecamera sembra non voler indugiare; la stessa lotta e la determinazione con cui essa viene condotta dai Tedeschi appare come qualcosa di puramente astratto, quasi come se i difensori di Berlino non sapessero quale destino di violenze, di eccidi di massa, di deportazioni e di riduzione in schiavitù sarebbe di lì a poco toccato alla nazione; gli innumerevoli suicidi di civili e militari cui si assiste lungo tutto il corso del film sembrano dettati quasi in via esclusiva dal dolore per la sconfitta militare e il crollo del nazionalsocialismo, ma pressoché per nulla dalla coscienza di ciò che sarebbe arrivato, di lì a poco, a prenderne il posto.

    Colpiscono, poi, alcuni personaggi solo apparentemente secondari, come i giovanissimi cacciatori di carri della Hitlerjugend che sacrificano la loro vita, la sempre allegra Eva Braun (Juliane Köhler) che segue con animo lieve Hitler sino al suicidio, e i sei figli di Goebbels uccisi dalla madre col cianuro, perché non sopravvivessero alla fine di un mondo. L’epilogo del Terzo Reich è stato definito Götterdämmerung, la caduta degli dei preconizzata dall’Edda: e in effetti rare volte nella storia si è assistito a un crollo così tragico di un mondo, tra le fiamme e le macerie. Al di là dei limiti segnalati, la rappresentazione cinematografica che ne è stata data da Hirschbiegel rievoca in modo piuttosto efficace quei giorni eroici e terribili.


    Alberto Lombardo
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

  2. #2
    Non sono d'esempio in nulla
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    Finis Europae



    Ogni anno, quando aprile volge alla fine e il vento di primavera impolvera le strade, la rumorosa celebrazione del 25 Aprile ci strappa dagli abituali pensieri per richiamare alla nostra coscienza la tragica fine della guerra. Il crollo politico e spirituale dell’Italia e dell’Europa. In verità nessuna occasione è più propizia per consentirci di valutare adeguatamente l’entità morale della catastrofe: le bandiere alle finestre per celebrare una sconfitta militare, il giubilo concorde del partito russo e di quello americano che, alla distanza di tanti anni, continuano a rappresentare gli interessi dei loro padroni contro l’interesse nazionale europeo, l’apologia e la celebrazione del 25 Aprile ci strappano dagli abituali pensieri e ci portano a quelli del massacro e dell’odio civile.

    Ma, al di là dell’agiografia commemorativa, rimane la drammatica importanza dell’anniversario. Poiché la guerra la cui fine si celebra non fu solo guerra civile e mondiale ma la tragedia storica che ha portato alla detronizzazione dell’Europa e ha trasferito le insegne del comando del territorio del nostro continente alla Russia e all’America. Con questa tragedia il tramonto dell’Occidente, profetizzato da Spengler nel 1917, diviene una schiacciante, evidente realtà.

    Vi sono epoche nella storia, spesso concluse nel breve giro di mesi o di anni, che ardono da lontano di inestinguibile chiarore, come isolate da un cerchio di luce sull’opaca scena della storia del mondo. Recinti da questa magica cintura di fuoco uomini ed avvenimenti riappaiono con irreale lentezza e ricchezza di particolari come l’estremo profilarsi di costruzioni inghiottite da un incendio che divampa all’orizzonte in una notte serena. Sono le epoche cruciali, quelle in cui l’angelo della storia batte con le sue grandi ali a sollievo o a terrore dei popoli e in cui, nel volgere di pochi, turbinosi eventi, si decidono i destini delle civiltà.

    A queste epoche appartiene la seconda guerra mondiale, che segna la lotta estrema dell’Europa contro la morte politica e si conclude con la sua lunga, disperata agonia. In essa ogni breve episodio si cristallizza nella memoria dei secoli, ogni figura subisce una stilizzazione eroica, ogni battaglia diventa epopea e mito.

