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Risultati da 1 a 10 di 10
  1. #1
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    Predefinito STORIA - Genocidio armeno

    Israele sostiene il negazionismo turco

    In un' intervista pubblicata il 19 agosto nel quotidiano turco Hürriyet, l'ambasciatore di Israele in Turchia Pinhas Avivi dichiara che non vi sia nessun paragone possibile tra il preteso genocidio armeno ed il genocidio degli Ebrei. L'ambasciatore ha inoltre dichiarato la sua opposizione alla creazione di uno stato curdo.
    Israele in tutte le sue attività regionali agirà insieme alla Turchia e invita gli europei a riflettere a cosa succederebbe se la Turchia fosse rifiutata dall'Unione Europea. Si è inoltre felicitato dell'iniziativa della Turchia che ha creato un forum per uomini d'affari turchi, israeliani e palestinesi
    Ultima modifica di emv; 26-04-20 alle 13:33
    Pro aris rege!

  2. #2
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    Predefinito

    Quindi? Ho come il sentore che di qui a poco finirai, attraverso mistici ponti, per parlare del deicidio, buon Lupus.

  3. #3
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    Predefinito Re: Genocidio armeno

    Originally posted by Lupus
    Israele sostiene il negazionismo turco

    In un' intervista pubblicata il 19 agosto nel quotidiano turco Hürriyet, l'ambasciatore di Israele in Turchia Pinhas Avivi dichiara che non vi sia nessun paragone possibile tra il preteso genocidio armeno ed il genocidio degli Ebrei. L'ambasciatore ha inoltre dichiarato la sua opposizione alla creazione di uno stato curdo.
    Israele in tutte le sue attività regionali agirà insieme alla Turchia e invita gli europei a riflettere a cosa succederebbe se la Turchia fosse rifiutata dall'Unione Europea. Si è inoltre felicitato dell'iniziativa della Turchia che ha creato un forum per uomini d'affari turchi, israeliani e palestinesi
    L'ambasciatore israeliano non nega assolutamente l'esistenza del genocidio armeno. Si tratta piuttosto di un punto fermo della politica israeliana e del punto di vista ebreo in generale quello di sostenere l'unicità dell'olocausto ebraico che non può essere confrontato con tutte le altre tragedie del secolo scorso, lo sterminio armeno, quello dei Kulaki, quello cambogiano, quello della rivoluzione culturale ecc. ecc. Ovviamente si tratta di un punto di vista soggettivo e nessuno è obbligato ad adeguarvisi come ad un dogma di fede, è comunque importante tenere conto delle motivazioni anche pragmatiche che inducono gli ebrei a questa posizione. Altro punto da considerare è il particolare rapporto che lega Israele con la Turchia unico stato musulmano con cui intrattiene stretti rapporti industriali, strategici e militari. Chiaramente la diplomazia obbliga a camminare con attenzione come sul ghiaccio sottile e tutti sanno l'assoluta permalosità (eufemismo) che Ankara prova sul tema armeno

  4. #4
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    Predefinito Re: Genocidio armeno


    @Holuxar


    FINE. GAME OVER.




    IN PALESTINA È GENOCIDIO! ROSA E OLINDO LIBERI SUBITO!
    FUORI DALLA NATO! FUORI DALLA UE! BASTA ECOFOLLIE GREEN!


    “Sorgi, Dio, difendi la tua causa.”
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  5. #5
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    Predefinito Re: Genocidio armeno

    Il 24 Aprile si è celebrato il ricordo del genocidio dei cristiani armeni.
    Passato praticamente sotto il silenzio dei media.

    Ricordiamo il beato Ignazio Maloyan che fu martirizzato per la fede.

    Beato Ignazio (Choukrallah) Maloyan




    Beato Ignazio (Choukrallah) Maloyan Vescovo e martire

    11 giugno

    Mardine, Turchia, 19 aprile 1869 - Kara-Kenpru, Turchia, 11 giugno 1915

    Eroica la testimonianza del vescovo Ignazio Maloyan torturato e ucciso dai turchi all'inizio dell'olocausto armeno. Nato a Mardine, in Turchia, Maloyan, di etnia armena, si recherà in Egitto dove si conquisterà la fama di sacerdote esemplare. Il 22 ottobre del 1911, Maloyan viene eletto arcivescovo proprio della diocesi di Mardine. Quattro anni dopo, il 24 aprile del 1915, ha inizio l'operazione di sterminio contro gli armeni residenti in Turchia. E a giugno alcuni ufficiali turchi trascinano il vescovo davanti al tribunale insieme ad altre 27 persone della comunità. Il capo della polizia, Mamdouh Bey, gli propone una via d'uscita: convertirsi all'Islam. Ma monsignor Ignazio Maloyann rifiuta, procurandosi torture "esemplari".

    Martirologio Romano: Nel villaggio di Kara-Kenpru vicino a Diyarbakir in Turchia, beato Ignazio Maloyan, vescovo di Mardin degli Armeni e martire durante il genocidio dei cristiani perpetrato in questa regione dai persecutori della fede; essendosi rifiutato di abbracciare un’altra religione, consacrò in carcere il pane per il ristoro spirituale dei compagni di prigionia; fucilato poi insieme a molti altri cristiani, versando il suo sangue ottenne il premio della pace eterna.

    Cent’anni fa la Chiesa Armena in Turchia vive giorni drammatici e gloriosi: l’entrata in guerra della Turchia al fianco della Germania e dell’Austria contro Russia, Francia e Inghilterra, ha determinato l’arruolamento di tutti gli uomini validi. Solo gli Armeni si dimostrano renitenti e si danno alla macchia, e i nazionalisti islamici li accusano di connivenza con la Russia.
    Il vescovo Ignazio Maloyan non ama la politica, è contrario ad ogni commistione tra la fede cristiana e la politica degli insurrezionalisti e si è sempre comportato come un suddito fedele dell’Impero Ottomano, tanto che il Sultano gli ha perfino conferito due alte onorificenze. Di fatto, però, il governo è ormai scavalcato ed esautorato dalla polizia locale, capeggiata dagli integralisti islamici chiamati “Giovani Turchi”, che ha già deciso lo sterminio degli Armeni. Il giovane vescovo, lucido, razionale, lungimirante, è il primo ad accorgersi con largo anticipo della situazione che sta precipitando e dei pericoli che incombono sui cristiani. Perde il sonno, ma non lascia trasparire la sua preoccupazione; non vuole allarmare i suoi preti e i suoi cristiani, ma li prepara al peggio raccomandando: "Fortificate la vostra fede fondata sulla Roccia di Pietro".
    Il 30 aprile 1915 la polizia fa irruzione in vescovado: rovista, distrugge, sequestra documenti. Contro il vescovo si sta montando l’accusa di ricettazione di armi e si cerca materiale compromettente per poterlo incastrare. Il vescovo Ignazio rompe così gli indugi: indirizza al suo popolo un accorato appello a mantenere salda la fede in mezzo alla persecuzione e diffonde il suo testamento spirituale, che è una professione di fede nella chiesa di Roma e un atto di fedeltà al governo legalmente costituito. Lo arrestano il 3 giugno, festa del Corpus Domini, e in cella con lui finiscono 662 cristiani e una quindicina di preti.. La sua chiesa è sventrata, gli altari distrutti , le tombe dei vescovi aperte, ma non si trova nulla che possa giustificare la condanna a morte già decretata nei confronti del vescovo. Per tre volte a lui ed agli altri viene chiesto di rinnegare la fede e abbracciare l’Islam, con la promessa della libertà immediata, ma la risposta di Ignazio è ferma e coraggiosa: “Non vi resta che farmi a pezzi, ma io non rinnegherò mai la religione”.
    Nella notte del 9 giugno avviene in cella il commovente incontro con l’anziana madre, riceve l’assoluzione da un altro prete incarcerato con lui, e due giorni dopo è incolonnato insieme ad altri 1600 cristiani per essere avviato ai lavori forzati. Nessuno arriverà a destinazione, perché a piccoli gruppetti verranno uccisi tutti. Al vescovo Ignazio, dopo l’ennesima offerta di libertà in cambio della conversione all’Islam, sparano un colpo alla nuca, che poi cercheranno di mascherare come “embolia coronarica”: è l’11 giugno, festa del sacro Cuore, e lui ha appena 46 anni Il calvario degli Armeni continua e un mese dopo anche sua mamma e un fratello verranno massacrati per la fede.
    Giovannei Paolo II ha riconosciuto come autentico martirio la morte del vescovo Ignazio e lo ha solennemente beatificato il 7 ottobre 2001.

