TRA HOBBES E KELSEN
IL PRINCIPIO MINIMO DELLA DEMOCRAZIA

Un approccio radicalmente realistico alla questione dello Stato e delle leggi, in polemica con le teorie del diritto naturale come criterio valutativo: il Leviatano nasce dal consenso dei cittadini
Gianni Vattimo


“Bobbio non crede molto ai sistemi filosofici….ritiene invece che si debba parlare di intellettuali….del loro impegno civile e culturale, del loro lavoro di costruzione di tecniche della ragione più che di sistemi della ragione”. Queste parole di Gianni Foriero, in uno dei volumi di aggiornamento della Storia della filosofia di Abbagnano, descrivono bene la figura di Bobbio filosofo, o piuttosto di Bobbio intellettuale, quale fu in tutta la sua vita, nei lunghi anni di insegnamento universitario e in tutta la sua carriera di pensatore impegnato in una riflessione nutrita di intenso rapporto con la politica .
Come confessava nei colloqui autobiografici con Alberto Papuzzi, Bobbio filosofo fu influenzato soprattutto da due grandi autori, Thomas Hobbes e Hans Kelsen. La sua eredità di pensiero è segnata da queste due presenze, che ispirano anche la rilettura dei tanti altri filosofi (Kant, Locke, Hegel, Marx), giuristi, teorici della politica con cui intrattenne un continuo dialogo ideale. Perché Hobbes e perché Kelsen, in una personalità che , con piena ragione, noi consideriamo come uno dei più strenui difensori, teorici e pratici dei diritti umani, di un liberalsocialismo e di una sinistra che sembrano non avere nulla da spartire con il pessimismo dell’autore del Leviatano, e nemmeno con il positivismo giuridico del pensatore tedesco? Non si può certo dire che il liberalsocialismo sia l’esito logicamente necessario di una sintesi tra Hobbes e Kelsen, anzi è forse un esito del tutto eccezionale; ma in fondo proprio qui può essere cercata l’originalità filosofica del maestro torinese.
Attraverso lo studio di Hobbes, Bobbio persegue, nei diversi saggi che vi ha dedicato un approccio radicalmente realistico al problema dello Stato e delle leggi. E’ in nome di un tale realismo che egli conduce la sua polemica contro le teorie del diritto naturale come fondamento e criterio di valutazione delle leggi. Il giusnaturalismo gli appare inficiato da due grandi limiti , che lo rendono improponibile nonostante la funzione spesso rivoluzionaria e antiautoritaria che ha avuto nella storia, a cominciare dalla rivoluzione francese. Parlare di un diritto di natura significa da un lato riferirsi a teorie molteplici ed eterogenee, ognuna delle quali pretende di essere oggettivamente vera a preferenza di tutte le altre, mentre è evidente che ciascuna attribuisce al termine “natura” un significato diverso giungendo a esiti contraddittori; e comunque, in secondo luogo, commette l’errore logico stigmatizzato da Hume, passando dalla descrizione (per esempio della natura dell’uomo ) alla prescrizione (se sei così, devi agire così; ma perché mai?).
Hobbes ha insegnato che lo stato di natura è solo quello in cui non vi sono leggi, la con tradizione della selva preventiva in cui ciascuno è in guerra con tutti gli altri per la sopravvivenza. Una tale contraddizione non fornisce nessun modello normativo. La sola cosa che può fare l’uomo è cercare di uscirne conferendo a un sovrano il monopolio dell’uso della forza, e così nasce lo Stato, il Leviatano, come lo chiama Hobbes con il nome del mostro biblico, insistendo sul suo carattere di macchina di artificio inventato a scopo di sopravvivenza . Bobbio è affascinato da questa teoria perché vi trova l’idea del carattere quasi sempre artificiale, ma dunque anche liberamente fondato, dello Stato. “Il Leviatano è sostanzialmente il detentore del monopolio della forza legittima, legittima perché fondata sul consenso dei cittadini “. Un consenso che deriva a sua volta da una decisione razionalmente calcolata, da un qualche principio di autorità.
Il positivismo giuridico di Kelsen, cioè la teoria secondo cui la validità delle leggi non dipende da qualche valore dato come fondamento ma solo dalla coerenza formale di un sistema di norme posto storicamente da una autorità, corrisponde bene a queste premesse hobbesiane, che contro ogni apparenza non danno necessariamente luogo a una visione autocratica dello Stato. Bobbio, con l’aiuto di Kelsen, vi vede anzi la base di una democrazia “procedurale” , cioè organizzata sul principio minimo del consenso, che è anche quello di Hobbes. Con questo, naturalmente, si va molto oltre Hobbes – ma senza cadere negli autoritarismi, di destra o anche di sinistra, che costituiscono il rischio di ogni sottomissione della politica a una qualche verità.
Bobbio ha sviluppato queste idee sul diritto e lo Stato in una lunga vicenda politica che è quella dell’Italia degli anni del fascismo e della repubblica. A esse si è sempre ispirata anche la sua critica dell’ortodossia marxista, condotta in nome di quel “neoilluminismo” che lo accomunò negli anni ’50 a Nicola Abbagnano, Ludovico Geymonat e altri filosofi torinesi, che intendevano riprendere l’eredità del razionalismo settecentesco per promuovere una filosofia più vicina alle scienze e sensibile ai risultati della riflessione anglosassone sul linguaggio.
Neoilluminista è anche la difesa che Bobbio, senza alcuna simpatia giusnaturalistica, fa dei diritti dell’uomo, in uno dei suoi ultimi libri. E’ essenziale per la stessa nozione di questi diritti il fatto che siano stati solennemente sanciti nella Dichiarazione universale del 1948. La loro universalità non fa più appello alla”natura” (con tutte le ambiguità di questo concetto) , ma è fondata , non solo in linea di principio , su un consenso (l’Onu) universale . E la successiva Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha previsto anche la possibilità concreta di ciascun singolo cittadino europeo di ricorrere a un tribunale apposito.
Oggi che il mondo respira di nuovo aria di guerra (una guerra spesso motivata proprio con l’appello generico ai diritti naturali), questa fiducia nelle dichiarazioni e nelle dichiarazioni formali sembra troppo poco. Bobbio è consapevole di questo limite : “non si può porre il problema dei diritti dell’uomo ….. astraendolo dai problemi della guerra e della miseria”. Eppure, mettere finalmente i diritti in parole, formalizzarli, è forse l’unica realistica possibilità di cui disponiamo per sottrarci alla dura realtà della violenza.