    L’agonia dell’Europa è lunga. Essa incomincia all’alba del 6 giugno 1944 quando il mare di Normandia, d’un tratto, nereggia di navi. È un’armata navale immensa e paurosa, la più grande flotta di tutti i tempi radunata per rovesciare sulle difese del Vallo Occidentale una marea di uomini e di armi. L’America, con le sue forze intatte ed il suo poderoso potenziale industriale scaglia centinaia di migliaia di soldati contro i bastioni della madrepatria europea. E’ la Nemesi storica che si volge contro il vecchio continente colpevole di non aver saputo garantire adeguate possibilità di vita a milioni di suoi figli e di averli lasciati fuggire oltre l’Oceano ad alimentare la forza della grande repubblica materialistica dei deracinés. La lotta divampa crudele sul bianco nastro costiero della penisola di Cotentin. Ogni minuto, ogni ora rimbomba di paurosi boati, di schianti mortali: è il giorno più lungo della guerra, come Rommel lo aveva chiamato. La difesa è impari ma disperata: «Gli uomini della SS – racconterà un superstite di parte americana – si gettavano sui nostri carri armati come lupi sulla preda. Ci costringevano ad ucciderli anche quando ci saremmo accontentati di prenderli prigionieri». È il momento decisivo della guerra: se gli Americani vengono ributtati a mare, se le difese del Westwall tengono, la grande invasione del continente potrà essere ritentata tra due, tre anni. In quel tempo tutto potrebbe cambiare. Ma la schiacciante superiorità delle forze e il totale dominio dell’aria decidono la lotta.

    Se il pensiero ripercorre quegli avvenimenti si fissa su alcuni ossessivi dettagli che portano il segno della fatalità. Così la mancata utilizzazione della segnalazione del controspionaggio tedesco che aveva individuato la parola d’ordine dell’invasione diffusa in linguaggio cifrato dalle emittenti inglesi; così l’assenza di Rommel, in visita alla moglie per il compleanno di lei. Ma, due giorni prima dello sbarco di Normandia, ben altro presagio si era mostrato a segnalare sciagura e fine per l’intero continente: la caduta di Roma. Roma la città creatrice della civiltà dell’Occidente il 4 giugno era stata occupata dalle truppe alleate. Pure, sulla via di Roma, dal lontano gennaio in cui erano sbarcati nel porto di Anzio, gli Americani avevano lasciato caterve di morti. E su questo medesimo fronte si erano verificati alcuni oscuri fatti d’armi, piccoli nella cronaca generale della guerra, ma gravidi di significato per l’onore del nostro popolo: per la prima volta dopo l’otto settembre soldati italiani avevano combattuto in prima linea contro l’invasore. In aprile, dopo l’incontro con Hitler a Klessheim, Mussolini aveva visitato le divisioni italiane addestrate in Germania. Con giubilo indescrivibile Mussolini era stato accolto da un unico grido levatosi dalle bocche di quei dodicimila uomini: «A Nettuno! A Nettuno!». Ora quella prima invocazione alla lotta e al sacrificio aveva trovato conferma nel sangue. Il battaglione Barbarigo, insieme ai volontari delle SS italiane, aveva tenuto valorosamente il fronte tra Borgo Piave e il lago Fogliano. Di mille ne rimasero meno di 400. Ad Ardea e a Pratica di Mare i giovanissimi della Folgore compirono prodigi di valore. Anch’essi si fecero uccidere fino all’ultimo uomo muovendo all’assalto dei cari nemici col moschetto e, all’occorrenza, anche col pugnale. Di 980 andati in linea il 31 maggio, il 3 giugno non ne rimanevano che 30. E questi trenta eroici disperati, ritirandosi verso Roma col cuore pieno d’angoscia per la scomparsa dei loro camerati, ancora trovavano la forza di fermarsi, di piantare le mitragliatrici, di scagliare le ultime, rabbiose raffiche contro il nemico.

    Il crollo del Vallo Atlantico e la occupazione della Francia, portata a termine per i primi di settembre, costituirono il primo esempio di “liberazione” in grande stile e, conseguentemente, la grande prova generale del nuovo costume “liberatorio”. L’Europa, che ancora non aveva avuto modo di impratichirsi nella nuova moda politica, trattenne il respiro di fronte ai nuovi orrori, di marca prettamente democratica. «Oh libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome!»: queste parole che Madame Roland pronunciò salendo alla ghigliottina costituiscono il miglior commento alla sanguinosa carneficina con la quale si tentò di distruggere tutti quei francesi che avevano collaborato con la Germania per la creazione di un nuovo ordine europeo. Le vittime, secondo le dichiarazioni ufficiali di un ministro francese del dopoguerra, ascendono a oltre centocinquemila. Altri, innumerevoli, vennero stipati nelle prigioni rigurgitanti di uomini e di donne. I volontari antibolscevichi, che hanno bagnato del loro sangue la terra di Russia per difendere l’Europa dal comunismo, subiscono la crudele vendetta dei copartigiani rossi che li braccano, li massacrano, li seviziano. È un’immensa tragedia che prelude a quella che dilagherà in tutta Europa pochi mesi più tardi.