    Autore: Gianpiero Pettiti





    Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perchè grande è la vostra ricompensa nei cieli! (Matt. 5, 11-12). Quest'ultima beatitudine, proposta da Nostro Signore con una particolare insistenza, è sempre d'attualità, in ogni epoca della storia. Così Papa san Pio X poteva dire, nel 1911: «La Chiesa è una Chiesa perseguitata. In realtà, se la Chiesa non fosse vittima della persecuzione, cesserebbe d'essere la Chiesa di Gesù Cristo, e perderebbe una prova della sua autenticità». Tali parole rivolte ad un sinodo della Chiesa cattolica armena, tenutosi a Roma, si sono rivelate profetiche: qualche anno più tardi, la Chiesa armena subisce un vero genocidio. Fra le vittime, c'era Monsignor Ignazio Maloyan, presente al sinodo di cui sopra. Quando fu martirizzato, il vescovo dichiarò ai suoi persecutori: «Dio non voglia che io rinneghi Gesù, il mio Salvatore. Versare il mio sangue a favore della mia fede è il più vivo desiderio del mio cuore!»
    Shoukr Allah (o Chukrallah) Maloyan è nato, quarto di otto figli, nell'aprile del 1869 a Mardine, in Armenia, provincia del sud-est della Turchia. L'Armenia, evangelizzata dagli apostoli san Giuda e san Bartolomeo, diventò una nazione cristiana nel 305, quando san Gregorio l'Illuminatore, primo patriarca dell'Armenia, battezzò il re Tiridate. A partire dall'XI secolo, il paese cadde in mano ai Turchi; tuttavia, durante i successivi nove secoli il popolo resisté al fine di conservare la propria lingua e la religione cristiana. Gli Armeni sono divisi in due confessioni: «la Chiesa apostolica», che non ha nessun legame con la Santa Sede, e la Chiesa cattolica armena, cui appartiene la famiglia Maloyan. Nel XIX secolo, una rinascita della cultura armena si ispirò alla fede cristiana, e si manifestò in modo particolare nelle famiglie.
    Molto presto, il giovane Shoukr Allah presenta i segni di una vocazione religiosa. A quattordici anni, il parroco lo manda in un istituto per la formazione del clero di rito armeno, a Bzommar, nel Libano. Là, per cinque anni, si dedica allo studio delle lingue armena, turca, araba, francese ed italiana. Malgrado delle difficoltà dovute al suo stato di salute, difficoltà che lo obbligano a sospendere gli studi per tre anni, viene ordinato sacerdote il 6 agosto 1896, e sarà chiamato da allora Padre Ignazio.
    Inviato, nel 1897, in missione ad Alessandria, poi al Cairo, egli acquisisce la fama di sacerdote esemplare. All'epoca, scrive lui stesso: «Dalla sera alla mattina, visito gli ammalati, i poveri, i bisognosi. La sera, quando vado a letto, sono assolutamente esausto. Non c'è nessuno che si occupi di questi sventurati, visto che tutti seguono i propri interessi ed i propri profitti personali. Quanto a me, sono pieno di gioia, sapendo di compiere la volontà di Dio». La fama di Padre Ignazio quale predicatore di ritiri spirituali e conferenziere, fa sì che gli vengano spesso richieste prediche, tanto in arabo quanto in turco. Pieno di zelo per la causa dell'unità dei Cristiani, allaccia contatti con i Cristiani Copti d'Egitto, Chiesa separata da Roma, e si sforza di rispondere caritatevolmente alle loro domande relative alla Chiesa cattolica. Nei momenti di libertà, si applica allo studio della Sacra Scrittura e delle lingue. Il Patriarca degli Armeni cattolici, che risiede a Costantinopoli (Istanbul), avendo notato le sue qualità eccezionali, lo nomina segretario nel 1904. Tuttavia, motivi di salute lo obbligano, poco tempo dopo, a tornare in Egitto, dove rimarrà fino al 1910.

    In preda alle difficoltà

    Ma la diocesi di Mardine si trova in una situazione delicata; il vescovo locale, molto anziano, non è più in grado di far fronte ai gravi problemi che si manifestano: mancanza di sacerdoti formati convenientemente, situazione economica difficile. Egli si ritira, spossato, ed il Patriarca affida l'amministrazione della diocesi a Padre Ignazio. Accolto con entusiasmo nella sua città natale, si trova ben presto confrontato alle medesime difficoltà. «Sono sconsolato per questa diocesi, scrive. Vivere qui è una tortura; e tuttavia è proprio per questo che ci siamo fatti sacerdoti». Il 21 ottobre 1911, in occasione del sinodo dei vescovi armeni riuniti a Roma, Padre Ignazio viene eletto e consacrato arcivescovo di Mardine. Fin dal suo ritorno in patria, apre scuole in cui le tradizioni e la letteratura armena assumono il primo posto; egli esamina altresì tutte le difficoltà dei suoi fedeli; in particolare, si sforza di portar sollievo a coloro che sono perseguitati in ragione della loro fede in Cristo. Infatti, a partire dalla fine del XIX secolo, il sultano Abdul-Hamid cerca di soffocare la rinascita di una coscienza nazionale armena, che ritiene costituire una minaccia per l'unità dell'impero ottomano. Nel 1895, centinaia di chiese e conventi cristiani sono stati distrutti, e centinaia di migliaia di fedeli massacrati; altri, non meno numerosi, hanno lasciato la patria. Quando Monsignor Maloyan s'insedia a Mardine, la persecuzione non è ancora totalmente finita.
    Malgrado una salute fragile, il vescovo dimostra un grande coraggio. La sua prima preoccupazione è quella di aiutare i sacerdoti e di formare i seminaristi. È questa una preoccupazione che deve essere nel cuore di tutti i fedeli, ciascuno secondo il posto che occupa: «È più che mai urgente, soprattutto oggi, che si diffonda e si radichi la convinzione che sono tutti i membri della Chiesa, senza alcuna esclusione, che detengono la grazia e la responsabilità della preoccupazione delle vocazioni... Una responsabilità affatto speciale è affidata alla famiglia cristiana, che, in virtù del sacramento del matrimonio, partecipa in modo particolare alla missione educatrice della Chiesa maestra e madre» (Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 41).

    «Dio si cura di coloro che soffrono»

    Poco dopo la nomina ad arcivescovo, Monsignor Maloyan scrive, in un rapporto alla Santa Sede: «Il popolo è colpito da disastri: se non si tratta della siccità, si tratta delle cavallette; e l'avarizia del governo senza cuore è sempre presente». Chiede alle autorità civili, ma invano, l'autorizzazione di recarsi in Europa o in America, per ottenere fondi. Di fronte ad una tale situazione, chiede di esser rimosso dalla sua carica. «Ovunque la povertà. Il governo, senza posa, in modo insidioso, ci assilla, me ed il mio popolo. Nessuno ci compiange, nessuno prova a modificare questa situazione disperata. Che posso fare da solo, abbandonato da tutti?» Ma il Patriarca rifiuta le sue dimissioni. Tuttavia, Dio non lo abbandona; gli accorda la grazia di mantenersi fedelmente al suo posto, e gli fa sperimentare la verità delle parole dell'Apostolo san Paolo: Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perchè possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio (2 Cor. 1, 3-4). Monsignor Maloyan scrive al Superiore di Bzommar: «Sia forte, Padre. Sia certo che Dio le darà tutte le grazie di cui ha bisogno. Non abbia paura! Dio si cura di coloro che soffrono; vedrà che il suo paterno conforto sarà rassicurante in tutte le sue lotte. Pertanto, non badi all'ingratitudine e all'egoismo degli altri. Come lei ben sa, ho bevuto in quel calice amaro. Calice amaro che può esser molto dolce, soprattutto se lo mescoliamo con il calice di Cristo stesso».
    La sera del 3 agosto 1914, i partecipanti ad un ritiro spirituale sacerdotale nella chiesa dei Cappuccini di Mardine apprendono che la Turchia si è alleata con la Germania e l'Austria contro la Russia, la Francia e l'Inghilterra. Molti ignorano chi sia in guerra contro chi e perchè. In ottobre, il governatore turco dà l'ordine ai capi religiosi armeni di assicurare la preparazione dei pasti dei soldati. Monsignor Maloyan ed un altro vescovo, Monsignor Tappuni, accettano. Con il pretesto di ricercare i Cristiani disertori, la polizia comincia a sorvegliare le chiese, ad introdursi nelle case e nei conventi, maltrattando le donne e confiscando gli oggetti di valore. La persecuzione contro gli Armeni riprende vigore. Per dissimulare le sue vere intenzioni, il governo turco attribuisce l'Ordine Imperiale a Monsignor Maloyan. Ma questi non si illude. Infatti, il governatore di Diarbekir rivela il suo piano a certi militanti musulmani: «È giunta l'ora di liberare la Turchia dei suoi nemici dell'interno, voglio parlare dei Cristiani. Abbiamo la certezza che le nazioni europee non avranno nulla da eccepire e non ci imporranno sanzioni, visto che la Germania è dalla nostra parte; essa ci sosterrà e ci aiuterà». Inviati governativi diffondono la consegna: «Non risparmiate la vita di nessun Cristiano». Dai confratelli vescovi, Monsignor Maloyan apprende altre notizie inquietanti: le case dei Cristiani e le chiese vengono saccheggiate; la menzione «Cristiano» deve apparire sui documenti d'identità dei soldati; i crimini contro i Cristiani non sono puniti, ecc. Nel gennaio del 1915, tutti i poliziotti ed i soldati cristiani vengono disarmati; i Cristiani impiegati statali vengono licenziati; una milizia armata viene creata con il compito di arrestare i Cristiani e di ammazzarli; quanto alle donne, esse saranno vendute come schiave.

    «Il mio più ardente desiderio»

    Il 24 aprile 1915, il ministro turco degli interni, Talaat Bacha, annuncia l'eliminazione degli Armeni, con il pretesto di tradimento contro la Turchia. Il 30 aprile, soldati turchi accerchiano la chiesa armena e l'arcivescovado di Mardine, accusando la Chiesa di ricettare depositi d'armi. Non trovando nulla, si accaniscono a distruggere archivi e fascicoli. All'inizio di maggio, Monsignor Maloyan riunisce i sacerdoti e li mette al corrente delle minacce fomentate contro gli Armeni: «Vi incoraggio vivamente a fortificarvi nella fede, dice loro. Mettete ogni speranza nella Santa Croce fondata sulla roccia di san Pietro. Nostro Signore Gesù Cristo ha edificato la sua Chiesa su quella pietra e sul sangue dei martiri. Quanto a noi, poveri peccatori, che il nostro proprio sangue sia mescolato a quello dei puri e santi martiri... È nostro desiderio che mettiate la vostra speranza nello Spirito Santo... Sono sempre stato perfettamente fedele al capo della Chiesa di Dio, al santo Pontefice romano. Il mio più ardente desiderio è quello che il mio clero e il mio gregge seguano il mio esempio e rimangano sempre obbedienti alla Santa Sede... Ed ora, figli miei amatissimi, vi affido a Dio. Vi domando di pregare il Signore di darmi la forza e il coraggio di attraversare questo mondo perituro con la sua grazia e nel suo amore, e, se necessario, di versare il mio sangue per Lui». Con queste parole, il prelato manifesta la sua stima per il dono tanto prezioso della fede ed il suo desiderio di testimoniare in favore della stessa, fino in fondo. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci offre a questo proposito un insegnamento molto illuminante: «Credere in Gesù Cristo e in Colui che l'ha mandato per la nostra salvezza è necessario per essere salvati. Poichè senza la fede... è impossibile essere graditi a Dio (Eb. 11, 6) e condividere le condizioni di suoi figli, nessuno può essere mai giustificato senza di essa e nessuno conseguirà la vita eterna, se non persevererà in essa sino alla fine. La fede è un dono che Dio fa all'uomo gratuitamente. Noi possiamo perdere questo dono inestimabile. San Paolo, a questo proposito mette in guardia Timoteo: Combatti la buona battaglia con fede e buona coscienza, poichè alcuni che l'hanno ripudiata hanno fatto naufragio nella fede (1 Tim. 1, 18-19). Per vivere, crescere e perseverare nella fede sino alla fine, dobbiamo nutrirla con la Parola di Dio; dobbiamo chiedere al Signore di accrescerla; essa deve operare per mezzo della carità, essere sostenuta dalla speranza ed essere radicata nella fede della Chiesa» (CCC 161-162).
    Gli eventi si precipitano: il 15 maggio, parecchi Armeni vengono arrestati e imprigionati; il 26, una famiglia armena di Diarbekir viene massacrata. Quando gli si offre la possibilità di fuggire, Monsignor Maloyan dichiara: «Abbiamo abbracciato la vocazione di pastore del gregge, ovunque esso si trovi. Siamo determinati ad assolvere i nostri doveri verso Nostro Signore e verso il nostro gregge, anche sino alla morte». Il 3 giugno, festa del Corpus Domini, Monsignor Maloyan commenta, nell'omelia, le seguenti parole di Gesù: Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà (Matt. 16, 25). La sera di quello stesso giorno, viene arrestato e condotto in prigione assieme ad una cinquantina di membri della comunità. Nei giorni seguenti, vengono arrestate parecchie centinaia di Cristiani di riti diversi, con una quindicina di sacerdoti.

