Demagogia, spreco pubblico e politica della casa

Ora i Comuni vogliono l’Ici progressiva. La proposta è di Francesco Raphael Frieri, assessore al Bilancio del Comune di Modena (partito: Rifondazione comunista; reddito personale complessivo: 13.228 euro – dati sito emilianet). L’assessore giunge ad ipotizzare – oltre che l’adeguamento delle rendite catastali “a valori più prossimi a quelli di mercato” – cinque scaglioni di aliquote, con limiti massimi del 4 per mille (per il primo), dell’8, del 12, del 16 e financo del 20 per mille.

L’idea ha dell’incredibile. L’Ici è un’imposta patrimoniale ordinaria, e questo è già di per sé un assurdo, per due – concorrenti, e pur separatamente validi – motivi: prima di tutto, perché una patrimoniale non straordinaria ha necessariamente, e comunque, effetti ablativi del bene inciso (lo ha sottolineato anche la Corte costituzionale di un Paese civile, la Germania – sent. 22.6.'95); in secondo luogo, perché – colpendo il valore, e non il reddito, del bene – l’Ici è un “corpo estraneo” rispetto al sistema impositivo italiano, uniformato al criterio della redditualità.

Ma quella – poi – di trasformare un’imposta patrimoniale in un’imposta progressiva (cioè, in sostanza: di attribuire carattere personale ad un’imposta reale) è una proposta davvero inedita – in letteratura, come storicamente – e, soprattutto, un fuor d’opera finora da alcuno impensato, che risulti. Ma spaventa che la golosità di qualche politico, e la voracità del pubblico, possa portare anche semplicemente a concepire in astratto una cosa del genere (e qua, invece, la si è anche proposta in termini operativi).

Le obiezioni a questo ragionamento, e a sostegno della (indecorosa) proposta, sono due, ed entrambe facilissime da prevedere. La prima. Con la progressività, e la relativa modulazione delle aliquote, si colpirebbero di meno i poveri, e di più i ricchi. Ma questa è una vecchia fola, nella quale solo gli allocchi dichiarati credono ancora. Un ragionamento del genere l’abbiamo sentito dai patri amministratori comunali anche a proposito dell’evasione: recupereremo quanto sfugge, e poi a poco a poco ridurremo le aliquote. Ma s’è visto com’è andata a finire: le aliquote (a più di 10 anni dall’istituzione – Governo Amato – dell’imposta “straordinaria”) non sono mai state così bestialmente alte come oggi (una scusa o l’altra, si trova sempre); e ora, poi, i Comuni hanno addirittura preteso – e candidamente ottenuto dal patrio Governo – di alzare l’Ici (perché questa è la sostanza delle cose) aumentando la base imponibile, attraverso un riclassamento delle unità immobiliari basato sull’aumento dei valori immobiliari, proprio in un momento in cui i redditi – invece – diminuiscono. L’aveva vista giusta Einaudi, ancora alla Costituente (Sottocommissione per la Costituzione, 31.7.1946): in presenza di una scala di aliquote, gli amministratori comunali finiscono tutti col dare per scontato (in buona o malafede) di avere pressoché l’obbligo di applicare l’aliquota massima.

La seconda (obiezione). Se gli amministratori comunali utilizzeranno male la progressività dell’Ici, saranno puniti alle elezioni. Ma anche questa è una “scusa frusta”, come direbbe ancora Einaudi. Il controllo elettorale non funziona in molte fattispecie (per esempio, per le seconde case: ignobilmente gravate dai Comuni – nella latitanza di Parlamento e Governo – di aliquote assurdamente alte proprio perché possedute da gente che non vota nel Comune interessato, alla faccia del secolare – e civile – principio della rivoluzione americana, nessuna tassazione senza rappresentanza). Ma gli è, soprattutto, che – anche indipendentemente da singole fattispecie – il controllo elettorale funziona oramai in ipotesi solo residuali, stante la maglia di interessi che l’apparato pubblico – a bell’apposta assurdamente dilatato – oggi controlla, sì che non si riesce a cambiare nulla pressoché ovunque (del resto, chi avrebbe in passato cambiato – la storia ce lo insegna – certi regimi, se non ci fosse stata una rivoluzione o l’altra, o comunque fatti – specie esterni – scatenanti?).

Un esempio? Eccolo servito: chi può mai sperare di cambiare qualcosa in Umbria, la regione con più dipendenti pubblici in Italia (61 ogni 1000 abitanti)? Al proposito, l’ha detta chiara chiara Ernesto Galli della Loggia (Rossi per forza, ed. Confraternita delle Foglie): “Penso alla moltiplicazione vertiginosa negli ultimi anni delle spa di proprietà pubblica, ognuna con presidente, vicepresidente, cda, uno stuolo di impiegati e di segretarie, tutti con regolare stipendio fisso. E’ così che si costruiscono maggioranze elettorali di ferro”. Ancora Galli della Loggia: “Non c’è ricambio. C’è una forte compenetrazione fra amministrazione pubblica e struttura di partito. A comandare sono sempre le stesse persone che si alternano da una carica all’altra”. In queste situazioni – che condizionano intere famiglie, una dopo l’altra – può mai vincere il partito del cambiamento, della riduzione – fra l’altro – delle tasse? La riduzione delle tasse – come dicevano gli economisti di Reagan, che diminuendo il carico fiscale personale ottenne tra l’altro l’aumento del gettito – si ottiene in un modo solo: affamando la bestia. Vale a dire: affamando la spesa pubblica.

L'Opinione, 13 settembre 2005.
di Corrado Sforza Fogliani