dal Gazzettino di ieri:
Mercoledì, 24 Agosto 2005
L'INTEGRALISMO DELLA SINISTRA
TOLLERANTI SOLO A PAROLE
di CARLO SGORLON
Desidero cominciare questo articolo esprimendo la mia solidarietà al governatore del Veneto Giancarlo Galan, condannato dalla magistratura a mezzo miliardo di lire di risarcimento per aver detto, con altre parole, in verità piuttosto pesanti, che la Rai Veneta è dominata da una cultura di sinistra.
Non ho informazioni su questo, ma ottime ragioni per ritenere che se Galan intendeva dire che in Italia v'è una cultura egemone di sinistra, non posso che essere d'accordo con lui. Tutta la mia esperienza di uomo e di scrittore ne fornisce la riprova. Se le sinistre fossero veramente e sinceramente interessate a dialogare con culture e ideologie diverse dalla loro, è giusto pensare che dovrebbero farlo innanzi tutto con i compatrioti che non condividono la loro visione del mondo, prima che con extracomunitari, veicolo di culture e religioni radicalmente diverse dalle nostre.
Dovrebbero, ante omnia, prendere atto fino in fondo che accanto alle loro ideologie, dominatrici perché prevalgono nelle università, nelle televisioni, anche private, nei grandi giornali e settimanali, nelle Case Editrici e nei modi di pensare diffusi, ve n'è un'altra che non si definisce progressista ma conservatrice. Una cultura che, nelle sue manifestazioni più alte, e ovviamente in quelle soltanto, tende alla conservazione di valori etici e non di privilegi.
Che vi siano in una società culture diverse, che si accettano a vicenda, che discutono, che collaborano ad alimentare i valori di un Paese è una legge sostanziale della storia. Essa è già ben evidenziata da Hegel, il quale riteneva che non soltanto il pensiero umano, ma tutta la storia procedesse per tesi e antitesi; ed è il fondamento stesso della democrazia occidentale. Invece in Italia essere conservatore è considerato una sorta di vergogna spirituale, che viene punita con il silenzio e l'isolamento, con una specie di cordone sanitario nei casi migliori; con l'aperta irrisione, il sarcasmo o addirittura la demonizzazione in quelli peggiori. Tutte queste forme io le ho sperimentate sulla mia pelle.
È sempre antipatico parlare di sé e "pro domo sua"; però è anche vero che quando uno racconta la sua vicenda personale non utilizza impressioni, supposizioni, sospetti, che potrebbero essere anche sbagliati, ma ricordi precisi. Io ho ormai quarantacinque anni di lavoro letterario alle spalle. Ho pubblicato una trentina di libri, tra romanzi, racconti e saggi. Sono uno dei più fecondi scrittori italiani, e anche uno dei più stimati, per il mio anticonformismo, l'etica severa, la costante ricerca della poesia e dell'umanità, e per il tentativo di ripristinare, per quello che potevo, la sacralità del sentire, la cui mancanza è la causa indiretta di un'infinità di cose deformi e atroci del nostro tempo.
Sono stimato, naturalmente dagli intellettuali non progressisti, o quantomeno non partigiani. Ho vinto una quarantina di premi nazionali, tra cui i più importanti e i più popolari. Quando il premio era deciso da una vasta giuria, ho quasi sempre ottenuto votazioni plebiscitarie. Ricevevo più consensi di tutti gli altri finalisti messi insieme.
Cinque monografie sono state scritte sul mio lavoro di narratore, e dentro un anno probabilmente ne uscirà una sesta. Ho venduto tre milioni di libri, contando anche le edizioni popolari, ma escludendo le numerose traduzioni.
Tutto questo non è bastato a convincere alcuni intellettuali e critici progressisti che sono uno scrittore da prendere sul serio. Ci sono storie letterarie del Novecento, o della seconda metà del secolo, in cui il mio nome non appare neppure in una glossa.
Vi figurano autori privi di ogni risonanza, che però avevano il merito di parlare di problemi sociali e di ideologie rivoluzionarie.
Per alcuni intellettuali progressisti io non ci sono. Sono come il "cavaliere inesistente" di Calvino, una metafora che ho spesso avuto occasione di applicare a me stesso. C'è in tutto questo una logica ben precisa. Per i progressisti dogmatici non esiste che una cultura, la loro. Si considerano gli assoluti protagonisti della storia, coloro che aprono le strade dell'avvenire e del progresso. (Un progresso, in realtà, molto discutibile, da quando l'ecologia ha cominciato a dubitarne in forme sempre più radicali).
Più volte mi è capitato di apprendere dal telefono o da telegrammi di aver vinto un premio letterario, che poi non mi è stato assegnato perché esso, finanziato da qualche amministrazione rossa, non si voleva venisse dato a un conservatore come me; a un autore che aveva scritto un romanzo sulle foibe, sui cosacchi e su Porzs.
Radio e televisioni mi ignorano del tutto, o mi dedicano insignificanti, ridicole briciole di tempo. Una volta fui a lungo intervistato per il terzo programma. Naturalmente la registrazione non andò mai in onda. Sono dunque uno scrittore che non c'è. Ma, se per caso si è costretti ad ammettere la mia esistenza, allora divento l'escluso.
Una volta fui anche demonizzato da gran parte della stampa italiana. Fui intervistato da una giornalista progressista sulla visita che Haider stava compiendo nella mia regione. Sulle prime non volevo saperne, perché immaginavo l'uso che sarebbe stato fatto delle mie risposte. Dissi in sostanza che se Haider fosse diventato alleato del Partito Popolare Austriaco, non mi sarei scandalizzato. L'avvento di un governo di centrodestra a Vienna, dopo trentacinque anni di amministrazione socialdemocratica, mi sembrava un fatto più che normale.
Apriti cielo! In seguito a quell'intervista, in cui non mi si lasciava neppure finire le frasi, fui accusato di essere seminazista, razzista, antiebraico; di non credere all'Olocausto e al lager triestino della Risiera di San Sabba, e di altre amenità di questo tipo. Tutte cose inventate di sana pianta. In realtà io ho mostrato la mia simpatia per il popolo ebraico in almeno sette od otto dei miei romanzi.
Io sono un moderato, un uomo di buonsenso, un anticonformista un po' anarcoide. Questa è in estrema sintesi la storia del mio rapporto con gli integralisti di sinistra. Come potrei dunque non credere che il tanto celebrato incontro tra culture, ideologie e religioni diverse non sia per i progressisti dogmatici nient'altro che retorica, e lo schermo di una strategia politica a lungo termine?
Carlo Sgorlon