    «Non rinnegherò mai la mia fede!»

    Costretto a comparire davanti al tribunale, Monsignor Maloyan, in piedi, viene assillato con domande relative alle armi che avrebbe nascosto; risponde che si tratta di un'invenzione pura e semplice. Accusato di cospirare contro il governo, replica: «La vostra accusa è pura invenzione. Non mi sono mai opposto al governo. Al contrario, ho difeso i suoi diritti tanto in privato quanto in pubblico, e faccio del mio meglio per salvaguardare i suoi interessi, perchè sono un suo cittadino ed ho ricevuto un'onorificenza imperiale ed un titolo turco». Allora, il commissario di polizia, rimboccandosi le maniche, colpisce il vescovo con la sua cintura. Alle proteste di quest'ultimo, risponde: «Oggi, la spada sostituisce il governo». Invitato a farsi Musulmano, il vescovo fa una mirabile professione di fede: «Dovrete picchiarmi, lacerarmi con coltelli, con spade, con fucili, tagliarmi a pezzettini, perchè non rinnegherò mai la mia fede. Questa è la mia risposta definitiva». Dopo esser stato picchiato, il confessore della fede sospira: «Il corpo soffre il dolore dei colpi, ma l'anima è piena di gioia». Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci insegna: «Devono tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della Croce attraverso le persecuzioni che non mancano mai alla Chiesa. Il servizio e la testimonianza della fede sono indispensabili per la Salvezza: Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli (Matt. 10, 32-33)» (CCC 1816).
    Sul far della notte, al vescovo vengono legati i piedi ed egli è colpito a bastonate. Esclama: «Che colui che mi sente, mi dia l'ultima assoluzione!» Un sacerdote, anch'egli prigioniero, pronuncia allora le parole del perdono. Poi, vengono strappate al coraggioso vescovo le unghie dei piedi e gli si sputa in faccia. Riportato nella sua cella, passa il tempo a pregare, con le braccia e gli occhi alzati al cielo: «Dio mio, Tu hai permesso tutto ciò. Tutto dipende da Te. Fa' conoscere la Tua potenza, poichè ne abbiamo bisogno. Aiutaci in questi tempi tanto difficili, perchè noi siamo deboli e manchiamo di coraggio. Facci la grazia di continuare ad essere testimoni della nostra religione e di perseverare nella lotta per i suoi diritti».

    «Pongo la mia gloria nella Croce»

    Nei primi giorni di giugno, circa 1600 Cristiani di Mardine vengono deportati. Costretti a camminare gli uni legati agli altri con delle corde, con le braccia strette da catene, i Cristiani giungono a un villaggio curdo, situato a sei ore di marcia da Mardine. Viene allora letto loro il decreto imperiale che li condanna a morte per tradimento. Tuttavia, quelli che si faranno Musulmani, potranno tornare sani e salvi nel loro paese. A nome di tutti, Monsignor Maloyan risponde: «Siamo nelle vostre mani, ma moriremo per Gesù Cristo», poi incoraggia tutti i Cristiani a confessarsi ai sacerdoti che fanno parte del gruppo e fa distribuire loro la santa Comunione. I testimoni narrano che durante questo lasso di tempo, una nuvola luminosa copriva i prigionieri. Poi, certi vengono condotti in località Grotte di Sheikhan, altri a Kalaa Zarzawan. Essi vengono lì massacrati selvaggiamente, ed i loro corpi vengono gettati nei pozzi. Sappiamo questi fatti grazie alla testimonianza di Musulmani che, nella loro rettitudine, non hanno approvato il massacro. Il giorno seguente, gli altri Cristiani, dopo esser stati spogliati dei vestiti, sono costretti a camminare a digiuno e a piedi nudi sulle pietre delle strade e sulle spine dei campi. L'11 giugno, festa del Sacro Cuore di Gesù, essi vengono uccisi a quattro ore di marcia da Diarbekir. A Monsignor Maloyan viene riservata un'altra sofferenza: dopo aver visto morire le sue pecorelle, morirà solo. Il commissario di polizia gli chiede un'ultima volta dove nasconda le armi e se rifiuti di dichiararsi Musulmano. Il vescovo risponde: «Mi sorprende sentirla ripetere la domanda. Le ho già detto parecchie volte che vivo e muoio per la mia fede, la vera fede, e che pongo la mia gloria soltanto nella Croce del mio dolce Salvatore». Allora il comissario gli spara un colpo al collo. Monsignor Maloyan mormora le seguenti ultime parole: «Dio mio, abbi pietà di me. Nelle tue mani, consegno il mio spirito».

    «Cerco Lui!»

    «La Chiesa avanza nel suo pellegrinaggio attraverso le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio», scriveva sant'Agostino nella Città di Dio. Se la fede può esser messa alla prova da un mondo che si rivela troppo spesso nemico di Dio, noi abbiamo la consolazione di sapere che camminiamo seguendo il Salvatore: Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo. Poichè invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia (Giov. 15, 18-19). I martiri che hanno imitato Gesù fino alla morte ce lo ricordano. «Nulla mi gioverebbe tutto il mondo e tutti i regni di quaggiù, scriveva sant'Ignazio d'Antiochia. Per me è meglio morire per unirmi a Gesù Cristo, che essere re sino ai confini della terra. Io cerco Colui che morì per noi; io voglio Colui che per noi risuscitò».
    La popolazione cristiana dell'Armenia turca è stata in gran parte massacrata nel corso di questa persecuzione del 1915, che ha fatto, secondo gli storici, fra un milione e un milione e mezzo di vittime. Tuttavia, numerosi fedeli della Chiesa cattolica armena vivono oggi nella Repubblica armena e in varie parti del mondo. Nel corso del XX secolo, sono stati eretti vicariati patriarcali per gli Armeni a Gerusalemme, a Damasco e in Grecia, ed anche tre esarcati, nell'America del Nord, nell'America latina e in Francia. Ancora una volta, il sangue dei martiri è diventato seme di Cristiani.
    Il 7 ottobre 2001, il santo vescovo è stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II, che così lo elogiava: «Monsignor Ignazio Maloyan, morto martire a 46 anni, ci ricorda la lotta spirituale di ogni Cristiano, la cui fede è esposta agli assalti del male. Egli attingeva all'Eucaristia, un giorno dopo l'altro, la forza necessaria per compiere con generosità e passione il suo ministero di sacerdote». Illuminati dall'esempio del beato, richiamiamo alla memoria le raccomandazioni del Papa all'inizio dell'anno dell'Eucaristia, il 7 ottobre 2004: «Bisogna che la Messa sia situata al centro della vita cristiana... La presenza di Gesù nel tabernacolo deve costituire come un polo di attrazione per un sempre più gran numero di anime piene d'amore per Lui e capaci di rimanere a lungo ad ascoltare la sua voce ed a sentire quasi i battiti del suo cuore, Gustate e vedete quanto è buono il Signore (Sal. 33, 9)... Rimaniamo prosternati a lungo davanti a Gesù presente nell'Eucaristia, riparando così con la fede e l'amore, le negligenze, le dimenticanze e addirittura le offese che il Salvatore deve subire in molte parti del mondo. Che ci sia dato di approfondire nell'adorazione la contemplazione personale e comunitaria» (Mane nobiscum, Domine, 17-18).


    Autore: Dom Antoine Marie osb


    Fonte:
    Lettera mensile dell'abbazia Saint-Joseph, F. 21150 Flavigny- Francia - www.clairval.com
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    Predefinito Re: Genocidio armeno

    24 Aprile. Il genocidio armeno: una delle tragedie più dimenticate della storia europea e mondiale.
    venerdì 24 aprile 2020


    Autore:
    Restelli, Silvio
    Curatore:
    Mangiarotti, Don Gabriele
    Fonte:
    CulturaCattolica.it

    Oggi 24 Aprile (709 - San Vilfrido di York; 1658 - Francesco Maria Richini; 1914 - Benedetto (al secolo Angelo Ercole) Menni; 1996 - Vincenzo Torriani ; 1997 - Felice Ippolito) ricordiamo nel 1915 a Istanbul, la data simbolo dell'inizio del Genocidio Armeno ad opera dei turchi.

    Uttilizziamo l'articolo di Vittorio Messori, Europa senza Armeni, in: "Jesus" - Anno XXIV - Dicembre 2002 - n. 10

    "….Strana organizzazione davvero, questa Unione europea che discute seriamente sulla richiesta della Turchia di entrare a farne parte e che, pure, nel 1999, ha riconosciuto ufficialmente come "genocidio" la soppressione, tra il 1915 e il 1917, di almeno un milione e mezzo di cristiani armeni proprio per mano dei Turchi. Mentre altre centinaia di migliaia erano stati massacrati negli anni precedenti. Il riconoscimento di quella spaventosa tragedia da parte dell’Europa, e di alcuni Stati nazionali, è stato tardivo ed è contestato aspramente dai governi ottomani che si sono succeduti sino ad oggi.
    Gli Stati Uniti non vogliono tuttora sentire parlare di "genocidio armeno" (il presidente Clinton stesso è intervenuto per bloccare un’iniziativa del Senato) perché contano sulla Turchia come alleato fedele nel Medio Oriente. Ma anche perché, negli Usa, è intervenuta la potente lobby ebraica che difende aspramente il monopolio della parola "genocidio" che, si sostiene, deve essere riservata solo alla persecuzione nazista degli ebrei. La Shoah, come la chiamano, deve essere considerata unica, tutte le altre persecuzioni non hanno lo stesso significato incommensurabile e la stessa intensità di patimento. [....]

