da l'Opinione di Diaconale
Quo vadis sinistra?
Per capire quello che sta accadendo nella sinistra italiana, dobbiamo tener conto del risiko bancario e delle scalate ai santuari editoriali ed economici. Ebbene, per avere un quadro più netto e chiaro, bisogna interpretare il duello che si è aperto tra i Ds e la Margherita. I due fronti si stanno scontrando e difficilmente potranno trovare una sintesi.
Naturalmente, lo scontro sta avvenendo sul terreno del puro potere, senza essere accompagnato da opportune analisi. In altri tempi, le forze politiche di governo e di opposizione non facevano altro che analizzare il capitalismo, poi prendevano le loro iniziative in un senso o nell’altro. Storicamente, le analisi più interessanti ed approfondite furono fatte alla fine degli anni ’50, quando si aprì il dibattito sul centrosinistra d’antan, quello, per intenderci, dell’incontro storico tra cattolici, Dc, socialisti, Psi. Un dibattito che si incentrava sul cambiamento di pelle del capitalismo, che passava dall’essere agrario a industriale.
L’opposizione comunista all’epoca contribuì a vivacizzare la discussione ma non fu in grado di trovare una sintesi politica, dato che dentro il Pci ci fu una profonda spaccatura tra due diverse chiavi di lettura del capitalismo.
La polemica fu tra Giorgio Amendola e Pietro Ingrao e lasciò aperte lancinanti ferite per decenni. La destra comunista di Amendola aveva una visione legata al modello classico della Terza internazionale, ossia di un capitalismo disertore rispetto ai propri compiti e al proprio ruolo storico.
Per il leader comunista, eravamp, invece, di fronte a un capitalismo “straccione” e a una “rivoluzione liberale incompiuta”. Per cui, il ruolo della classe operaia doveva essere quello di portare a compimento la gobettiana rivoluzione liberale che il capitalismo italiano, arroccato su posizioni parassitarie e reazionarie, aveva lasciato a metà strada.
Nel convegno dell’Istituto Gramsci, organizzato per analizzare il capitalismo italiano agli albori degli anni ’60, Amendola sostenne che rendita e profitto convivevano e bisognava allargare le alleanze per la modernizzazione.
Di opinione diametralmente opposta era Ingrao, leader della sinistra interna, che voleva una lotta che investisse i problemi della condizione operaia e dell’organizzazione del lavoro nell’industria. I conti bisognava farli con il capitalismo industriale e non con la tesi amendoliana che, a parer suo, era superata.
La principale preoccupazione comunista, in ultima analisi, era il pericolo di integrazione della classe operaia nel sistema capitalista. Il che era possibile anche perché il Psi andava verso la socialdemocratizzazione.
Il Psi di Nenni sarebbe stato portatore di un rinnovamento del capitalismo, se la rendita parassitaria agraria e urbana fosse stata sconfitta, attuando riforme di strutture. Ma la lotta socialista risultò perdente, come quella della sinistra Dc, quando il ministro fiorentino Sullo si dimise dal governo, osteggiato dalla grande maggioranza della Dc per aver formulato una legge urbanistica che combatteva le rendite.
Negli anni di Craxi e Berlinguer, il Psi aveva idee di segno opposto rispetto a quelle del Pci. Dopo il fallimento del governo di solidarietà nazionale, Berlinguer abbracciò il massimalismo che lo portò a dire che la Fiat doveva essere occupata e gestita dalla classe operaia. Il tandem Agnelli e Romiti reagì con la marcia dei 40mila. Successivamente, il leader comunista indisse un referendum contro il taglio della scala mobile del governo Craxi.
Craxi, nonostante la sua diffidenza nei confronti del capitalismo del “salotto buono”, dovette dialogare con i suoi esponenti, ma impose, da un lato, la privatizzazione di Mediobanca e il taglio di tre punti della scala mobile, dall’altro, dovette cedere alle pressioni della Confindustria e a quelle dei mass media per vendere Alfa Romeo alla Fiat e non alla Ford. In quell’occasione vinse l’italianità, perché quelli che oggi la considerano una cosa provinciale, ieri la vendevano come una grande novità.
Il leader socialista, sospettoso verso i capitalisti italiani, strinse una forte alleanza con il mondo economico emergente del made in Italy e delle attività produttive lontane dal capitalismo confindustriale. Inoltre, fece di tutto per rafforzare la posizione socialista all’interno delle Partecipazioni statali e degli enti pubblici, come antidoto al capitalismo delle grandi famiglie, che tendevano a socializzare le perdite e privatizzare i profitti.
Oggi D’Alema e Fassino marciano uniti per rafforzare la presenza dei Ds (usando sia Unipol-Legacoop, sia Mps), nell’ambito del sistema bancario.
Ridotta al lumicino l’industria, il vero campo di conquista restano le banche, avendole in mano si ha il potere reale. In quest’ottica, i Ds se ne infischiano di doversi alleare con il diavolo (la finanza d’assalto con annessi e connessi) per costruire una propria “casamatta” all’interno del capitalismo italiano.
Il fatto nuovo è che Fassino e D’Alema vogliono il potere bancario e finanziario perché il loro partito possa gestire senza mediazioni e senza deleghe. Per questo ritengono fondamentale l’acquisto della Bnl da parte dell’Unipol.
Per converso, Prodi e Rutelli difendono a spada tratta lo status quo del capitalismo, quello che Tronchetti Provera in modo retorico ha definito “istituzionale”. E che ha fatto il bello e il cattivo tempo, perché è responsabile del declino industriale.
In questo momento, sentendosi minacciato ha rilanciato la questione morale. Un modo come un altro per difendersi, che fu un’arma anche per Enrico Berlinguer. Solo che costui era un comunista tutto d’un pezzo, mentre quelli che la stanno ora denunziando sono ex Dc ed ex cavalli ruffiani di “capitani di sventura” morti e sepolti. Ironia della sorte, sono proprio questi che denunziano le commistioni tra politica ed economia, dimenticando di essere figli di quell’intreccio perverso. Così sventolano la questione morale sotto gli occhi stupiti degli eredi di Berlinguer.