    Tra le vittime della “libertà” sono alcuni dei migliori ingegni francesi: gli scrittori Céline e Chateaubriand, costretti all’esilio, Charles Maurras, che paga con l’ergastolo la sua battaglia contro il farisaismo democratico, Drieu La Rochelle, suicidatosi per la incapacità di sopravvivere in un mondo crollato, Brasillach, fucilato nel febbraio del ’45 dopo che, nel settembre dell’anno precedente, si era costituito per far liberare la madre. Brasillach non aveva mai svolto una vera e propria attività politica, non era mai stato iscritto a nessun partito. Ma aveva messo la sua opera di poeta e di scrittore al servizio di quella che riteneva la causa della gioventù europea. Nel carcere egli verga ancora gli ultimi scritti, i versi degli indimenticabili poemi di Fresnes: «Sento il dolore del mio paese con le sue città in fiamme – le sofferenze inflittegli dai suoi nemici e dai suoi alleati – sento l’angoscia del mio paese lacerto nel corpo e nell’anima – chiuso nella ferrea trappola della sofferenza».



    * * * * *



    Intanto, nella torrida estate che vede la liberazione della Francia, gli alleati risalgono la penisola italiana verso la Linea Gotica. Al Nord la Repubblica Sociale si prepara alla lotta più aspra e disperata. L’invasione del territorio nazionale, l’intensificarsi del terrorismo comunista richiedono una mobilitazione nazionale delle forze combattenti. Gli iscritti al partito, dei 18 ai 60 anni, vengono armati. Nascono così le Brigate Nere. L’anima di questa resistenza accanita, di questo nuovo Fascismo che ritrovato lo spirito e l’audacia delle squadre d’azione, è Pavolini. Giovane, dinamico, interessato ai problemi della cultura e scrittore egli stesso, Pavolini, che proviene da una delle migliori famiglie fiorentine, incarna l’energia disperata dell’ultima battaglia, la volontà della lotta ad oltranza. È lui che organizza i fascisti di Firenze per l’estrema resistenza nella città. A Firenze, sgomberata dai Tedeschi, i franchi tiratori fascisti resistono per una settimana. Uomini, donne, fanciulli, sparano dai tetti sugli alleati e sui comunisti. Dopo la fine della guerra un ufficiale americano, chi gli chiede quale città italiana gli sia piaciuta di più, risponderà: «Firenze, perché è l’unica città dove ho veduto degli italiani che hanno avuto il coraggio di spararci addosso». Malaparte dedicherà un’indimenticabile pagina de La Pelle alla descrizione della fucilazione di franchi tiratori e franche tiratrici fiorentine, ragazzi e ragazze di quindici o sedici anni che muoiono beffandosi dei loro carnefici gridando: «Viva Mussolini!». È l’unica pagina pulita e luminosa in quel libro così tetramente sudicio e opaco, l’unica nella quale il nome italiano esca onorato.

    Ma la grande, paurosa minaccia incombe da Oriente. Dalle tragiche giornate di Stalingrado il bolscevismo ha continuato la sua inarrestabile marcia verso Ovest. Nell’estate del ’44 esso forza le porte orientali d’Europa e dilaga nei Balcani. Il tradimento della Romania e delle Bulgaria permette ai sovietici di congiungersi con le bande di Tito e di entrare a Belgrado il 22 ottobre. Pochi giorni prima, il 15, mentre i Russi forzavano i passi dei Carpazi, Horthy aveva chiesto un armistizio. Fulmineamente i Tedeschi ristabiliscono la situazione formando un governo capeggiato dal maggiore Szalazy, il condottiero delle Croci Frecciate, sostenitore della resistenza all’ultimo sangue contro le orde sovietiche che dilagano in tutta l’Ungheria, bruciando, saccheggiando, stuprando. Contemporaneamente le truppe sovietiche hanno continuato la loro avanzata nel settore nord del fronte orientale. Ad agosto hanno occupato il sobborgo orientale di Varsavia, Praha, separato dalla Vistola dal resto della città. Nella capitale polacca divampa la rivolta. Essa sarà miseramente schiacciata dai Tedeschi sotto lo sguardo impassibile dei Russi che, di là dal fiume, assistono con soddisfazione al massacro delle ultime forze “borghesi” polacche. In settembre e in ottobre si compie la tragedia dei paesi baltici, rioccupati dai Russi. Ben trecentomila profughi seguono la ritirata delle armate tedesche mentre le forze superstiti della Wehrmacht si trincerano in una sacca in Curlandia.

