Le tasse sono un furto, lo dice la parola stessa: il significato di base del termine è infatti quello di esazione, letteralmente “tirare fuori con la forza”, estorcere, se volessimo trovare un sinonimo. Eppure oggi la maggioranza dei cittadini stenta a riconoscere questa forma relativamente moderna di schiavitù, che ci costringe a lavorare sino a giugno per lo Stato. Secoli di propaganda hanno anzi portato molti di noi a reputare la tassazione “una cosa bellissima”, giusta ed indispensabile per una società che voglia dirsi civile.
Proviamo ad analizzare insieme i principali argomenti utilizzati a sostegno di quest’ultima tesi.
Le tasse sono il corrispettivo dovuto per tutta una serie di servizi che lo Stato ci offre, e che spesso soltanto lo Stato è in grado di fornire, si dice, ed è grazie ad esse che le fasce più deboli della popolazione possono essere aiutate. Rispondere a tale argomentazione affermando che il grosso di quanto prelevato dalle nostre tasche finisce in realtà per essere utilizzato ad esclusivo vantaggio della casta al potere, e che tutti i servizi approntati dallo Stato (pochi, sporchi, brutti e cattivi) potrebbero tranquillamente essere forniti, ed in modo migliore, da privati in concorrenza fra di loro - cosicchè ognuno di noi potrebbe decidere liberamente chi pagare e per cosa farlo - sarebbe abbastanza semplice, specie di questi tempi; preferisco però focalizzare l’attenzione su un altro punto, concentrandomi sulla natura dell’atto in questione.
Come scrive Guglielmo Piombini “…supponiamo che qualcuno si presenti a casa tua e dica: «Ti offro questo servizio di protezione, e tu non puoi rifiutarlo; pertanto, che tu lo voglia o meno, mi devi pagare. Se non lo fai domani si presenteranno alcuni uomini al mio servizio, riconoscibili dalla divisa, a riscuotere il dovuto. Se continuerai a rifiutarti di pagare per i servigi che ti offro, ti preleveranno e ti chiuderanno in una cantina dalle finestre sbarrate, dalla quale non potrai uscire. Se insisterai ad opporti, i miei uomini sono autorizzati ad usare le maniere forti, fino ad arrivare, in casi estremi, ad ucciderti». Come giudicherebbe il senso comune un comportamento del genere? Non vi sono dubbi: si tratta di un caso eclatante di estorsione: un'azione che chiunque riuscirebbe al primo colpo a giudicare come ignobile e criminale. Eppure lo Stato, sfidando secoli di buon senso, è riuscito tanto bene nella sua opera di corruzione delle menti da far apparire questa azione, quando commessa dai propri membri, come del tutto legittima: non rapina ma legittima tassazione!”
Tassare insomma è intrinsecamente criminale, anche se quei soldi finissero davvero col finanziare servizi utili e con l’aiutare i più bisognosi, perché viola i nostri diritti di proprietà. Negarlo significa rigettare il concetto stesso di proprietà privata: un furto resta sempre un furto, qualsiasi utilizzo si faccia poi del bottino.
A chi appartengono le ricchezze tassate? Al ministro dell’economia, ai parlamentari, alla Guardia di Finanza o a chi le ha guadagnate col sudore della fronte? Una società fondata sul furto, è una società giusta? E’ morale derubare, anche se fosse per una giusta causa?
Non si può sostenere che chi evade il fisco sia un ladro: il furto implica per l’appunto la proprietà, e non è certo lo Stato il proprietario di quanto produciamo ogni giorno lavorando. Nemmeno utilizzare beni o servizi pubblici senza contemporaneamente pagare il pizzo al fisco configura un furto, dal momento che lo Stato non può dirsi proprietario legittimo di alcunché, essendosi impossessato di tutti i “suoi” beni con la forza, l’esproprio e la violenza. Altro che contratto sociale: qualcuno di voi ne ha mai visto e firmato uno? E soprattutto, può esistere un contratto di tal fatta, un contratto “universale”?
La democrazia è la scusa più ricorrente utilizzata dai sostenitori della tassazione per rispondere alla serie di interrogativi che ho appena posto. La maggioranza dei cittadini, si dice, ritiene la tassazione legittima, e tanto basta: chi non ci sta, che emigri! Ma un crimine resta sempre tale, anche se a metterlo in atto e a sostenerlo è una maggioranza. Anche il voto alle elezioni non giustifica nulla: molti di noi preferirebbero non avere un padrone, piuttosto che scegliersene uno con cadenza quinquennale. Non è con una X sulla scheda elettorale che diamo mandato agli uomini politici affinchè decidano delle nostre ricchezze: il mandato imperativo è anzi espressamente vietato dalla Costituzione, e parlare di rappresentanza ha un che di psicotico.
Se abbandoniamo la morale per guardare la questione in termini di utilità, i risultati non sono comunque più lusinghieri: un fisco rapace, che magari si accanisca contro i più ricchi, è incompatibile con una realtà sempre più “globale”, dove capitali e cervelli si muovono con estrema facilità punendo i sistemi più oppressivi, e finisce col colpire in modo maggiore proprio coloro che finge di voler aiutare: il caso Reagan mostra senza tema di smentita che è solo diminuendo energicamente ed in un breve lasso di tempo le tasse, anche e soprattutto alle fasce più agiate della popolazione, che il contributo di queste ultime alle casse dello Stato aumenta, nel mentre diminuisce quello dei meno abbienti.
Il premio nobel per l’economia Prescott ce lo ha spiegato recentemente: è solo con un fisco leggero che l’economia può crescere, i salari aumentare e la disoccupazione diminuire.
Dalle nostre parti invece la parola d’ordine è redistribuire, come se per redistribuire ricchezza non fosse prima necessario crearla per mano di imprese e lavoratori lasciati liberi di esprimere i propri talenti.
L’evasore fiscale appare insomma come un eroe dei nostri tempi, capace di indicare la via a chi l’ha smarrita sotto i colpi di un potere ingiusto e sempre più invadente: le tasse sono un furto, non pagare è legittima difesa!