    Basti pensare che nel gigantesco Holocaust Memorial di Washington, finanziato e gestito dal Governo Federale, si è praticamente eliminato ogni riferimento agli armeni, così come agli zingari che pure, con oltre mezzo milione di vittime per mano nazista, ebbero in proporzione perdite più alte degli israeliti. ...
    In un recente, informatissimo e pacato studio della Civiltà Cattolica proprio sulle resistenze che trova ancora oggi lo sforzo per non perdere la memoria della terribile strage perpetrata dai Turchi, ci si dice «molto colpiti» perché il ministro israeliano Shimon Peres, in una visita ad Ankara, «ha definito "senza senso" le richieste degli armeni, che pretendono l’uso dei termini olocausto e genocidio anche per il loro milione e mezzo di morti su una popolazione totale, presente allora in Turchia, di due milioni e centomila persone».
    Peres, in un’intervista, ha ribadito:
    «Quella del popolo armeno è stata una tragedia non un genocidio». Non si dimentichi che, almeno sino a ora (ma le recentissime elezioni, con la vittoria del partito islamico, mandano messaggi inquietanti) la Turchia è stata per Israele il solo alleato nel mondo musulmano e il fornitore di molto di ciò che serve a mantenere il suo agguerritissimo esercito.
    In realtà, poiché, secondo la stessa definizione delle Nazioni Unite, «genocidio è lo sterminio di un gruppo nazionale, etnico o religioso», poche volte il termine è adeguato come nel caso dell’Armenia. Lo riconobbe anche Giovanni Paolo II nella sua visita, alla fine del 2001, dove non esitò a parlare di un popolo martire per la sua fede.
    L’obiettivo cui si mirò (raggiungendolo: non ci sono più armeni nelle province turche dov’erano o maggioranza o minoranza particolarmente numerosa) fu la soppressione totale, con una strage di massa che cancellasse sino il ricordo della più che bimillenaria presenza armena in quel territorio che divenne dei Turchi ottomani, arrivati come intrusi e invasori, soltanto a partire dal XIV secolo.
    Quello che i Turchi si proposero prima durante la Grande Guerra fu proprio, ed esplicitamente, una "soluzione finale".
    Per un credente, il popolo armeno non è uno come tanti altri: qui nacque - nel 301, dunque ancor prima delle leggi di tolleranza costantiniane - il primo regno cristiano della storia. Qui, in terre tormentate e di confine (scosse, tra l’altro da continui terremoti) questa gente seppe restare fedele sotto le aggressioni e le dominazioni brutali di innumerevoli altre culture e religioni.
    In particolare, continuò paziente a persistere nella sua fede, a stringersi nella sua Chiesa (che per molti armeni fu quella cattolica) anche nei secoli in cui al Turchi ottomani dovette pagare il pesante tributo di dhimmi, sottomessi, e accettare l’inferiorità e le umiliazioni consuete per tutti i battezzati sotto il giogo islamico. Dai Sultani d’Istanbul ottenne addirittura il titolo di "comunità più fedele": in effetti, pur di essere lasciata in pace a vivere da cristiana, dava a quel Cesare con turbante quel che pretendeva, senza troppo lagnarsi e senza cercare di ribellarsi.
    Il "Grande Male" (come gli armeni chiamano il loro Olocausto) cominciò con la crisi dell’Impero ottomano e il sorgere, per compensazione, del nazionalismo turco, cui da parte cristiana si cercò di reagire. Alcuni partiti, di ispirazione socialista e condannati dalla Chiesa, ricorsero anche al terrorismo. Così, tra 1894 e 1896, una serie di massacri ordinati da Istanbul portò a una prima strage di 300 mila armeni e a migliaia di conversioni forzate all’Islam.
    Ma il genocidio vero e proprio sarà consumato dai "Giovani Turchi", il partito nazionalista e razzista che intendeva procedere a una vera e propria "pulizia etnica".
    Nel 1909, si fece un’atroce "prova generale", con lo sterminio di 30 mila armeni della Cilicia, sotto l’occhio indifferente delle Potenze sedicenti cristiane, impegnate in un gioco politico tra Turchia e Russia.
    Come già in precedenza, la Chiesa cattolica fu la sola a levare la voce per denunciare e per protestare, con documenti, passi diplomatici e articoli ufficiosi sulla Civiltà Cattolica. Allo scoppio della guerra. nel 1914, la Turchia, alleata di Tedeschi e Austro-Ungarici, subisce una disfatta sul fronte caucasico, dove gli armeni sono da sempre a casa loro, in assoluta maggioranza.
    L’occasione è propizia per liberarsi finalmente del problema. Mentre i soldati armeni nell’esercito ottomano sono tutti disarmati, usati come bestie da soma sino a esaurimento delle forze e poi fucilati, per il milione e duecentomila di altri armeni sul Caucaso giunge da Istanbul l’ordine di deportazione nel remoto deserto asiatico. Ne seguono eventi spaventosi: chi non è ucciso dalle baionette, dalla fatica o dalle percosse, troverà la morte per fame, sete, prostrazione giunto al "punto d’arrivo", dove in realtà non c’è nulla se non la sabbia.
    Alla fine della guerra, non ci sono più armeni sul Caucaso: lo sterminio, lì, è terminato, con più di un milione di morti, i pochi superstiti sono fuggiti verso la Russia o sono andati a ingrossare la già cospicua diaspora. Ne restano però, nelle zone occidentali della penisola anatolica: ad essi provvederà Kemal, l’eroe nazionale, detto Ataturk, cioè "Padre dei turchi", con nuove stragi e con la cancellazione della sentenza dell’immediato dopoguerra, con cui lo Stato ottomano, riconoscendo la terribile strage, aveva condannato a morte i politici che ne erano stati responsabili.
    Da allora, parlare di "genocidio armeno" è ufficialmente vietato in Turchia: una negazione contro ogni evidenza che, come abbiamo visto, conta ancora su potenti appoggi anche all’estero. Intanto, gli Eurocrati …..."

    https://www.culturacattolica.it/cult...pea-e-mondiale
    IN PALESTINA È GENOCIDIO! ROSA E OLINDO LIBERI SUBITO!
    FUORI DALLA NATO! FUORI DALLA UE! BASTA ECOFOLLIE GREEN!


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  7. #7
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    Predefinito Re: STORIA - Genocidio armeno

    "L'odio per la propria Nazione è l'internazionalismo degli imbecilli"- Lenin
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    Predefinito Re: STORIA - Genocidio armeno

    Santi Martiri del Genocidio Armeno

    24 aprile (Chiese Orientali)


    Cent’anni orsono si consumava uno dei più sanguinosi eccidi dei tempi moderni che costò la vita ad un milione e mezzo di cristiani armeni. Domenica 12 aprile Papa Francesco, durante la Messa presieduta in Vaticano non ha esitato a riconoscere questo tragico evento quale un vero e proprio genocidio, checché ne dicano coloro che ancora oggi si ostinano a non riconoscerlo come tale. Il 23 aprile la Chiesa Apostolica Armena ha canonizzato in massa questo milione e mezzo di uomini, donne e bambini morti a causa della loro appartenenza etnica e religiosa. Il giorno successivo, 24 aprile, a partire da quest’anno diviene così la “giornata della memoria” di queste vittime, come ha annunciato il patriarca armeno Karekin II nell’enciclica con cui ha aperto ufficialmente le celebrazioni del centenario del genocidio. Celebrazioni che si estenderanno per tutto l'anno, ha sottolineato, specificando che “ogni giorno del 2015 sarà un giorno di ricordo e di devozione al nostro popolo, un viaggio spirituale al memoriale dei nostri martiri. Nel 1915 e negli anni successivi un milione e mezzo di nostri figli e figlie ha subito la morte, la fame, la malattia; è stato deportato e costretto a camminare fino alla morte. Secoli di creatività e di obiettivi raggiunti sono stati distrutti in un istante. Migliaia di chiese e monasteri sono stati profanati e distrutti, le istituzioni nazionali e le scuole rase al suolo e demolite. I nostri tesori spirituali e culturali sono stati sradicati e cancellati”. In seguito, con il coraggio della fede e il genio che lo caratterizza, questo popolo ha potuto “risuscitare dalla morte” e tornare a brillare, come spiega il patriarca. “Riponendo la nostra speranza in Te, o Signore, il nostro popolo è stato illuminato e rafforzato. La tua luce ha acceso l'ingegno del nostro spirito. La tua forza ci ha orientati alle nostre vittorie. Abbiamo creato quando altri avevano distrutto le nostre creazioni. Abbiamo continuato a vivere quando altri ci volevano morti”. Il centenario permette di celebrare anche questa risurrezione. Anche la Chiesa Cattolica Armena ha già avviato le pratiche per la beatificazione di 43 suoi figli vittime del genocidio.


    La persecuzione scatenata, tra il 1915 e il 1918, dai turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto dell’Impero Ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca moderna di sistematica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Una campagna di eliminazione che non scaturì soltanto dell’ideologia, scopertamente razzista, del sedicente Partito “modernista e progressista” dei Giovani Turchi, ma trasse le sue origini più profonde anche dall’innata, anche se inconfessabile, insofferenza che i mussulmani ottomani e curdi di Anatolia hanno sempre manifestato nei confronti di una minoranza cristiana, quella armena, portatrice di valori religiosi e culturali semplicemente diversi.
    Ma andiamo per ordine e cerchiamo di capire le motivazioni e la genesi di uno dei più orribili e meno pubblicizzati fenomeni di intolleranza etnico-religiosa del XX secolo. Lo sterminio degli armeni, verificatosi tra il 1915 e il 1918, in realtà non rappresenta che il completamento di una lunghissima campagna di persecuzioni e di discriminazioni che ebbe inizio a partire dalla seconda metà dell’Ottocento all’interno dei confini del decadente Impero Ottomano. Tra il 1894 e il 1896 ‘Abd ul-Hamid, l’ultimo sovrano, o meglio despota, della Sacra Porta, diede il via ad un programma di sterminio che, sotto molti aspetti è possibile paragonare a quello nazista nei confronti del popolo ebraico (1). Fu proprio in questo periodo, infatti, che il governo turco iniziò ad applicare nei confronti degli armeni - già discriminati in molti settori della vita civile ma ancora in grado di sopravvivere più o meno decorosamente - una serie di leggi volte non soltanto a perfezionare l’isolamento civile della minoranza, ma a decretarne e a renderne possibile, in buona sostanza, lo sterminio legale: una manovra che in buona misura venne attuata anche per scaricare sugli armeni - popolo, o meglio nazione, tradizionalmente molto attiva e mediamente colta - la responsabilità dei fallimenti di una politica di governo, quella dei sultani, assolutamente deficitaria ed arretrata. La persecuzione contro gli armeni, infatti, va anche vista come il risultato di quei complessi e traumatici processi storici che tra la seconda metà del XIX secolo e i primi tredici anni del XX determinarono lo sgretolamento dell’Impero Ottomano.