    La guerra divampa ormai alle frontiere della Germania mentre le città tedesche ardono, notte e giorno, in un continuo rogo di bombe. Ma la volontà di resistenza è incrollabile. Gli alleati insistono nell’offrire l’inconditional surrender. Dall’altra parte i Russi hanno eloquentemente chiarito le loro intenzioni massacrando fino all’ultima donna e all’ultimo bambino la popolazione del primo villaggio tedesco caduto nella loro mani. La risposta a tutto ciò sono le V1 e le V2, le micidiali armi nuove che portano il nome della vendetta (Vergeltung 1 und 2) e che volano oltre la Manica come frecce di fuoco. Di fronte alla minaccia d’invasione del suolo della Patria si decreta la mobilitazione totale. Nasce così il Volksturm, l’“uragano di popolo” nelle cui fila combattono vegliardi e giovinetti. Il 2 ottobre gli Americani giungono davanti alla prima città tedesca, Aquisgrana. All’intimazione di resa il comandante della piazza risponde che «una città dove sono stati incoronati 14 imperatori tedeschi non si arrende senza l’onore di un combattimento». La lotta divampa per venti giorni. Nel centro della città le SS si sacrificano fino all’ultimo uomo per permettere la ritirata dei difensori e la ricostituzione di un fronte sulla Roer che reggerà per ben 4 mesi. Dalle città arse, dalle vie ingombre di cariaggi e di feriti, dalle profonde foreste germaniche si leva ancora l’inno dei giovani hitleriani: «Tremano le fradice ossa del mondo – di fronte alla grande guerra – ma noi continueremo a marciare – anche quanto tutto ci cadrà intorno in pezzi».

    Pure, nel tumulto della guerra, la fine del 1944 arreca un poco di sollievo, un momento di tranquillità insperata, di nuova speranza. La fortezza europea è stata invasa ma sul fronte della Vistola, sulla linea Sigfrido, sulla Gotica, in Ungheria la situazione tende a stabilizzarsi. Il mondo si copre di un manto di neve che, come il cielo nebbioso che impedisce il volo ai bombardieri alleati, sembra distendersi a sollievo e protezione dell’Europa. Sono ancora possibili giornate di speranza, di euforia, come quella in cui Mussolini parla a Milano, al Teatro Lirico. All’uscita, una folla indescrivibile gli è intorno, lo saluta col braccio levato, si accalca gridando enfaticamente “Duce, Duce!». È l’ultimo discorso di Mussolini e l’ultimo trionfo. Egli ha parlato con moderazione e fermezza, ha illustrato le realizzazioni della Repubblica, ha polemizzato coi Tedeschi. L’eco è immensa in tutta l’Italia che deve ammettere che il Fascismo è riuscito è riuscito a superare la crisi del 1943, che ha ancora uomini e chances, e che, soprattutto, può ancora affascinare i giovani.

    Ma ben altra speranza viene dal fronte occidentale. Un giorno di dicembre l’esercito tedesco, che tutti danno per spossato e boccheggiante, passa violentemente all’offensiva. Le SS escono dalle loro buche nevose e travolgono le sorprese ed impreparate difese americane. È la battaglia delle Ardenne, il canto del cigno della Wehrmacht. Obbiettivo, Anversa, il grande porto belga senza il quale gli Americani non potrebbero continuare l’offensiva contro la Germania. È la estrema, geniale mossa di Hitler, che tenta di ripetere la manovra del 1940, la frattura del fronte nemico e l’insaccamento di una parte di esso. Per quest’ultima, disperata sorpresa si è provveduto al possibile e all’impossibile. Skorzeny, il leggendario liberatore di Mussolini, passa le linee con soldati travestiti da americani cambiando i cartelli stradali e creando lo scompiglio nelle retrovie nemiche. Per un istante il sole della vittoria risplende ancora sulla rossa bandiera crociuncinata. Ma è l’ultimo barbaglio di un astro cadente. Presto la schiacciante superiorità nemica ristabilirà l’equilibrio.

