dall'Arena:
Hanno abbandonato il campo di Boscomantico, dove hanno vissuto per due anni, e sono giunti in città
I nomadi si barricano in chiesa
A rischio espulsione, gli zingari hanno occupato San Tomaso
I centri sociali appoggiano la protesta di una cinquantina di Rom
Hanno abbandonato il campo di Boscomantico, dove vivevano da due anni, in anticipo rispetto alla scadenza ultimativa - imposta da Roma - del 31 agosto per evitare il decreto d’espulsione dall’Italia e in fila indiana, lentamente, ieri sera si sono diretti nella chiesa di San Tomaso Becket, di fronte a Ponte Nuovo. «Vediamo se ci cacceranno anche dalla casa del Signore», dice a nome di tutti Lidia, donna Rom di un’età indefinita, che stringe al petto una creatura che potrebbe esserle sia figlio sia nipote. Sono una cinquantina, di cui 40 bambini dai due mesi agli otto anni, gli zingari di origine rumena che ieri sera hanno pacificamente occupato la chiesa cittadina, cogliendo di sorpresa il parroco, don Carlo Vinco, che pure è abituato a condividere le sofferenze e le peripezie degli ultimi. «Perchè hanno scelto la mia chiesa?», si domanda don Carlo, «probabilmente perché credevano di trovare in me un amico. Lo sono, per carità, ma se mi avessero avvisato prima avremmo potuto gestire la situazione in maniera diversa. In chiesa non c’è un bagno, il più vicino è nella sagrestia e per arrivarci bisogna attraversare la strada. Come faranno con i bambini? E come faranno a bere e a mangiare? Sono sconcertato e il vescovo, che si tiene in continuo contato con il prefetto, lo è più di me. Ma non posso cacciarli. Se la loro presenza rappresenta un problema di ordine pubblico, non sta certo a me decidere di farli uscire dalla chiesa. Possono dormire qui, stanotte. Chi non c’entra con loro però se ne deve andare». Nel momento in cui andiamo in stampa, le famiglie Rom sono ancora accampate nella chiesa. «Non ci muoviamo di qui finché non ci trovano un posto in cui andare a dormire», afferma con tono perentorio Lidia, mentre le altre mamme-bambine fanno capannello attorno all’anziana del gruppo. A lei come a tutte le donne maritate della piccola comunità zingara brillano un paio di denti d’oro in bocca, nell’arcata superiore. «È la caratteristica della nostra gente», spiega un’adolescente che allatta una creatura di pochi mesi, «quando la donna si sposa deve farsi i due incisivi d’oro. Chi può anche quattro». Una nota di colore in tanta miseria e disperazione. Nell’atrio della chiesa, sul lato destro, gli zingari hanno accatastato le loro povere cose, ciò che resta di sei anni trascorsi nella nostra città. Gli ultimi due nella baraccopoli di Boscomantico. Si fa avanti un uomo, occhi e baffi scurissimi, che culla il proprio figlioletto: «Siamo arrabbiati, ci hanno preso in giro tutti quanti», si infervora, «il Comune prima manda a scuola i nostri figli, ci promette una sistemazione e poi ci dice che entro tre giorni dobbiamo lasciare il campo. Non si trattano così le persone, è indegno». «La mia storia è ancora più incredibile», s’intromette una ragazza. «Sono minorenne e ho una bimba di pochi mesi. La polizia mi ha detto che posso tornare al campo, con la bambina, ma senza mio marito. Il Comune però dice che fra due giorni comunque mi faranno andare via da Verona e dall’Italia. Cosa devo fare? Voglio un posto dove andare a dormire, con mia figlia e mio marito». A indirizzare gli zingari rumeni nella chiesa di San Tomaso sono stati i ragazzi e le ragazze del Centro sociale la Chimica e del movimento antirazzista che da tempo seguono le loro vicende. Spiega a nome di tutti Francesca Bragaja: «Perché siamo arrivati all’occupazione della chiesa? Non c’era altra possibilità. Sono disperati e ci hanno chiesto di poter raccontare almeno la loro storia, di non diventare invisibili, dopo che per mesi sono stati imbrogliati e privati della loro dignità. Li hanno illusi, inserendoli nel progetto del Comune, per poi concedere loro tre giorni di tempo per andarsene. Senza una spiegazione». «Non mangeremo fino a quando non ci daranno un tetto», ribadisce Lidia. Che però non si tira indietro di fronte ai piatti caldi inviati dai compagni della vicina Festa in rosso. A una certa ora, don Carlo invita gli estranei a uscire. Nella chiesa trasformata in dormitorio restano loro, i sans papier giunti dalla Romania.