    Dopo avere dovuto rinunciare (in seguito alla guerra con l’Italia del 1911/12 e alla Prima Guerra Balcanica del 1913) a gran parte dei suoi possedimenti (Libia, Albania, Macedonia e parte delle isole dell’Egeo), il governo di Costantinopoli, entrò in una fase di crisi molto acuta. Temendo la completa dissoluzione dell’Impero, prima la Sacra Porta e poi il Partito dei Giovani Turchi, iniziarono ad assumere un atteggiamento sempre più sospettoso nei confronti delle minoranze (come quella greca, bulgara, ebraica, beduina e armena), colpevoli - scendo i vertici di Costantinopoli - di tramare nei confronti dell’Impero, minandone le fondamenta. E complice quest’ottica distorta ed inesatta, fu proprio la minoranza armena quella a destare le maggiori attenzioni. Ma la ragione di tanta diffidenza da parte dei turchi nel confronti degli armeni scaturiva anche da precise considerazioni e timori di carattere politico internazionale. La Sacra Porta, infatti, vedeva in questa minoranza, che in gran parte abitava l’area anatolica nord orientale, una possibile se non sicura alleata dell’Impero Russo cristiano ortodosso, il più feroce e tradizionale nemico della Sacra Porta. Un Impero che, fino dai tempi di Pietro il Grande (1682-1725) e di Nicola I (1825-55), aveva sempre cercato di sottrarre alla Turchia le regioni confinanti del Caucaso, guadagnandosi la simpatia delle comunità armene ormai stanche di sottostare al dispotico dominio ottomano. Diverse furono le guerre che, tra il XVIII e il XIX secolo, contrapposero i turchi ai russi. Nel 1876, le forze zariste, che erano intervenute a sostegno della Bulgaria, costrinsero Costantinopoli ad una resa umiliante, imponendo alla Sacra Porta il Trattato di Santo Stefano. Un documento, quest’ultimo, che sancì tra l’altro la cessione alla Russia di alcune aree dell’Anatolia nord settentrionale, abitate da armeni.. Tuttavia, il Trattato, non divenne mai del tutto operativo, anche a causa delle pressioni esercitate dal Primo Ministro inglese Benjamin Disraeli, da sempre ostile ad una eccessiva espansione politica e militare russa, soprattutto sui Balcani. E in seguito all’intromissione di altre potenze occidentali (come la Francia e la Prussia) avverse anch’esse alla Russia, il documento venne così parzialmente modificato, con l’eliminazione della clausola relativa alla tutela della minoranza armena. In buona sostanza, nessuna potenza occidentale volle spendere una parola in favore della popolazione cristiana, preferendo orientarsi verso una real politik. Anche se, pochi anni dopo, nel 1878, l’articolo 61 del successivo Trattato di Berlino del 1878, sancì, almeno sulla carta, il diritto alla sopravvivenza di questa sfortunata comunità. Il sostanziale disimpegno delle nazioni europee permise al dispotico Sultano Abdul Hamid di sopprimere la fragile Costituzione concessa nel 1876, abolendo tutte le libertà più elementari, istituendo nuove, severe leggi contro le minoranze religiose del Paese e costituendo nel contempo un’efficientissima polizia segreta incaricata di schiacciare il neonato Movimento Indipendentista Armeno. Non contento, il Sultano incoraggiò inoltre le tribù curde mussulmane ad emigrare verso le tradizionali zone rurali armene della Turchia orientale, aizzandole contro i cristiani. Forti dell’appoggio della Polizia Segreta e dell’Esercito Ottomano, i curdi iniziarono così ad insediarsi in territorio armeno, scacciando con la forza la locale popolazione. Costretti alla fuga, gli armeni furono quindi obbligati a trasferirsi sempre più a nord est in direzione delle regioni caucasiche russe: una manovra che la Sacra Porta, con notevole malafede, volle interpretare come un atto di slealtà nei suoi confronti e di connivenza con il nemico zarista. Fu a quel punto che il Movimento Indipendentista Armeno iniziò a frantumarsi in diversi gruppi politici e società segrete, tra cui l’Armenakan (fondato nel 1885), il partito socialdemocratico Hunchak (1887) e il più radicale “movimento” Dashnak (1890), con lo scopo di combattere i turchi. Ma la risposta del Sultano non si fece attendere. Il despota di Costantinopoli organizzò i membri delle tribù curde nei cosiddetti reggimenti di cavalleria Hamidye: autentiche bande armate di predoni autorizzate dal governo a perseguitare e a massacrare gli armeni dell’Anatolia Orientale.
    Ma se gli armeni rimasti incapsulati in territorio ottomano se la passavano male, occorre dire che anche quelli che erano riusciti a rifugiarsi nelle zone russo caucasiche non poterono certo considerarsi in salvo. Nel 1881, in seguito all’assassinio dello zar Alessandro II, il primo ministro liberale di origine armena Loris Melikov, dovette rassegnare le dimissioni, in quanto ritenuto incapace di governare il sempre crescente malcontento dei nazionalisti georgiani e armeni del Caucaso. Dopo l’uscita di Melikov, i successivi governi di San Pietroburgo iniziarono quindi a manifestare una certa diffidenza se non ostilità nei confronti degli armeni, sia quelli residenti in Turchia che quelli stanziati in territorio zarista (2). Nel 1903, lo zar Nicola II tentò perfino di confiscare le proprietà della Chiesa Nazionale Armena, ordinando la chiusura delle scuole e delle altre istituzioni della Transcaucasia russa. Questo drastico cambiamento di rotta russo, consentì al Sultano Abd ul-Hamid di alzare il tiro contro l’odiata minoranza, prendendo a presteso, tra l’altro, alcuni gravi ed insensati attentati compiuti, tra il 1890 e il 1894, dalle frange estremiste del Movimento Indipendentista Armeno. La situazione stava precipitando. Nel 1894, un affiliato del Hunchak, un certo Murat, convinse le popolazioni di montagna armene del distretto di Sassun a non pagare ai capi curdi locali l’odioso “hafir”, o contributo per la protezione. L’“hafir” era in realtà una forma di estorsione regolarizzata dal governo turco a tutto beneficio dei curdi che in questo modo potevano arricchirsi alle spalle dei contadini e dei montanari armeni.

    L’11 marzo 1895, Gran Bretagna, Francia e Russia, scandalizzate dall’inasprirsi delle misure anti-armene, cambiarono improvvisamente atteggiamento, intimando al Sultano di concedere alla minoranza cristiana una forma di seppur limitata autonomia. La richiesta venne respinta da Hamid che per contro intensificò la sua politica repressiva, giungendo a compiere vere e proprie stragi di armeni, anche nelle principali città dell’Impero. Secondo precise testimonianze dell’epoca, riportate da diplomatici italiani, francesi, inglesi e americani, in più di un’occasione, le truppe turche e curde saccheggiarono villaggi, rubarono bestiame, violentarono donne e bambini, costringendo non di rado i prelati armeni a riunirsi nelle loro chiese alle quali appiccarono fuoco dopo averne inchiodato le porte. Tra il 1894 e il 1896, le forze ottomane e curde eliminarono nei modi più barbari dai 200 ai 250.000 armeni. Questa ondata di violenza raggiunse livelli tali da indurre l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti, ad invocare la destituzione del Sultano. Dal canto suo, sia lo zar che il kaiser Guglielmo II, che nel 1889 aveva già effettuato una visita di stato nella capitale del Bosforo, decisero invece di mantenere un atteggiamento neutrale nei confronti del Sultano. L’atteggiamento del kaiser scaturiva da ben precise considerazioni di carattere politico ed economico. Guglielmo II era infatti desideroso di portare a termine la costruzione della linea ferroviaria Berlino-Baghdad: un’arteria che, una volta ultimata, avrebbe consentito alla Germania di intensificare i suoi scambi commerciali con la Turchia e, soprattutto, di consentire all’Impero tedesco di allargare la sua sfera di influenza verso il Medio Oriente, la Mesopotamia e il Golfo Persico.

    L’ultimo decennio del regno di Abd ul-Hamid fu caratterizzato da una situazione politica, economica e sociale interna molto incerta densa di difficoltà, destinata a sfociare in gravi sommosse. Verso la fine dell’800, in alcuni circoli di Salonicco, un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito, i Liberi Massoni, assieme ad alcuni esiliati politici turchi confluiti nella società segreta di Unione e Progresso, iniziarono a tramare contro il vecchio potere centrale assolutista. In seguito, il cosiddetto Movimento dei Giovani Turchi andò però ben oltre, auspicando l’eliminazione del sultano e avviando un ambizioso, rapido e radicale processo di modernizzazione socio-politica, economica e culturale dell’Impero. La rivolta, capeggiata da un gruppo di giovani ufficiali favorevoli ad una sorta di “occidentalizzazione” dell’Impero, scoppiò nel 1908, a Monastir. Il 23 luglio dello stesso anno, il Comitato Centrale di Unione e Progresso intimò al Sultano di ripristinare immediatamente la Costituzione del 1876 (da lui soppressa nel 1878), intimando di marciare con l’esercito su Costantinopoli. Il Sultano questa volta cedette e la Costituzione venne ripristinata ufficialmente il 24 luglio 1908. Seguì un breve periodo di euforia con grandi festeggiamenti a Costantinopoli, Damasco, Baghdad e nelle città e regioni popolate dalle minoranze etniche e religiose armene, ebraiche, slave e arabe che vedevano nella rivolta militare contro il Sultano l’inizio di un nuovo periodo caratterizzato da maggiori libertà. Effettivamente, in un primo tempo, i giovani ufficiali turchi proclamarono che mussulmani, cristiani ed ebrei non sarebbero più stati divisi e avrebbero contribuito, tutti insieme e su uno stato di completa parità, alla gloriosa rinascita economica e sociale della nazione ottomana.