    È così che, al principio del 1945, si leva il sipario sull’ultimo atto della tragedia europea. Simbolicamente la prima città martire è Budapest, circondata il 24 dicembre e assediata fino al 20 febbraio. Le Croci Frecciate versano il loro sangue a fianco dei militi tedeschi. È da quel sangue che nascerà la scintilla della rivolta del 1956. Poi è la volta delle provincie orientali tedesche, raggiunte dall’offensiva sovietica del 12 gennaio 1945. Il Gauleiter slesiano Hanke aveva battezzato i lavori difensivi apprestati contro i Russi “Unternehmen Barthold”, l’operazione Barthold, dal nome del leggendario margravio tedesco che fermò i Mongoli in Slesia. Ora sono veramente le nuove orde di Gengis Khan quelle che vengono avanti. La guerra sembra ritornata ai tempi primordiali, quando lo stupro e il saccheggio erano il premio del vincitore. «Soldati dell’Armata Rossa! – scrive in un proclama propagandistico il raffinato letterato ebreo Ilija Ehrenburg – prendete le donne tedesche, umiliate il loro orgoglio razziale!». Mai nessun invito fu più fervidamente preso sul serio. Anche le bambine vengono ripetutamente violentate da dieci, venti soldati fino a morire di dissanguamento. Di fronte ad un così efferato nemico ogni viltà, ogni ritirata, è un crimine intollerabile.

    In Italia il terrore slavo infuria sul Carso. Militari e civili vengono seviziati, uccisi gettati nelle cupe voragini dette foibe. Ancora adesso quella terra restituisce gli scheletri dei “giustiziati”, l’uno incatenato all’altro col filo spinato, il vivo accanto al morto che col suo peso trascinava il compagno nell’abisso. È alla Repubblica Sociale che spetta l’orgoglio di aver compiuto l’estrema difesa dell’italianità della Venezia Giulia. Negli ultimi giorni di sfacelo i militi fascisti si dirigono verso il fronte orientale per tentare di salvare il diritto dell’Italia in quelle terre.

    Siamo ormai all’epilogo. Il 20 aprile, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, Adolf Hitler ha preso la drammatica decisione di rimanere a Berlino fino alla fine. I manifesti annunciano alla popolazione, ignara della sua presenza in città, che «il Führer è a Berlino, il Führer rimarrà a Berlino, il Führer difenderà Berlino fino al suo ultimo respiro». Il 23 tutte le sirene suonano: i Russi sono penetrati nei quartieri orientali della città. Incomincia l’ultima battaglia. I giovani hitleriani, in calzoni corti, si gettano sui carri nemici. Particolare significativo: gli ultimi difensori della Cancelleria del Reich non sono tedeschi ma i norvegesi della divisione SS Nordland e i francesi della Charlemagne. Il 30 aprile Hitler si uccide. Il rogo divampa nel cortile della Cancelleria mentre gli ultimi fedeli alzano il braccio nel saluto. Il giorno seguente lo seguirà Goebbels con la moglie e i figli. Lascia scritto: «Credo che in un momento come questo la nostra causa abbia bisogno di esempi più che di uomini».

    Anche per l’Italia è giunta l’ora della sua più grande tragedia storica. Gli alleati dilagano ormai oltre la Linea Gotica, invano contrastati dai soldati repubblicani sul Senio e sul Reno. Le bande partigiane possono finalmente scendere al piano per mietere i frutti dell’altrui vittoria. Frutti di sangue. La parola d’ordine è “Uccidete il fascista ovunque lo trovate”. Lo sterminio dei fascisti è sempre legittimato anche quanto si tratta dei 120 allievi diciassettenni della Guardia Repubblicana di Oderzo, arresisi pattuendo di aver salva la vita, o dei prigionieri di Schio, uccisi a tradimento all’interno del carcere. Non è disordinato tumulto o ira di popolo ma una sistematica, precisa disposizione del partito comunista che vuole sbarazzarsi per tempo di tutti gli uomini che possano ancora lottare per impedirgli di prendere il potere. Gli ultimi difensori della Repubblica Sociale, sorpresi dalla catastrofe e dal tradimento dei comandanti tedeschi in Italia, che si arrendono separatamente agli alleati, vengono catturati, disarmati, fucilati. Nel caos finale risplende il miraggio della ridotta in Valtellina, dell’ultima battaglia combattuta tra le nevi eterne delle Alpi. Ma il destino ha deciso le sorti dei capi fascisti e del Duce. Essi condividono il martirio degli oscuri 60.000 assassinati in questa settimana di passione. «Mirate al petto!»: queste le ultime parole di Mussolini trapelate dal silenzio ufficiale imposto dai dirigenti comunisti agli esecutori materiali della fucilazione.

    Adriano Romualdi


    Brano tratto da Le ultime ore dell'Europa, Edizioni Ciarrapico, Roma 1976.
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    Predefinito Re: Sul tema

    Originally posted by Sùrsum corda!
    http://www.ileonimorti.it


    Lettera all'editore italiano
    Non siamo mai stati, caro amico, ne disertori, ne di conseguenza Vicepresidenti del Consiglio dei Ministri, ma ricordiamo assai bene del detto di Napoleone: "Ciò che conta in guerra non sono gli uomini, è l'uomo cioè il soldato che sa battersi fino in fondo, difendendo un pezzo di terra o, contro ogni logica, un brandello di idea".

