Periodicamente ritorna la discussione, tra lo storiografico e il pettegolo, sulle repentine conversioni di intellettuali che avevano collaborato con il fascismo all’antifascismo, preferenzialmente nella sua versione comunista.
A questo argomento dedica un saggio Mirella Serri (“I redenti”, Corbaccio), nel quale si ricostruisce la biografia di vari intellettuali di fama, da Renato Guttuso a Giulio Carlo Argan, da Mario Alicata a Galvano della Volpe, che dopo aver attivamente collaborato alla rivista Il Primato di Giuseppe Bottai, anche negli anni del conflitto, finirono nell’orbita del Pci, per il quale alcuni assunsero una funzione centrale nella politica culturale.
La discussione sul tema ebbe una tappa importante quando Ruggero Zangrandi pubblicò “Il lungo viaggio attraverso il fascismo”, in cui descriveva il percorso di una generazione di intellettuali, lui compreso, che erano stati attirati dal fascismo per poi confluire nell’antifascismo e nel comunismo.
Il libro provocò una reazione negativa negli ambienti del Pci, anche perché trattava vicende che coinvolgevano dirigenti di primo piano, come Pietro Ingrao, vincitore dei Littoriali.
La critica si arrestò bruscamente, però, quando Palmiro Togliatti espresse il suo interesse e un certo apprezzamento.
Forse, per capire come si è svolto questo processo, che è stato alla base dell’egemonia comunista sulla cultura italiana, bisogna partire proprio dal ruolo di Togliatti.
Il leader del Pci, al di là della vulgata propagandistica che descriveva un regime fascista isolato dal paese, sapeva bene che invece il fascismo aveva raccolto un alto grado di consenso, mediato dagli intellettuali, dal cinema e dalla radio e da organizzazioni di massa come il dopolavoro.
Ne aveva descritto il funzionamento in una serie di “lezioni sul fascismo” tenute in Russia e solo dopo molti anni pubblicate in Italia.
Con grande finezza Togliatti aveva anticipato le conclusioni cui sarebbe poi giunto Renzo De Felice. Su questa base, tornato in Italia, affrontò il problema della “riconversione” del sistema di consenso, sapendo che, per effetto del trattato di Yalta, il Pci avrebbe potuto essere il protagonista dell’operazione solo impiegando forme di allettamento e persuasione, essendo precluse al partito quelle più rudi impiegate dove i comunisti governavano all’ombra delle baionette dell’Armata rossa.
Operazioni politiche controverse, come il sostanziale abbandono dell’epurazione e l’emanazione dell’amnistia per i reati commessi nel corso della lotta tra fascisti e antifascisti, erano parte di questo progetto.
Le proteste di settori della sinistra, soprattutto socialisti e azionisti, non distolsero Togliatti dal suo disegno, che consisteva nel presentare il Pci come strumento per assicurare agli intellettuali (ma anche ai funzionari dello Stato) che erano stati coinvolti nel regime, una sorta di “perdono”. Naturalmente il Pci cercò di trarre il massimo vantaggio da quest’operazione, cui pochi vollero sottrarsi, ma il problema è la funzione che questa scelta del Pci ha avuto sulla cultura italiana e, in sottordine, il motivo per cui solo il Pci, e nessun altra forza di orientamento democratico, riuscì ad attuarla.
L’operazione di “redenzione” dell’intellettualità implicata nel fascismo (cioè quasi tutta: gli accademici che avevano rifiutato il giuramento di fedeltà al regime erano stati una dozzina e nessuno si era espresso pubblicamente contro le leggi razziali) ebbe come effetto sostanziale la continuità nelle strutture di direzione della vita culturale, che a sua volta favorì una sostanziale continuità anche negli orientamenti, purché alle lodi per il duce si sostituissero quelle per le sorti del proletariato. Si tratta di valutare se i vantaggi di tale continuità, innegabili in un paese che doveva affrontare la propria ricostruzione materiale e spirituale, siano stati superiori a quelli che avrebbe prodotto un’ipotetica “rottura”, come quella richiesta, per esempio, da Elio Vittorini e dal suo Nuovo Politecnico, che proprio per questo entrò ben presto in collisione con il Pci e con il suo segretario. Lo strumento ideologico impiegato per questa operazione era tutt’altro che elementare, e consisteva in una generalizzazione, un po’ ipostatica ma politicamente efficace, del concetto elaborato da Antonio Gramsci di cultura nazional-popolare.
Col senno di poi si può pensare che alcuni difetti permanenti della cultura italiana, a cominciare dalla centralità delle discipline umanistiche e dalla subalternità di quelle scientifiche, formalizzate nella scuola gentiliana, traggono origine da questa scelta continuistica del Pci. Resta il fatto che l’operazione di Togliatti fu condotta con un’ampiezza di visione che è mancata alle altre proposte politiche, non dotate di una concezione propria e originale della battaglia culturale o, com’è stato a lungo il caso dei cattolici, tributarie di quella visione in sedi esterne a quelle dell’elaborazione politica.

Sergio Soave su il Foglio

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