    Nel 1909, dopo un fallito tentativo controrivoluzionario condotto dai sostenitori del regime assolutista di Hamid, gli ufficiali “modernisti” guidati da Taalat Pascià deposero definitivamente Hamid, costringendolo a lasciare il posto a suo fratello Muhammad (Mehemet) V. (3) E quest’ultimo, non volendo seccature, accettò di buon grado le direttive degli ufficiali rivoluzionari che, nel frattempo, avevano però cominciato ad elaborare programmi a forte contenuto nazionalista e razzista, rimangiandosi tutte le promesse di libertà (subito dopo la caduta di Hamid, i Giovani Turchi avevano dato vita ad un regime parlamentare, concedendo ad elementi cristiani, ebrei e arabi di entrare nella pubblica amministrazione e di prestare servizio nell’Esercito). Tuttavia, dopo la sconfitta subita ad opera dell’Italia nel 1912 e i rovesci subiti nell’ambito della Prima Guerra Balcanica, il 26 gennaio 1913 si verificò a Costantinopoli un nuovo colpo di stato. Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal presero con la forza il potere dando vita ad una sorta di triumvirato. Abbandonati ben presto gli ideali liberali e parlamentari, i Giovani Turchi avviarono un capillare processo di “turchizzazione” dell’Impero Ottomano (una strategia politica che faceva perno sui principi del “pan-turanismo”, una corrente ideologica della “rinascita ottomana” sostenuta da Ziya Gok Alp, discepolo del sociologo francese Emile Durkheim). Imbevuti di questa dottrina, che magnificava le virtù degli antichi statisti, guerrieri e condottieri turchi, il mai completamente sopito e sostanziale atteggiamento di intolleranza dei Giovani Turchi nei confronti delle minoranze dell’Impero, soprattutto quella armena cristiana, iniziò ad emergere con estremo vigore. E verso la primavera del 1914, proprio alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Giunta dei Giovani Turchi, iniziò a pianificare scientificamente quello che si sarebbe ben presto rivelato il primo “genocidio” programmato dell’era moderna. Dopo l’entrata in guerra dell’Impero Ottomano (29 ottobre 1914) a fianco degli Imperi Centrali, la comunità armena, allo scuro delle manovre segrete dei Giovani Turchi, volle dimostrare a Costantinopoli la sua fedeltà alla nazione ottomana. E nell’estate del 1914, ad Erzerum, in occasione dell’ottavo congresso del partito Dashnak, i leader del più forte movimento indipendentista armeno invitarono tutti gli iscritti ad assolvere ai loro doveri di fedeli sudditi e soldati dell’Impero. Nel giro di poche settimane ben 250.000 armeni si arruolarono nelle forze armate turche, dimostrando, già a partire dalla sfortunata campagna, scatenata nel successivo mese di dicembre da Enver nel Caucaso contro i russi, una assoluta lealtà nei confronti del governo che, nel frattempo, stava ultimando i preparativi per scatenare contro di essi un vero e proprio massacro a sorpresa.

    All’inizio del 1915, nel corso di una riunione segreta del Comitato di Unione e Progresso, il segretario esecutivo Nazim concluse testualmente i lavori: “Siamo in guerra; e non potrebbe verificarsi un’occasione migliore per sterminare tutta la popolazione armeno. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa; e se anche ciò accadesse tutti si troverebbero di fronte ad un fatto compiuto”. Un altro dei presenti, Hassan Fehmin, aggiunse poi. “Siamo nelle condizioni ideali per spedire sul fronte caucasico tutti i giovani armeni ancora in grado di imbracciare un fucile. E una volta là, possiamo intrappolarli e annientarli con facilità, chiusi come saranno tra le forze russe che si troveranno davanti e le forze speciali che piazzeremo alle loro spalle”. In quella data il Comitato decise che “lo sterminio degli armeni” sarebbe stato affidato ad una speciale Commissione a tre, comprendente lo stesso segretario esecutivo Nazim, Behaettin Shakir e il Ministro della Pubblica Istruzione, Shoukri, sotto il diretto controllo di Taalat Pascià. La commissione istituì a sua volta la cosiddetta “Organizzazione Speciale” (Teshkilate Makhsusa) nella quale entrò a fare parte una folta schiera di ex detenuti e di delinquenti ai quali venne promessa la libertà in cambio di loschi servigi. All’inizio della primavera 1915, i capi turchi scatenarono l’esercito e le solite bande curde contro gli indifesi villaggi armeni che vennero depredati. Successivamente, bande armate curde e reparti dell’esercito e della polizia, incominciarono ad arrestare - accusandoli di connivenza con il nemico russo - tutti gli esponenti dei vari partiti armeni. Nel giro di poche settimane, decine di migliaia di cristiani vennero imprigionati e sottoposti a spaventose e documentate torture. I curdi mussulmani si accanirono in modo particolare contro i sacerdoti ai quali vennero strappati gli occhi, le unghie e i denti con punteruoli roventi e tenaglie. Gevdet Bey, vali della città di Van e cognato del Ministro della Difesa Enver Pascià, fu visto dare ordine ai suoi uomini di inchiodare ferri di cavallo ai piedi delle vittime, costringendo poi quei disgraziati ad effettuare improbabili danze mortali. Il 24 aprile 1915, a Costantinopoli, nel corso di una gigantesca retata, circa 500 esponenti del Movimento Armeno vennero incarcerati e poi strangolati con filo di ferro nel profondo di sordide segrete. (4) Stando ad un rapporto ufficiale del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915, duemila soldati di etnia armena, reduci dalla campagna del Caucaso, vennero improvvisamente disarmati dai turchi e spediti in catene nella regione della città di Kharput con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Ma giunti in una vallata, i militari armeni vennero circondati da un battaglione della polizia turca e massacrati a colpi di moschetto. Tutti i cadaveri vennero poi scaraventati in una profonda grotta. Identico destino toccò ad altri 2.500 militari armeni, anch’essi condotti nei pressi di una cava di pietra, in località Diyarbakir, e lì trucidati da un grosso reparto misto formato da soldati e miliziani curdi. Sempre secondo i resoconti dei diplomatici statunitensi, i corpi delle vittime vennero seviziati, spogliati e lasciati a marcire nella cava. Nel giugno 1916, dopo avere eliminato circa 150.000 militari di origine armena, i turchi decisero di fare fuori anche un terzo degli operai armeni impiegati nella costruzione e manutenzione dell’importante linea ferroviaria Berlino-Costantinopoli-Baghdad. Ma a questo punto, gli alleati tedeschi e austriaci, che da tempo avevano palesato il loro disappunto per le orrende carneficine, denunciarono finalmente, e in maniera ufficiale, le atrocità turche. L’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il conte von Wolff-Metternich, si precipitò alla Sublime Porta, accusando direttamente Taalat Pascià e il Ministro degli Esteri Halil Pascià “di inutili crudeltà e persino di atti di sabotaggio”. Tuttavia, le vibranti proteste dell’ambasciatore lasciarono impassibili i capi ottomani.
    Fu allora che molti ufficiali e sottufficiali armeni, scampati ai massacri, tentarono di organizzare sui monti la resistenza. Nell’aprile 1915, nella città di Van, alcune migliaia di civili armeni riuscirono a disarmare la locale guarnigione turca, barricandosi nel nucleo urbano dove resistettero per molti giorni alla controffensiva ottomana e curda; fino all’arrivo, provvidenziale, di una divisione di cavalleria russa che nel mese maggio liberò dall’assedio quei disperati. Eguale successo ebbe poi la storica e ormai famosa resistenza del massiccio montuoso del Musa Dagh, nei pressi di Antiochia (Golfo di Alessandretta). Su questo acrocoro non meno di 4.000 armeni si trincerarono decisi a vendere cara la pelle. Resistettero per ben quaranta giorni agli attacchi dei reparti regolari dell’esercito ottomano e dei “volontari” civili turchi, segnando una delle pagine più eroiche della storia del popolo armeno. Alla fine, proprio quando la resistenza sembrava dovere cedere di fronte alle preponderanza dell’avversario, i reduci vennero salvati dal provvidenziale arrivo nel Golfo di Alessandretta di una squadra navale francese che riuscì in gran parte a trarli in salvo (l’epopea del Musa Dagh venne in seguito narrata da Franz Werfel nel suo celebre romanzo storico “I quaranta giorni di Musa Dah”). Purtroppo, altri tentativi di resistenza non ebbero la medesima fortuna, come accadde ad di Urfa. Qui, tutta la guarnigione armena, composta di ex-militari e civili, dovette soccombere alle soverchianti forze ottomane che, a battaglia conclusa, massacrarono tutti i difensori ancora in vita, compresi i feriti.

    Verso l’autunno del 1915, una volta eliminata la parte più giovane e combattiva della nazione armena, il Ministero degli Interni ottomano iniziò a pianificare lo sterminio di tutti gli adulti di età superiore ai 45 anni, che fino ad allora erano stati risparmiati perché ritenuti necessari al lavoro delle campagne, e degli ultimi prelati. Come testimonia questo brano tratto da un dispaccio inviato dal Ministro Taalat Pascià al governatore turco di Aleppo il 15 settembre 1915. “Siete già stato informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l’intera popolazione armena…Occorre la vostra massima collaborazione…Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi…Per quanto tragici possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità ed efficienza”. Per risparmiare denaro e per razionalizzare al massimo l’operazione, la Giunta dei Giovani Turchi avviò una deportazione di massa (dalla quale talvolta vennero però risparmiati i medici o i tecnici utili al governo, come accadde nella città di Kayseri) in modo da concentrare in pochi siti isolati tutti gli armeni ancora in vita. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata e poverissima regione siriana di Deir al-Zor, dove, dopo una marcia a piedi di centinaia di chilometri, intere famiglie armene vennero ammassate e trucidate nei modi più raccapriccianti, tanto da sollevare le inutili proteste di un gruppo di ufficiali tedeschi e austriaci che assistette a quei tragici eventi. Queste deportazioni vennero architettate anche per facilitare l’esproprio dei beni immobili armeni. Abbandonata la precedente prassi della distruzione dei villaggi, molti dirigenti del partito dei Giovani Turchi e moltissimi funzionari di polizia e comandanti delle famigerate bande a cavallo curde ebbero modo di arricchirsi proprio in virtù di questi lasciti forzati.