    Nel libro I Leoni Morti assistiamo alla difesa della Cancelleria del Reich da parte dei combattenti francesi della Divisione S.S. Carlomagno, il 2 maggio del 1945. Sapevano bene che tutto era perduto. Cosa facevano allora laggiù?

    Anche in Coulqualber, fine dell'Impero, di Rinaldo Panetta, vediamo i soldati del Colonnello Ugolini contrattaccare all'arma bianca e cadere su di una terra remota che l'Italia aveva civilizzata: per loro non v'era speranza, tuttavia perdettero in pochi giorni l'85% della loro forza. E così fu della Folgore ad El Alamein, così dei Giovani Fascisti a Bir El Gobi, così delle Camicie Nere della Tagliamento nella battaglia di Natale in Rissia, così dei bersaglieri "cacciatori di carri" che combatterono col Maresciallo Rommel in Cirenaica, di aviatori e marinai italiani che compirono, durante l'ulimo conflitto, imprese inaudite.

    L'essenziale, rimane sempre l'uomo. Gli assediati dell'Alcàzar di Toledo, gli aviatori giapponesi Kamikaze, i fanti tedeschi combattenti sull'Oder nel 1945 e, più di recente, i difensori portoghesi di Carmona nell'Angola, appartengono alla stessa famiglia. Il loro onore è fedeltà. Ecco perche con questa lettera, vorrei, di là d'ogni frontiera, dedicare quest'edizione italiana alla nobile famiglia del Soldato.
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    Berlino 1945
    I superstiti della Pomerania raggruppati a Neustelitz dal 24 marzo, entrarono a far parte della III Armata blindata comandata da Von Manteuffel. Ufficialmente ribattezzata Reggimento Chalemagne, questa unità rappresentava un piccolo battaglione con 800 uomini, stanchi e con il morale a pezzi. Krukenberg, dopo la sparizione di Paud, divenne il diretto responsabile dei volontari francesi. Approfittando di una parata nei pressi di Carpin, per la consegna delle decorazioni ai più meritevoli, Krukenberg invitò tutti coloro che non desideravano più battersi a lasciare l'unità. Egli sperava di riorganizzare l' unità e colmare i vuoti con il migliaio di francesi radunati a Wildflecken, che invece finirono in Baviera catturati dagli americani.

    E così circa 300 francesi con un solo ufficiale formarono un battaglione di lavoratori che andò ad accantonarsi nei dintorni di Derwin. I 500 che restarono furono divisi in tre mini-battaglioni: il 57° agli ordini del Capitano Fernay, che si posizionò a Furtensee; il 58° agli ordini del tedesco Jauss a Wokuhl e l' unità pesante di Boudegueux a Goldenbaum. La compagnia d'onore ricostituita e posta agli ordini del Tenente Weber si accompagnò a Georgenhof.

    I russi erano ormai a pochi chilometri da Berlino e Krukenberg ricevette l'ordine di assumere il comando dei resti della II^ divisione S.S. Nordland a Berlino, e fu autorizzato a portare con sè anche i francesi. Il 24 aprile il reggimento Charlemagne si avviò verso la capitale del Reich su otto autocarri, mentre l'artiglieria russa stava già colpendo da tre giorni la sua periferia, mentre i carri armati russi di Koniev erano già a Potsdam e quelli di Zukov a Oranienburg. A sud di Furstenburg due autocarri si persero. Quando ritrovarono la strada non avevano più abbastanza carburante e ritornarono a Carpin. Gli altri arrivarono a 20 Km. da Berlin, dovettero proseguire a piedi. Erano rimasti in 300 con un armamento adatto ai combattimenti per le strade: Panzerfaust e Sturmgewehr (il nuovo fucile da assalto tedesco). Raggiunsero i sobborghi della città durante la notte. All'alba del 25 aprile l'accerchiamento di Berlino era totale. I francesi, aggregati ai 1500 della Nordland, vennero inviati nel quartiere di Neukolnn, nel settore sud-est, dove maggiore era la pressione russa. Bisognava attraversare la capitale da ovest ad est, a bordo di camion. I volontari francesi avevano ancora la forza di cantare.

