Paola Caridi
Lunedi' 20 Giugno 2005
El Aghelia, a noi italiani, dice poco. Nulla, diciamolo. È un nome dall’aura esotica. Arabo, vero? Eppure El Aghelia dovrebbe dire molto. Comparire nei manuali di storia contemporanea in uso nelle scuole. Visto che El Aghelia era un campo di concentramento, gestito dagli italiani che tentarono di colonizzare la Libia. Un buco nero nel quale è stata risucchiata la vita e la morte di migliaia di libici, raggruppati dai fascisti italiani e costretti a condizioni di vita inumane.
Di questo campo di punizione non si è saputo molto, almeno a Roma. Sino a che, un quarto di secolo fa, un giornalista del Messaggero, Eric Salerno, non scoperchiò il tappo. Su El Aghelia così come sui bombardamenti all’iprite della nostra aviazione sui libici, spesso inermi. Pubblicando un dossier che, allora, fece scandalo, più che scalpore. E che ora viene ripubblicato con l’introduzione delle scoperte storiografiche prodotte nel frattempo e con una riflessione sul nostro, persistente processo di rimozione collettiva, in Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale italiana (1911-1931) (ManifestoLibri editore 14 euro).
Ad aiutare allora Salerno, per ricostruire la storia dei gas proibiti dalle convenzioni internazionali, ci furono i documenti d’archivio. Ad aiutarlo, invece, sui campi di concentramento furono gli stessi protagonisti: le vittime.
Le loro testimonianze, raccolte da Salerno in un caso esemplare di storia orale, dicono quello che le fonti istituzionali hanno taciuto. Raccontano del dolore, della sofferenza, della morte, dell’ingiustizia. “Cosa ricordo di particolare?”, racconta per esempio Mohammed Bechir Seium, uno dei sopravvissuti incontrati da Salerno tra Sirte ed el Agheila. “Ricordo i morti. Ricordo la miseria e le botte. E per mangiare ricordo solo un pezzo di pane duro del peso di 150 o al massimo 200 grammi che doveva bastare per tutto il giorno”.
Le microstorie dei sopravissuti a El Agheila raccontano agli italiani, senza fronzoli e senza retorica, la sistematica violazione di tutti i diritti da parte dei fascisti italiani verso i civili libici. Lì, a El Agheila soprattutto. Ma anche negli altri campi di concentramento dove, secondo le stime più attendibili, furono rinchiuse circa 80mila persone. E ne uscirono, probabilmente, un quarto di meno. “Un calo di ventimila unità – spiega Salerno – dovuto presumibilmente a malattie, fame e qualche seduta di Tribunale militare speciale”. Il quale, quasi sempre, decretava la pena capitale per gli imputati.
Il libro di Salerno, allora e oggi, annulla di colpo – e senza sconti – lo stereotipo dell’”italiano brava gente”. Anzi, fa di più. Si chiede se non sia il caso, per definire quello che i colonizzatori italiani hanno compiuto in Libia, di usare un termine terribile quale genocidio. “Centomila libici morti, di fronte alle cifre dell’Olocausto degli ebrei – spiega l’autore -, del sistematico tentativo di eliminare un popolo intero, possono essere considerati ‘poca cosa’, ma se paragoniamo quella cifra alle dimensioni della popolazione libica di allora diventa più facile, per noi, renderci conto del peso che quei morti ebbero sulla società nordafricana”. Centomila morti su una popolazione che ammontava, forse, a 700mila, al massimo 800mila persone.
Di genocidio libico, in Italia, non si è mai parlato. Nonostante il libro di Salerno. Nonostante i libri finalmente prodotti dagli studiosi. Nonostante, soprattutto, l’azione instancabile di Angelo Del Boca, storico coraggioso, un uomo che per anni ha dovuto lottare da solo sia per avere accesso alla documentazione archivistica sia per difendere le sue tristi scoperte su tutto il nostro passato coloniale, dalla Libia al capitolo etiope.
Di riparazioni, da parte delle autorità politiche, ce ne sono state. A iniziare dall’allora premier Massimo D’Alema, sino a Silvio Berlusconi. Si può, certo, discutere sulla loro forza e sulla loro conseguenzialità. Come ha fatto Gheddafi in una intervista citata da Salerno, nella quale, parlando del ministro degli esteri Gianfranco Fini, disse: “Le informazioni che ho su di lui dicono che era un fascista. Ora è diventato antifascista, e questa è una cosa giusta. So che ha anche chiesto scusa agli ebrei, per quello che è stato fatto dai fascisti italiani agli ebrei. Se facesse la stessa cosa anche verso i libici, chiedendo scusa ai libici, in questo caso potrebbe essere elogiato”.
Quello che è totalmente mancato è stato (ed è ancora) un percorso sofferto di riflessione nazionale, sul tipo di quello affrontato dalla Francia sempre sulla propria storia coloniale in Nord Africa, non ha mai avuto luogo. Eppure, proprio da Alleanza Nazionale è arrivato, con più insistenza negli ultimi anni, l’invito a rivisitare i punti oscuri del nostro Novecento in maniera completa e – se possibile – fuori dall’alveo delle correnti storiografiche tradizionalmente preponderanti nell’accademia nostrana. Una richiesta che voleva concentrarsi sulla rivisitazione della storia italiana durante l’ultimo conflitto mondiale, e che ha trovato nella questione delle foibe il “caso”, l’evento-simbolo su cui accendere i riflettori. Della storiografia e della macchina da presa. Una richiesta che dovrebbe a buon titolo comprendere anche la Libia e l’intero passato coloniale.
Così non è e non è stato, perlomeno in maniera completa. Ed è molto probabile che il processo di quella che è una vera e propria rimozione negli strati più larghi della società italiana sia dovuto alla profonda contraddizione tra quello che è accaduto nelle colonie e lo stereotipo dell’”italiano brava gente”. Stride l’iprite lanciata dai bombardieri sulla gente inerme. Stridono i campi di punizione e di concentramento. Stridono le esecuzioni sommarie e le deportazioni con l’immagine che l’Italia si è costruita, soprattutto negli ultimi decenni del Novecento. E soprattutto attraverso l’ormai consistente esperienza nelle operazioni militari di peacekeeping in giro per il mondo
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