    Nell’inverno del ’15 il rappresentante tedesco a Costantinopoli, conte Wolff-Metternich - che, come si è già detto, non aveva mai mancato di stigmatizzare “il crudele e controproducente comportamento degli ottomani nei confronti delle minoranze cristiane” - denunciò, in una missiva inviata a Berlino, questa “orribile prassi”, accusando nuovamente i Giovani Turchi di “tradimento nei confronti della comune causa tedesco-ottomana”. L’ambasciatore tedesco agì in maniera talmente diretta da indurre Enver Pascià e Taalat Pascià a chiederne a Berlino la sua sostituzione, cosa che in effetti avvenne nel 1916. A testimonianza delle dimensioni del fenomeno “espropriazioni”, dopo la fine della guerra, nel 1919, lo scrittore e storico tedesco J.Lepsius nel suo “Deutschland und Armenien” stimò che nel 1916 “i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacché dai beni rapinati agli armeni fossero arrivati a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi”. Per onestà va comunque detto che, in certi casi, alcuni governatori (i vali) turchi, (come quello di Angora, città nella quale vivevano 20.000 armeni), mostrarono indubbia pietà nei confronti degli armeni, arrivando anche a disubbidire alle direttive del governo. Tanto che, nel luglio del ’15, il governatore di Ankara - che si era opposto agli stermini - venne subito rimosso e sostituito con un funzionario più zelante. Come il vali Gevdet che, nell’estate del ’15, a Siirt, a sud di Bitlis, “fece massacrare - come testimonia Rafael de Nogales, un mercenario venezuelano che nel 1915 si era arruolato nell’esercito turco - oltre 10.000 tra armeni, cristiani nestoriani e giacobiti, lasciando i loro corpi ignudi in pasto agli avvoltoi e ai cani randagi”. Identici resoconti possono riscontrarsi anche nei documenti e nelle memorie di numerosi addetti diplomatici tedeschi, americani, svedesi e anche italiani. Sull’edizione del quotidiano Il Messaggero di Roma (25 agosto 1915) venne pubblicata la denuncia del console generale a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Costui affermò che “degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915 (dal punto di vista religioso la comunità era composta da cristiani gregoriani, cattolici e protestanti, nda) il 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati infatti deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati”. E intanto proseguiva senza soste la deportazione degli armeni destinati ai famigerati campi di raccolta (e di sterminio) della città di Deir al-Azor. Questi, privi di baracche, servizi igienici, iniziarono ad accogliere all’interno dei loro perimetri cintati da fitti sbarramenti di filo spinato sorvegliato da guardie armate, decine di migliaia di profughi. “Ben presto - come narra lo scrittore David Marshall Lang nel suo eccellente e ben documentato “Armeni, un popolo in esilio” - in questi recinti, rigurgitanti in gran parte di vecchi, donne e bambini, scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo che si allargarono a gran parte della popolazione siriana…Solo ad Aleppo, tra l’agosto 1916 e l’agosto 1917, circa 35.000 persone morirono di tifo”. Epidemie che si rivelarono talmente devastanti da mettere in allarme lo stesso generale Otto Liman von Sanders, comandante delle forze turco-tedesche in Medio Oriente. Questi, nel 1916, cercò di attivare, attraverso il suo Servizio Sanitario, una qualche forma di assistenza, sempre contrastato dalle autorità ottomane che, accecate dall’odio verso gli armeni, non si rendevano conto dell’immane disastro che avevano provocato. In terra siriana, qualche centinaio di ragazzine e di bambini armeni riuscì però a scampare alla morte per fame, malattia o alle fucilate degli aguzzini turchi. Le ragazze, soprattutto le più giovani e graziose, vennero infatti vendute per poche piastre ad alcuni possidenti arabi che le rinchiusero nei bordelli, non prima di averle fatte convertire forzatamente all’Islam. Nell’autunno del 1918, quando le forze inglesi del generale Edmund Allenby dopo avere sconfitto i turco-tedeschi a Megiddo, occuparono la Palestina e la Siria, trovarono ancora in vita alcune decine di queste derelitte, tutte marchiate a fuoco dagli stenti e dalle malattie veneree. Sorte ancora peggiore toccò ai bambini armeni rinchiusi nei campi siriani. Gran parte di questi vennero infatti sottratti alle madri e inviati anch’essi in bordelli per omosessuali o in speciali orfanotrofi per essere rieducati come turchi mussulmani da Halidé Edib Adivart, una mostruosa virago alla quale il governatore della Siria aveva affidato il compito di “raddrizzare la schiena alla ribelle gioventù armena”.

    Nonostante tutto, il governo ottomano non si reputava ancora soddisfatto della risoluzione del “problema armeno”. Nei campi, “i cristiani infedeli morivano troppo lentamente”. Nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Gemal diedero quindi un ulteriore giro di vite alla loro politica di sterminio, intimando ai loro governatori e capi di polizia di “eliminare con le armi, ma se possibile, con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici”. In questa seconda fase del massacro ebbe modo di distinguersi proprio il governatore del distretto di Deir al-Azor, certo Zekki, che ogni mattina era solito “cavalcare nei campi tra i profughi, tirare su un bambino, farlo roteare in aria, e scagliarlo contro le rocce”. Zekki - secondo quanto scrive J. Bryce (autore di “The Treatment of Armenians”), “rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete”. E a dimostrazione dello zelo di questo governatore, basti pensare che, durante l’estate del 1916, i suoi uomini eliminarono oltre 20.000 armeni. Taalat Pascià, divenuto Gran Visir, arrivò addirittura a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’esterrefatto ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche l’ardire di chiedere “l’elenco delle assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al Governo di incassare gli utili delle polizze”.

    Intanto, nelle regioni orientali e settentrionali dell’Impero Ottomano, la situazione delle comunità armene che erano riuscite a trovare rifugio nelle valli del Caucaso si fece improvvisamente drammatica. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo aveva infatti iniziato a ritirarsi dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane, ormai libere di agire, iniziarono una meticolosa caccia all’uomo, arrivando a sopprimere circa 19.000 persone in poche settimane. Identica sorte che toccò a quei profughi cristiani che, rifugiatisi preventivamente in Transcaucasia, soprattutto in Georgia e nella regione caspica di Baku, vennero massacrati dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene. Nel settembre del ’18, nella sola area di Baku furono eliminati 30.000 armeni.
    Ma la guerra stava volgendo ormai al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili turchi delle stragi iniziarono a sparire nell’ombra, onde evitare il peggio. Quando, nell’ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali dirigenti e responsabili del partito dei Giovani Turchi e del Comitato di Unione e Progresso vennero arrestati dagli inglesi e internati per un breve periodo a Malta. Successivamente, un tribunale militare turco condannò a morte, in contumacia, Enver Pascià, Ahmed Gemal e Nazim, accusati di avere architettato e portato a compimento, tra il 1914 e il 1918, l’olocausto armeno. Ormai espatriati, nessuno dei condannati finì però nelle mani della giustizia regolare. Ci pensò il destino e, come spesso accade, lo spirito vendicativo dell’uomo a colpire chi si era macchiato di tanti efferati crimini. Il 15 marzo 1921, Taalat Pascià, forse il più crudele dei tre triumviri di Costantinopoli, venne assassinato a Berlino da uno studente armeno, tale Soghomon Tehlirian (che venne processato da un tribunali tedesco e successivamente assolto); sorte che toccò il 21 luglio 1922 anche ad Ahmed Gemal, ucciso da un altro giovane armeno a Tbilisi, in Georgia. “Strana e sotto molti aspetti decisamente consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, il più intelligente e “idealista” dei tre: il “Piccolo Napoleone” dell’Impero, il propugnatore fanatico e determinato del Pan-Turanismo” (D.M. Lang). Rifugiatosi tra le tribù turche della remota regione asiatica centrale di Bukhara, dove pensava di portare a compimento la realizzazione del suo sogno, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver si mise a capo di una rivolta turco-mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 luglio 1922, egli venne circondato con il suo piccolo esercito da un grosso reparto bolscevico (combinazione guidato da un ufficiale armeno) e ucciso. Con la morte di Enver tramontava per sempre il progetto revanchista, di chiara matrice nazionalista e razzista, che non soltanto aveva trascinato la Turchia nel disastro del Primo Conflitto, ma che aveva contribuito a riaccendere l’atavico e mai sopito odio della popolazione turca nei confronti della minoranza armena cristiana. Oggi, a distanza di tanti anni, quell’impetuoso rigurgito di intolleranza etnico-religiosa che scatenò la persecuzione contro gli armeni, sta - paradossalmente - interessando un’altra minoranza, quella curda, che da colpevole fiancheggiatrice di una strage si è trasformata a sua volta in vittima di una logica di persecuzione assurda e spietata.


    Autore: Alberto Rosselli

    http://www.santiebeati.it/dettaglio/96594
    IN PALESTINA È GENOCIDIO! ROSA E OLINDO LIBERI SUBITO!
    FUORI DALLA NATO! FUORI DALLA UE! BASTA ECOFOLLIE GREEN!


    “Sorgi, Dio, difendi la tua causa.”
    "Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli…"


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    Predefinito Re: STORIA - Genocidio armeno

    Breve storia del genocidio armeno







    L’impero ottomano alla fine del XIX secolo, è uno stato in disfacimento, la corruzione serpeggia in ogni angolo dell’impero che in breve tempo ha visto scomparire i suoi domini in Europa con la nascita, dopo secoli di barbara oppressione, degli stati nazionali balcanici. I turchi, che si erano installati nell’Anatolia di millenaria cultura greco-armena, paventano la possibilità di rivendicazioni elleniche sulle coste dell’Asia Minore (Smirne e Costantinopoli) e soprattutto la nascita di una Nazione Armena.
    Quando Abdul Hamid II sale al trono, nel 1876, l’impero ottomano conta una forte presenza cristiana. I turchi e le popolazioni assimilate in moltissime regioni non riescono a raggiungere neppure il 40% dell’intera popolazione. In Asia Minore le minoranze etniche sono costituite da greci, armeni ed assiri. Gli armeni sono concentrati nell’est dell’impero dove, già dall’indipendenza greca del 1821, la Sublime Porta (sultanato) ha fatto insediare tutti i musulmani dei territori ottomani che via via venivano persi. Gli armeni non richiedono l’indipendenza ma solo uguaglianza e libertà culturale. Abdul Hamid viene duramente sconfitto dai russi. Le conseguenze per l’impero non sono gravi poiché il primo ministro inglese Disraeli, spinto dalla tradizionale politica filo turca del suo paese, fa sì che non si venga a formare uno stato armeno libero ma solo che vengano garantiti i diritti personali dei singoli. L’Inghilterra ottiene l’isola di Cipro. Il sultano, temendo una futura ingerenza europea nella questione armena e la ulteriore perdita di territori, dà inizio alle repressioni.