    Da molto tempo a Berlino non si erano visti dei soldati andare a combattere con tanto entusiasmo. L'attacco finale contro Berlino iniziò all'alba del 16 aprile. Lungo il fronte dell Oder (400 Chilometri) i russi avevano ammassato una gran quantità di uomini e mezzi: tre armate, 150 divisioni, due milioni e mezzo di soldati, 41.600 cannoni e lanciarrazzi, 6.300 carri armati e 8.400 aerei. Al nord c'era la II Armata bielorussa del generale Zukov e al sud la I Armata ucraina di Konev.

    L'offensiva sovietica aveva come obbiettivo immediato Kustrin, la cui conquista avrebbe aperto le porte verso Berlino. Il comando germanico e lo stesso Hitler furono colti di sorpresa, avendo pensato invece ad un'offensiva in direzione di Dresda e il Danubio; infatti erano state inviate truppe di rinforzo in Cecoslovacchia. Ristabilita la situazione, venne predisposto in extremis un piano per la difesa della Capitale, articolato su tre linee circolari concentriche: una prima linea di 180 Km, lungo il perimetro vero e proprio della città e l'ultima, comprendente la Zitadelle, ossia il quartiere governativo con i ministeri, il Reichstag e la Cancelleria.

    All'interno dell'area difensiva c'erano però ben poche truppe, male addesatrate e male equipaggiate. Il comandante militare della città (nominato il 24 aprile 1945), il Generale Helmut Weidling, poteva cotntare su degli improvvisati reggimenti della Marina e dell'Aereonautica, i vecchi del Wolkstrum, i giovani della HitlerJugend, qualche pompiere, i resti della 15^ divisio ne SS Lettone, della 32^ 30 Jaunar, i due reggimenti ridotti della Nordland ed i francesi.

    A difesa della Zitadelle c'era una brigata mista SS (denominata per l'occasione Adolf Hitler), circa 2.000 uomini agli ordini del generale Wi lhelm Monhek, che includeva anche grupi di ragazze addestrate all'uso dei Panzerfaust. Il 24 aprile a Ketzin, 15 Km a nord di Potsdam, i reparti avanzati di Konev si collegarono con quelli di Zukov, stringendo la morsa intorno alla capitale: agli assediati restava una sola via di fuga verso nord-ovest.

    Hitler iniziò ad inviare ordini a tutti i comandanti delle forze armate tedesche disponibili sia ad est sia ad ovest, affinchè si portassero su Berlino: al generale Walter Wenck, che si trovava ad ovest, al generale Theodor Busse all' est e al generale SS Felix Steiner, che si trovava a nord-est della capitale. Wenck con la sua XII Armata si sarebbe dovuto sganciare dal fronte occidentale, puntare su Berlino e congiungersi a sud della capitale con la IX Armata di Busse che a sua volta si sarebbe dovuta sganciare dal fronte dell' Oder. La XII Armata di Wenck era però ridotta male, in uomini e mezzi: delle sue nove divisioni nell'organico ne esistevano appena tre con pochissimi carri a disposizione. la IX Armata non poteva sganciarsi dal fronte dell'Oder, perchè stava combattendo duramente contro i sovietici nei pressi di Furstenwalde, nel vano tentativo di contenere l 'avanzata.

    Infine il III corpo corazzato di Steiner, a corto di carri, di munizioni e di carburante, avrebbe dovuto contenere il nemico nei pressi di Oranieburg, con l'obiettivo di fermare Rokossovski.

    Il 25 aprile 1945, la 58^ divisione sovietica di fanteria della V Armata si congiunse sulla Mulde, un affluente dell'Elba, con il 69° reggimento di fanteria della I Armata Usa, tagliando così in due il territorio tedesco. Il 26 aprile le forze di Zukov da nord e quelle di Konev da sud mossero insieme contro il perimetro difensivo della città. Due giorni di combattimenti portarono le armate di Zukov sulle rive della Sprea nella zona di Moabit, mentre dal sud i russi di Konev erano avanzati fin quasi al Tiegarten: i due schieramenti minacciavano ormai di tagliare la città in due, dividendo il settore orientale da quello occidentale.

    Tra di essi si trovava il Reichstag ed il bunker nei giardini della Cancelleria: intorno i combattenti europei delle Waffen SS. il Generale Weidling, vista la difficile situazione, invitò il Fuhrer ad una sortita verso sud-ovest per raggiungere le forze di Wenck ed evitare così una lotta distruttiva all'interno della capitale: Hitler si rifiutò di abbandonare Berlino, continuando a sperare che almeno Steiner e il 49° Corpo d' assalto della IX Armata del generale Rudolf Holste venissero in suo aiuto.