    Tra il 1894 e il 1896 vengono uccisi dai due ai trecentomila armeni ad opera degli Hamidiés (battaglioni curdi appositamente costituiti dal sultano) senza contare conversioni forzate all’Islam che però non hanno seguito. A causa delle persecuzioni si assiste ad una forte ondata emigratoria. E’ l’inizio di una serie di massacri che durerà, in maniera più o meno forte, per trent’anni sotto tre regimi turchi diversi. L’atteggiamento Europeo è d’immobilismo, poiché ogni nazione ha paura che un’altra assuma maggior rilevanza nello scacchiere caucasico e mediorientale.
    Un nemico ancor più temibile del sultano si stava preparando, “i giovani turchi” ed il loro partito “Unione e Progresso” ( Ittihad ve Terakki). Questi, che avevano studiato in Europa, si erano imbevuti delle dottrine socialiste e marxiste che avevano adattato al sistema turco. La perdita dei possedimenti europei indicava loro – quale possibilità di espansione – il ricongiungimento ai popoli di etnia turca che vivono nell’ Asia centrale: tartari, kazachi, uzbechi ecc. E’ principalmente da queste due matrici culturali che nasce l’ideologia del panturchismo o panturanesimo (il Turan è il focolare della nazione turca da cui i turchi sono giunti, dopo una lunga marcia durata secoli, in Asia Minore). Dal marxismo i “Giovani turchi” avevano ripreso l’idea di uguaglianza, ma concepita in guisa che, per essere tutti uguali, tutti devono essere ottomani e per essere tutti ottomani bisogna essere tutti turchi e musulmani. Dalla constatazione dell’impossibilità del mantenimento e dell’espansione dei domini europei, essi rivolgono la loro attenzione ai turchi delle steppe dell’Asia centrale e mirano al ricongiungimento con essi per dare vita ad un entità panturca che possa andare dal Bosforo alla Cina. Gli ostacoli, che si frappongono a queste mire di formazione di un blocco megalitico turco, panturanico, sono costituiti da armeni e curdi. I curdi però, pensano i Giovani Turchi, sono musulmani e non posseggono una forte cultura, possono essere quindi assimilati facilmente; gli eventi del nostro tempo mostrano tragicamente altro. Gli armeni, oltre a essere cristiani malgrado le molte e spietate persecuzioni, posseggono anche una cultura millenaria, professano un’altra religione, hanno una loro lingua ed un loro alfabeto, non possono essere assimilati ed inoltre la loro presenza impedisce l’unificazione con gli altri turchi. Vanno quindi eliminati.

    Per portare avanti questo progetto non era pensabile appoggiarsi al “sultano rosso” (così era stato soprannominato Abdul Hamid dopo i massacri di fine Ottocento), poiché il suo governo era corrotto e debole mentre c’era invece bisogno di un governo forte e privo di remore. L’ironia della sorte vuole che proprio gli armeni diano una mano all’Ittihad per raggiungere il potere. I giovani turchi infatti, mentre segretamente tramavano l’omicidio di massa, apparentemente si mostravano liberali e laicisti. Gli armeni, pensando all’avvicinarsi di uno stato garante delle libertà fondamentali dell’uomo, appoggiano così i loro carnefici, i quali nel 1908 con un colpo di stato prendono il potere. In questo periodo gli armeni ottengono, solo teoricamente, uno status di cittadini a tutti gli effetti e nell’Armenia vengono formate sei entità vagamente autonome, chiamate villayet. Ma in segreto, a Costantinopoli, l’annientamento era stato premeditato da lungo tempo.
    I Giovani Turchi avviano una prova generale del genocidio nell’aprile del 1909, le vittime sono trentamila. Impongono la dittatura militare nel 1913, Djemal, Enver e Talaat (il triumvirato della morte) sono i ministri della Marina, della Guerra e dell’Interno. Ormai hanno pieni poteri per dirigere lo stato, possono pianificare il genocidio perfetto. In riunioni segrete si organizza lo sterminio e viene delineato il principio di omogeneizzazione della Turchia tramite la forza delle armi.

    In primo luogo intervengono nelle attività parlamentari facendo approvare una legge che permette lo spostamento di popolazioni in caso di guerra ed inoltre il ministro Enver dà vita ad un’organizzazione speciale (Teškilati Mahsusa), il cui scopo ufficiale è quello di effettuare azioni di guerriglia in tempo di guerra; in verità si tratta di una vera e propria macchina di sterminio . Enver assolda trentamila avanzi di galera. Viene messa in atto una rete segreta di comunicazione, che si avvale di un codice segreto, praticamente sarà articolata come segue: per impartire l’ordine di sterminio ad ogni comando della gendarmeria si manderà un messaggio ufficiale in cui si dirà di proteggere gli armeni, con la scusa ufficiale del trasferimento per motivi bellici, e contemporaneamente un messaggio cifrato che invece ne disporrà la carneficina ( con la clausola di distruggere quest’ultimo messaggio in modo che non ne rimanga traccia). Poiché alcuni paesi europei minacciavano ritorsioni in caso di pericolo per gli armeni, alcuni di questi documenti si salvarono perché gli esecutori volevano avere qualcosa che provasse che avevano solo obbedito agli ordini. Questi documenti saranno usati nel processo di Costantinopoli.

    I Giovani Turchi non potevano intraprendere la loro politica di annientamento, dovevano aspettare un’occasione favorevole. Tale occasione è la guerra, perché nessuna potenza sarebbe potuta intervenire a causa di questa. Talaaat Pascià, parlando al Dr. Mordtman in merito all’abolizione di ogni concessione a favore degli armeni, asserisce infatti: “C’est le seul moment propice”. All’entrata si oppongono i partiti armeni, ma ogni sforzo è vano. I Giovani Turchi iniziano la loro follia e per gli armeni inizia il METZ YEGHERN (IL GRANDE MALE). Con questo nome gli armeni chiamano il loro genocidio. In sei mesi i turchi uccideranno da un milione e mezzo a due milioni di armeni.
    Tutta l’operazione viene mascherata come un’azione di spostamento di persone da ipotetiche zone di guerra. Tutto ciò perché i Giovani Turchi vorrebbero far credere che la sparizione di due milioni di persone sia dovuta al caso.

    Le modalità di sterminio sono:

    1) Eliminazione del cervello della nazione. Il 24 Aprile 1915 vengono arrestati gli esponenti dell’élite culturale armena. Intellettuali, deputati, prelati, commercianti, professionisti saranno deportati all’interno dell’Anatolia e massacrati. Ci vorranno cinquant’anni per ricostruire una classe pensante.

    2) Eliminazione della forza. Gli Armeni dai 18 ai 60 anni vengono chiamati alle armi a causa della guerra in atto. Questi, da bravi cittadini, si arruolano. Un decreto stabilisce il disarmo di tutti i militari armeni, che vengono costituiti in battaglioni del genio. A gruppi di 100 verranno isolati e massacrati. Di 350.000 soldati armeni nessuno si salverà.

    3) E’ il turno di donne vecchi e bambini. I medici Nazim e Behaeddin Chackir sguinzagliano la loro organizzazione segreta. Nei luoghi vicino al mare si procede all’annegamento. Lo sterminio diretto viene applicato anche nelle zone in cui incombeva l’avanzata russa per il timore che alcuni si potessero salvare.

    4) Deportazioni (tehcir ve taktil = deportazione e massacro) – In primo luogo vengono eliminati i pochi uomini validi rimasti. Il capo della gendarmeria locale dà ordine ai maschi armeni di presentarsi al comune, appena arrivati vengono imprigionati ed eliminati fuori dal villaggio. Si incomincia la deportazione con la scusa dello spostamento da zona di operazioni belliche; moltissimi deportati vengono uccisi durante la marcia.
    L’editto di trasferimento dovrebbe essere comunicato con cinque giorni d’anticipo, ma nella maggioranza dei casi viene dato molto meno tempo per non offrire alle vittime la possibilità di prepararsi. Fuori dal villaggio intanto aspettano curdi e turchi per impadronirsi della abitazioni. Con una legge del 10.6.1915 e altre che seguono, i beni della persone deportate vengono dichiarati “beni abbandonati (“emvali metruke“) quindi soggetti a confisca e riallocazione. Allontanatisi i convogli, questi sono privati dei carri (bisogna camminare) si possono così facilmente eliminare le persone per fatica senza dover usare proiettili. Le donne hanno una possibilità di salvezza, convertirsi all’islam, sposando un turco ed affidando i propri figli allo Stato. Durante il viaggio questi convogli vengono attaccati e depredati, anche con l’aiuto dei militari di scorta. Il bottino viene spartito tra Stato ed esecutori materiali.

    Dopo lunghe marce, durante le quali gli attacchi dei Ceccè (30000 assassini fatti uscire di galera ed incorporati nell’organizzazione segreta) e dei curdi Hamidiés, la fame, la sete e gli stenti decimano i convogli, si giunge ai campi di sterminio della Siria che non presentano reticolati: c’è il deserto. Nel luglio del 1916 Talaat dà l’ordine di eliminare i superstiti. Questi verranno stipati in caverne, cosparsi di petrolio e poi viene dato loro fuoco.
    In tutta l’Armenia si può assistere al macabro spettacolo di corpi straziati e lasciati insepolti. In un rapporto del 1917 il medico militare tedesco, Stoffels, rivolgendosi al console austriaco dice di aver visto, nel 1915 durante il suo viaggio verso Mosul, un gran numero di località, precedentemente armene, nelle cui chiese e case giacevano corpi bruciati e decomposti di donne e bambini. I corpi delle vittime non troveranno mai cristiana sepoltura.
    Le carovane della morte vengono indirizzate verso Aleppo (in Siria) e di qui verso la località desertica di Deir el-Zor. Qui, i superstiti vengono definitivamente annientati. Il mausoleo innalzato dagli armeni a Deir el-Zor a ricordo di tale olocausto è stato raso al suolo dai miliziani dell’Isis nell’autunno 2014. L’Auschwiz degli armeni non esiste più.

    Il genocidio armeno ? Comunità Armena di Roma
    IN PALESTINA È GENOCIDIO! ROSA E OLINDO LIBERI SUBITO!
    FUORI DALLA NATO! FUORI DALLA UE! BASTA ECOFOLLIE GREEN!


    “Sorgi, Dio, difendi la tua causa.”
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  10. #10
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