    I volontari francesi riuscirono a ricongiungersi con i loro camerati scandinavi della Nordland, e protetti da un carro Tigre, attaccarono subito gli avamposti sovietici, con qualche risultato, ma con gravissime perdite. I russi erano avanzati a cinquanta metri dal palazzo municipale di Neukolln, dove si era insediato il comando della Charlemagne. Nella stazione sotterranea della metropolitana, il capitano Fernay organizzava le unità in piccoli gruppi di cacciatori di carri.

    All'alba di sabato 28 aprile, i russi iniziarono a bombardare con le artiglierie Potsdamer Platz e la Cancelleria. Quel che restava del battaglione Charlemagne si ritrovò a difendere la Piazza Belle-Alliance, per impedire ai russi l'accesso alla Cancelleria. Con un unico carro Tigre e sprovvisti di armi pesanti ad eccezzione di un mortaio, i francesi si difesero strenuamente riuscendo a distruggere diversi carri sovietici. Ma la valanga russa era ormai inarrestabile; arrivarono altri carri e la fanteria si mosse all'attacco mentre l'artiglieria iniziò a martellare incessantemente le posizioni dei francesi, che alla fine furono costretti ad appiccare un incendio per riuscire a disimpegnarsi dai combattimenti. Da quando erano giunti a Berlino, i volontari non avevano avuto nè il tempo nè la possibiltà di lavarsi. Avevano esaurito le scorte di viveri e non avevano nulla da bere, a parte qualche bottiglia di vino raccimolata dai camerati della Nordland.

    Sempre il 28 aprile, il comandante della V armata sovietica da assalto, Generale Bersarin, emanava la sua prima ordinanza in qualità di " Capo del presidio della città di Berlino ", all'interno della quale vi erano anche raccomandazioni rivolte alle sue truppe affinchè rispettassero la proprietà privata e la popolazione Berlinese. Gli stupri e le violenze dei soldati dell'Armata rossa contro le inermi popolazioni civili incominciavano ad infastidire gli stessi comandanti sovietici.

    Hitler dal suo bunker, ormai fuori dal tempo e dalla realtà, continuava ad interessarsi delle superstiti unità tedesche ancora sparse in Europa ed impegnate in duri combattimenti, mentre le truppe sovietiche di Rokossovski avevano invece raggiunto il centro di Berlino. Alle 18 dello stesso giorno, Hitler tenne un'ennesima riunione durante la quale venne tracciata l'amara realtà: Busse non riusciva a superare gli ultimi 30 chilometri che lo separavano da Wenck, che a sua volta era rimasto con pochi uomini e pochi mezzi; Holste era stato circondato dalle truppe di Zukov, mentre Steiner si era fermato sul canale Ruppin. A completare il dramma arrivò nel bunker la notizia del " tradimento " di Himmler: all' insaputa di tuuti il comandante delle S.S. si era incontrato a Lubecca con il conte Folke Bernadotte della croce rossa svedese per concludere un armistizio con gli alleati, ma la sua proposta non venne accettata.

    Il 29 aprile i sovietici agli ordini di Zukov, sferrarono l'assalto finale. Ma prima di attaccare con la fanteria e i carri, ricorsero ancora all'artiglieria: 25.000 cannoni rovesciarono su Berlino 25.000 tonnellate di proiettili. La stessa quantità di bombe che l' aviazione americana aveva sganciato su Berlino dall'inizio della guerra. Malgrado tutto, i difensori di Berlino combatterono ancora una settiamna, con un'impresa epica, mai eguagliata nella storia militare di tutti i tempi.

    All' alba del 30 aprile i francesi si battevano a qualche centinaio di metri dal bunker dove Hitler viveva il suo ultimo giorno; poche ore dopo il Fuhrer si sarebbe suicidato, dopo avere nominato suo successore l'Ammiraglio Doenitz. I francesi e gli altri volontari stranieri continuarono a combattere, ignorando anche la notizia della morte del loro capo. Gli ultimi quattro soldati delle Waffen SS decorati furono francesi; avevano distrutto decine di carri sovietici usando i Panzerfaust. Solo il 2 maggio, dopo aspri combattimenti, i due eserciti sovietici di Zukov e Konev si incontrarono sulla Charlottenburg Chausèe: la battaglia di Berlino era terminata. I pochi superstiti francesi sfuggirono ai russi attraverso i sotterranei della metropolitana. Gli altri furono catturati e fucilati.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

 

 

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